Tutti a dire che “bisogna spazzare via il marcio” (come scrive il quotidiano della Cei). Ottima idea. Ma se il famoso “marcio” non fosse più asportabile, nel senso che è un marcio strutturale, non l’eccezione ma la regola, non la devianza ma il costume che uniforma? Non credo che i tanti soci del mercato nero capitolino ritenessero di essere dei criminali. Qualcuno sì, certamente i boss, i Carminati e i Buzzi. Ma gli altri? Quanti di loro pensavano semplicemente di partecipare a un business informale, esteso a tanta parte della politica romana, quanti erano convinti di arrotondare lo stipendio, da padri di famiglia, facendo un po’ di nero come tanti italiani negli anni della crisi? Ciò che davvero è stato “spazzato via”, in appena un paio di decenni, sono le differenze ideologiche, le identità culturali, le appartenenze di partito prima avvertite come ricchezza di cui vantarsi e adesso come un impiccio di cui sgravarsi.
Sinistra e destra nello stesso sacco, fascisti che fondano la banda (nelle migliori tradizioni della storia criminale romana) e “compagni” che chiedono di partecipare, come si spiega una promiscuità così stretta se non con il fatto che la carriera personale e le tasche da riempire sono la sola vera linea-guida che traccia il percorso, se non di tutti, di moltissimi? Se è questo il marcio - questo non poter essere più niente al di fuori di se stessi e dei propri porci comodi - come ci si può illudere di “spazzarlo via”? È l’orribile motto plebeo, “so’ tutti uguali e tutti ladri”, che rischia l’autorevole convalida delle cosiddette classi dirigenti. Metà paese non va più a votare anche per questo.
*** Michele SERRA, giornalista, saggista, scrittore, 'l'amaca', 'la Repubblica', 7 giugno 2015
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