Il dovere di chiedere perdono, quando si fa il medico, è sempre più importante, oggi, nella misura in cui il dilagare della tecnologia conduce alla fatale disumanizzazione del malato. Non sempre si ascoltano i pazienti, non sempre nemmeno li si guarda, divorati dalla fretta di giungere alla diagnosi con i soli strumenti tecnologici e, in ogni caso, alla sola farmacoterapia. Non si ha tempo di condividere il dolore e l’angoscia, la tristezza e la inquietudine, la timidezza e la solitudine di una paziente, o di un paziente. Ciascuno di noi, e non solo in psichiatria, è continuamente esposto al rischio di essere portatore di una violenza, certo, involontaria ma radicalmente antiterapeutica. La violenza delle parole che non testimoniano umana partecipazione e speranza; la violenza delle parole e dei gesti che non rispettano il silenzio e il pudore; la violenza della indifferenza e della noncuranza; la violenza delle comunicazioni che non tengano conto delle attese e del dolore dei pazienti. La illusione, direi, di potere (di dovere) dire la “verità”, ogni (talora apparente) verità a chi sta male; dimenticando l’invito alla prudenza e alla discrezione che rinascono da alcune bellissime parole di Hugo von Hofmannsthal: come è difficile dire la verità senza mentire. Quanti motivi ci sono perché ciascuno di noi non possa non chiedere perdono ai pazienti per le cose, anche tecnicamente adeguate, che siano state fatte senza carità e senza amore.
*** Eugenio BORGNA, 1930, medico psichiatra e saggista, Le emozioni ferite, Feltrinelli, 2009.
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