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domenica 4 ottobre 2020

#MOSQUITO / La costruzione del nemico (Umberto Eco)

Pare che del nemico non si possa fare a meno. La figura del nemico non può essere abolita dai processi di civilizzazione. Il bisogno è connaturato anche all’uomo mite e amico della pace. Semplicemente in questi casi si sposta l’immagine del nemico da un oggetto umano a una forza naturale o sociale che in qualche modo ci minaccia e che deve essere vinta, sia essa lo sfruttamento capitalistico, l’inquinamento ambientale, la fame del Terzo mondo. Ma se pure questi sono casi “virtuosi”, come ci ricorda Brecht, anche l’odio per l’ingiustizia stravolge la faccia. 

L’etica è dunque impotente di fronte al bisogno ancestrale di avere nemici? Direi che l’istanza etica sopravviene non quando si finge che non ci siano nemici, bensì quando si cerca di capirli, di mettersi nei loro panni. Non c’è in Eschilo un astio verso i Persiani, la cui tragedia egli vive tra loro e dal loro punto di vista. Cesare tratta i Galli con molto rispetto, al massimo li fa apparire un poco piagnoni ogni volta che si arrendono, e Tacito ammira i Germani, trovandoli anche di bella complessione, limitandosi a lamentare la loro sporcizia e la loro renitenza ai lavori faticosi perché non sopportano caldo e sete. 

Cercare di capire l’altro significa distruggerne il cliché, senza negarne o cancellarne l’alterità. 

Ma siamo realisti. Queste forme di comprensione del nemico sono proprie dei poeti, dei santi o dei traditori. Le nostre pulsioni più profonde sono di ben altro ordine.

*** Umberto ECO, semiologo, scrittore, Costruire il nemico, La Nave di Teseo, 2020


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venerdì 18 settembre 2020

#MOSQUITO / Immigrazioni e Migrazioni (Umberto Eco)

Mi pare che non si sia fatta sinora una fenomenologia dei diversi tipi di migrazione, ma certo le migrazioni sono diverse dalle immigrazioni. Si ha solo "immigrazione" quando gli immigrati (ammessi secondo decisioni politiche) accettano in gran parte i costumi del paese in cui immigrano, e si ha migrazione quando i migranti (che nessuno può arrestare ai confini) trasformano radicalmente la cultura del territorio in cui migrano. 

Noi oggi, dopo un XIX secolo pieno di immigranti, ci troviamo di fronte a fenomeni incerti. Oggi - in un clima di grande mobilità - è molto difficile dire se certi fenomeni sono di immigrazione o di migrazione. C'è certamente un flusso inarrestabile da sud verso nord (gli africani o i medio-orientali verso l'Europa), gli indiani dell'India hanno invaso l'Africa e le isole del Pacifico, i cinesi sono ovunque, i giapponesi sono presenti con le loro organizzazioni industriali ed economiche anche quando non si spostano fisicamente in modo massiccio. 

È ormai possibile distinguere immigrazione da migrazione quando il pianeta intero sta diventando il territorio di spostamenti incrociati? Credo sia possibile: come ho detto, le immigrazioni sono control-labili politicamente, le migrazioni no; sono come i fenomeni naturali. Sino a che vi è immigrazione i popoli possono sperare di tenere gli immigrati in un ghetto, affinché non si mescolino con i nativi. Quando c'è migrazione non ci sono più ghetti, e il meticciato è incontrollabile. 

I fenomeni che l'Europa cerca ancora di affrontare come casi di immigrazione sono invece casi di migrazione. Il Terzo Mondo sta bussando alle porte dell'Europa, e vi entra anche se l'Europa non è d'accordo. Il problema non è più decidere (come i politici fanno finta di credere) se si ammetteranno a Parigi studentesse con il chador o quante moschee si debbano erigere a Roma. Il problema è che nel prossimo millennio (e siccome non sono un profeta non so specificare la data) l'Europa sarà un continente multirazziale o, se preferite, "colorato. Se vi piace, sarà così; e se non vi piace, sarà cosi lo stesso. 

Questo confronto (o scontro) di culture potrà avere esiti sanguinosi, e sono convinto che in una certa misura li avrà, saranno ineliminabili e dureranno a lungo. Però, i razzisti dovrebbero essere (in teoria) una razza in via di estinzione. È esistito un patrizio romano che non riusciva a sopportare che diventassero cives romani anche i galli, o i sarmati, o gli ebrei come san Paolo, e che potesse salire al soglio imperiale un africano, come è infine accaduto? Di questo patrizio ci siamo dimenticati, è stato sconfitto dalla storia. La civiltà romana era una civiltà di meticci. I razzisti diranno che è per questo che si è dissolta, ma ci sono voluti cinquecento anni - e mi pare uno spazio di tempo che consente anche a noi di fare progetti per il futuro. 

*** Umberto ECO, 1932-2016, semiologo, filosofo, saggista, scrittore,  Le migrazioni del terzo millennio, 1997, convegno di Valencia, in Umberto Eco, Migrazioni e intolleranza, Edizioni la Repubblica, 2020
https://it.wikipedia.org/wiki/Umberto_Eco


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martedì 18 febbraio 2020

#MOSQUITO / L'intolleranza più pericolosa (Umberto Eco)

L’intolleranza piú pericolosa è proprio quella che sorge in assenza di qualsiasi dottrina, a opera di pulsioni elementari. […] Un razzismo non scientifico come quello della Lega italiana non ha le stesse radici culturali del razzismo pseudoscientifico (in realtà non ha alcuna radice culturale), eppure è razzismo

Gli intellettuali non possono battersi contro l’intolleranza selvaggia, perché di fronte alla pura animalità senza pensiero il pensiero si trova disarmato. […] Dunque l’intolleranza selvaggia si batte alle radici, attraverso una educazione costante che inizi dalla piú tenera infanzia, prima che sia scritta in un libro, e prima che diventi crosta comportamentale troppo spessa e dura.

*** Umberto ECO, 1932-2016, semiologo, filosofo, saggista, scrittore,  Migrazioni e intolleranza, La nave di Teseo, 2019, citato da Marco Aime, Classificare, separare, escludere, Einaudi, 2020


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giovedì 21 febbraio 2019

#CIT / Il computer non è una macchina intelligente (Umberto Eco)

Umberto ECO, 1932-2016
semiologo, filosofo, saggista, scrittore 
dalla prefazione a Claudio Pozzoli, 
Come scrivere una tesi di laurea con il personal computer, Rizzoli, 1988
'wikiquote', qui

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mercoledì 26 settembre 2018

#VIDEO / Alla intolleranza ci si educa (Umberto Eco)


Alla tolleranza ci si educa
Umberto Eco1932-2016
semiologo, filosofo, saggista, scrittore 
video 1min27

"L’intolleranza è l’incapacità di regolare la nostra biologica reazione al diverso. Alla tolleranza ci si educa, non si nasce tolleranti." (Umberto Eco)


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domenica 26 agosto 2018

#CIT / Ci vuole sempre qualcuno da odiare (Umberto Eco)

Umberto ECO, 1932-2016
semiologo, filosofo, saggista, scrittore 
via facebook, 25 agosto 2018, qui
da Umberto Eco, L'odio riscalda il cuore, 'la Repubblica, 29 ottobre 2010, ', qui

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mercoledì 11 luglio 2018

#CIT / Leghismo, non legge (Umberto Eco)

Umberto ECO, 1932-2016
semiologo, filosofo, saggista, scrittore 
via facebook, 10 luglio 2018, qui
da Eco: se la Lega ignora il romanzo italiano, 'la Repubblica', 6 marzo 2009
segnalato in 'wikiquote', qui

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lunedì 9 luglio 2018

#MOSQUITO / Democrazia, cosa significa (Umberto Eco)

1) Democrazia non significa che la maggioranza ha ragione. Significa che la maggioranza ha il diritto di governare. 

2) Democrazia non significa pertanto che la minoranza ha torto. Significa che, mentre rispetta il governo della maggioranza, essa si esprime a voce alta ogni volta che pensa che la maggioranza abbia torto (o addirittura faccia cose contrarie alla legge, alla morale e ai principi stessi della democrazia), e deve farlo sempre e con la massima energia perché questo è il mandato che ha ricevuto dai cittadini. Quando la maggioranza sostiene di aver sempre ragione e la minoranza non osa reagire, allora è in pericolo la democrazia. 

*** Umberto ECO, 1932-2016, semiologo, filosofo, saggista, scrittore, La minoranza ha il dovere di manifestare, lettera a Furio Colombo, Paolo Flores d'Arcais, Pancho Pardi, 'la Repubblica, 2 luglio 2008, qui


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venerdì 26 gennaio 2018

#MOSQUITO / Chi legge e chi non legge (Umberto Eco)

Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5.000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… Perché la lettura è un’immortalità all’indietro.

*** Umberto ECO, 1932-2016, semiologo, filosofo, saggista, scrittore, Perché i libri allungano la vita, 'l'Espresso',  rubrica 'La bustina di Minerva', 2 giugno 1991


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domenica 21 gennaio 2018

#RITAGLI / Ur-Fascismo, identikit del fascista (Umberto Eco)

Ci fu un solo Nazismo, e non possiamo chiamare Nazismo il Falangismo iper-cattolico di Franco, dal momento che il Nazismo è fondamentalmente pagano, politeistico e anti-cristiano, o non è Nazismo. 

Al contrario, si può giocare al Fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia. Succede alla nozione di Fascismo quel che, secondo Wittgenstein, accade alla nozione di gioco. Un gioco può essere o non essere competitivo, può interessare una o più persone, può richiedere qualche particolare abilità o nessuna, può mettere in palio del danaro, o no. I giochi sono una serie di attività diverse che mostrano solo una qualche somiglianza di famiglia. (...) 

Il Fascismo è diventato un termine che si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. Togliete al Fascismo l'imperialismo e avrete Franco o Salazar; togliete il colonialismo e avrete il Fascismo balcanico. Aggiungete al Fascismo italiano un anti-capitalismo radicale (che non affascinò mai Mussolini) e avrete Ezra Pound. Aggiungete il culto della mitologia celtica e il misticismo del Graal (completamente estraneo al Fascismo ufficiale) e avrete uno dei più rispettati guru fascisti, Julius Evola. 

A dispetto di questa confusione, ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l'Ur-Fascismo, o il Fascismo Eterno. Tali caratteristiche non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista. 

Uno. La prima caratteristica di un Ur-Fascismo è il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del Fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione francese, ma nacque nella tarda età ellenistica, come una reazione al razionalismo greco classico. Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all'alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. Sincretismo non è solo, come indicano i dizionari, la combinazione di forme diverse di credenze o pratiche. Una simile combinazione deve tollerare le contraddizioni. Tutti i messaggi originali contengono un germe di saggezza e quando sembrano dire cose diverse o incompatibili è solo perché tutti alludono, allegoricamente, a qualche verità primitiva. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volta per tutte e noi possiamo solo continuare a interpretare il suo oscuro messaggio. E' sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatori tradizionalisti. La gnosi nazista si nutriva di elementi tradizionalisti, sincretistici, occulti. La più importante fonte teoretica della nuova destra italiana, Julius Evola, mescolava il Graal con i Protocolli dei Savi di Sion, l' alchimia con il Sacro Romano Impero. Il fatto stesso che per mostrare la sua apertura mentale una parte della destra italiana abbia recentemente ampliato il suo sillabo mettendo insieme De Maistre, Guenon e Gramsci, è una prova lampante di sincretismo. Se curiosate tra gli scaffali che nelle librerie americane portano l' indicazione "New Age", troverete persino Sant' Agostino, il quale, per quanto ne sappia, non era fascista. Ma il fatto stesso di mettere insieme Sant' Agostino e Stonehenge, questo è un sintomo di Ur-Fascismo. 

Due. Il tradizionalismo implica il rifiuto del Modernismo. Sia i Fascisti sia i Nazisti adoravano la tecnologia, mentre i pensatori tradizionalisti di solito rifiutano la tecnologia come negazione dei valori spirituali tradizionali. Tuttavia, sebbene il Nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernità era solo l' aspetto superficiale di una ideologia basata sul Sangue e la Terra (Blut und Boden). Il rifiuto del mondo moderno era camuffato come condanna del modo di vita capitalistico, ma riguardava principalmente il rigetto dello Spirito del 1789 (o del 1776, ovviamente). L'Illuminismo, l' Età della Ragione, vengono visti come l' inizio della depravazione moderna. In questo senso, l' Ur-Fascismo può venire definito come irrazionalismo. 

Tre. L'irrazionalismo dipende anche dal culto dell'azione per l'azione. L'azione è bella di per sé, e dunque deve essere attuata prima di, e senza una qualunque riflessione. Pensare è una forma di evirazione. Perciò, la cultura è sospetta, nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. Dalla dichiarazione attribuita a Goebbels ("quando sento parlare di cultura, estraggo la mia pistola") all'uso frequente di espressioni quali porci intellettuali, teste d' uovo, snob radicali, le università sono un covo di comunisti, il sospetto verso il mondo intellettuale è sempre stato un sintomo di Ur-Fascismo. Gli intellettuali fascisti ufficiali erano principalmente impegnati nell' accusare l' intellighenzia liberale di aver abbandonato i valori tradizionali. 

Quattro. Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l'Ur-Fascismo il disaccordo è tradimento. 

Cinque. Il disaccordo è inoltre un segno di diversità. L'Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. Il primo appello di un movimento fascista o prematuramente fascista è contro gli intrusi. L'Ur-Fascismo è dunque razzista per definizione. 

Sei. L'Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l' appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni. Nel nostro tempo in cui i vecchi "proletari" stanno diventando piccola borghesia (e i Lumpen si autoescludono dalla scena politica), il Fascismo troverà in questa nuova maggioranza il suo uditorio. 

Sette. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l'Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. E' questa l' origine del nazionalismo. Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l' ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. Ma il complotto deve venire anche dall'interno: gli ebrei sono di solito l' obiettivo migliore in quanto presentano il vantaggio di essere al tempo stesso dentro e fuori. (...) 

Otto. I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. Quando ero bambino mi insegnavano che gli inglesi erano ' il popolo dei cinque pasti' : mangiavano più spesso del povero ma sobrio italiano. Gli ebrei sono ricchi e si aiutano l' un l' altro grazie a una rete segreta di mutua assistenza. I seguaci debbono tuttavia essere convinti di poter sconfiggere i nemici. Così, grazie a un continuo spostamento di registro retorico, i nemici sono al tempo stesso troppo forti e troppo deboli. I fascismi sono condannati a perdere le loro guerre, perché sono costituzionalmente incapaci di valutare obiettivamente la forza del nemico. 

Nove. Per l'Ur-Fascismo non c'è lotta per la vita, ma piuttosto vita per la lotta. Il pacifismo è allora collusione col nemico; il pacifismo è cattivo perché la vita è una guerra permanente. Questo tuttavia porta con sé un complesso di Armageddon: dal momento che i nemici possono essere sconfitti, ci dovrà essere una battaglia finale, a seguito della quale il movimento avrà il controllo del mondo. Una simile soluzione finale implica una successiva era di pace, un' Età dell' oro che contraddice il principio della guerra permanente. Nessun leader fascista è mai riuscito a risolvere questa contraddizione. 

Dieci. L'elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L'Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un elitismo popolare. Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un Dominatore. Dal momento che il gruppo è organizzato gerarchicamente (secondo un modello militare), ogni leader subordinato disprezza i suoi subalterni, e ognuno di loro disprezza i suoi sottoposti. Tutto ciò rinforza il senso di un elitismo di massa. 

Undici. In questa prospettiva, ciascuno è educato per diventare un Eroe. In ogni mitologia l' Eroe è un essere eccezionale, ma nell'ideologia Ur-Fascista l'eroismo è la norma. Questo culto dell' eroismo è strettamente legato al culto della morte: non a caso il motto dei falangisti era viva la muerte (...). L'eroe Ur-Fascista è impaziente di morire. Nella sua impazienza, va detto in nota, gli riesce più di frequente far morire gli altri. 

Dodici. Dal momento che sia la guerra permanente sia l' eroismo sono giochi difficili da giocare, l'Ur-Fascista trasferisce la sua volontà di potenza su questioni sessuali. E' questa l' origine del machismo (che implica disdegno per le donne e una condanna intollerante per abitudini sessuali non conformiste, dalla castità all'omosessualità). Dal momento che anche il sesso è un gioco difficile da giocare, l' eroe Ur-Fascista gioca con le armi, che sono il suo Ersatz fallico: i suoi giochi di guerra sono dovuti a una Invidia Penis permanente. 

Tredici. L'Ur-Fascismo si basa su di un populismo qualitativo. In una democrazia i cittadini godono di diritti individuali, ma l'insieme dei cittadini è dotato di un impatto politico solo dal punto di vista quantitativo (si seguono le decisioni della maggioranza). Per l'Ur-Fascismo gli individui in quanto individui non hanno diritti, e il Popolo è concepito come una qualità, un' entità monolitica che esprime la Volontà Comune. Dal momento che nessuna quantità di esseri umani può possedere una volontà comune, il leader pretende di essere il loro interprete. Avendo perduto il loro potere di delega, i cittadini non agiscono, sono solo chiamati, pars pro toto, a giocare il ruolo del Popolo. Il Popolo è così solo una finzione teatrale. Per aver un buon esempio di populismo qualitativo, non abbiamo più bisogno di Piazza Venezia o dello Stadio di Norimberga. Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo Tv o Internet, in cui la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentato e accettato come la Voce del Popolo. A ragione del suo populismo qualitativo, l'Ur-Fascismo deve opporsi ai 'putridi' governi parlamentari. Una delle prime frasi pronunciate da Mussolini nel Parlamento italiano fu: "Avrei potuto trasformare quest' aula sorda e grigia in un bivacco per i miei manipoli". Di fatto, trovò immediatamente un alloggio migliore per i suoi manipoli, ma poco dopo liquidò il Parlamento. Ogni qualvolta un politico getta dubbi sulla legittimità del Parlamento perché non rappresenta più la Voce del Popolo, possiamo sentir l'odore di Ur-Fascismo. 

Quattordici. L'Ur-Fascismo parla la Neolingua. La Neolingua venne inventata da Orwell in 1984, come la lingua ufficiale dell' Ingsoc, il Socialismo inglese, ma elementi di Ur-Fascismo sono comuni a forme diverse di dittatura. Tutti i testi scolastici nazisti o fascisti si basavano su di un lessico povero e su una sintassi elementare, al fine di limitare gli strumenti per il ragionamento complesso e critico. Ma dobbiamo essere pronti a identificare altre forme di Nuovalingua, anche quando prendono la forma innocente di un popolare talk-show. 

Dopo aver indicato i possibili archetipi dell'Ur-Fascismo, mi sia concesso di concludere. Il mattino del 27 luglio del 1943 mi fu detto che, secondo delle informazioni lette alla radio, il Fascismo era crollato e che Mussolini era stato arrestato. Mia madre mi mandò a comprare il giornale. Andai al chiosco più vicino e vidi che i giornali c'erano, ma i nomi erano diversi. Inoltre dopo una breve occhiata ai titoli, mi resi conto che ogni giornale diceva cose diverse. Ne comperai uno, a caso, e lessi un messaggio stampato in prima pagina, firmato da cinque o sei partiti politici, come Democrazia Cristiana, Partito comunista, Partito socialista, Partito d'Azione, Partito liberale. Fino a quel momento avevo creduto che vi fosse un solo partito in ogni paese, e che in Italia ci fosse solo il Partito nazionale fascista. Stavo scoprendo che nel mio paese ci potevano essere diversi partiti allo stesso tempo. Non solo: dal momento che ero un ragazzo vispo, mi resi subito conto che era impossibile che tanti partiti fossero sorti da un giorno all'altro. Capii così che esistevano già come organizzazioni clandestine. Il messaggio celebrava la fine della dittatura e il ritorno della libertà: libertà di parola, di stampa, di associazione politica. Queste parole, libertà, dittatura - Dio mio - era la prima volta in vita mia che le leggevo. In virtù di queste nuove parole, ero rinato uomo libero occidentale. Dobbiamo stare attenti che il senso di queste parole non si dimentichi ancora. L'Ur-Fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse "Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane". Ahimè, la vita non è così facile. L'Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l' indice su ognuna delle sue nuove forme - ogni giorno, in ogni parte del mondo. Do ancora la parola a Roosevelt: "Oso dire che se la democrazia americana cessasse di progredire come una forza viva, cercando giorno e notte, con mezzi pacifici, di migliorare le condizioni dei nostri cittadini, la forza del Fascismo crescerà nel nostro paese" (4 novembre 1938). Libertà e Liberazione sono un compito che non finisce mai. Che sia questo il nostro motto: non dimenticate.

*** Umberto ECO,  1932-2016, semiologo, filosofo, saggista, scrittore, Identikit del fascista, 2^ parte del discorso pronunciato il 24 aprile 1995 alla Columbia University di New York nell'ambito delle celebrazioni per la Liberazione dell'Europa dal nazifascismo, 'la Repubblica', 2 luglio 1995, qui


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domenica 7 gennaio 2018

#SENZA_TAGLI / Uso del congiuntivo (Umberto Eco)

Sto sfogliando con qualche mese di ritardo “Comunque anche Leopardi diceva le parolacce” di Giuseppe Antonelli (Mondadori € 12), dove ci si occupa dell’italiano scorretto, di quello corretto, di come strafalcioni che ci fanno inorridire tipo “che io vadi” esistessero in autori classici, di come sia lecito usare talora parole inglesi ma sciocco parlare di “Jobs act”, di come professori troppo puristi correggano i ragazzi che scrivono “passano molte macchine” in “circolano molte macchine” e “non facevo i compiti” in “non eseguivo i compiti” (facendo perdere tempo e senso della lingua parlata ai loro alunni). E di tante altre cose.

Non poteva mancare un capitolo sul declino del congiuntivo, e anche nelle canzoni, se Ligabue canta “può darsi che non sia tutto come lo sognavi tu”, Celentano canta “ma non vorrei che tu... stai già pensando a un altro uomo”. Per un seminario di scrittura tenuto anni fa a Bologna, avevo proposto una regola per sapere quando si deve usare l’indicativo o il congiuntivo.

Per semplificare le cose e non fare ricorso a termini tecnici come mondi possibili o atteggiamenti doxastici, diciamo che ci si deve sempre domandare se stiamo parlando di qualcosa che noi riteniamo (e gli altri ritengono) che esista realmente nel mondo fuori di noi, o parliamo di qualcosa che esiste nei nostri pensieri, opinioni, credenze (che potrebbero anche essere sbagliati o non siamo sicuri che siano giusti). In questi casi dicendo di “sapere” qualcosa intendiamo che conosciamo qualcosa di reale e quel verbo regge l’indicativo. Se invece usiamo verbi come “pensare, credere, sperare, temere” (tutti atteggiamenti mentali) allora si deve usare il congiuntivo. Pertanto si deve dire “io so che Washington è la capitale degli Usa” e “io spero che la mia amata ritorni”, e “io credo Sydney sia la capitale dell’Australia”.

Vi sarete accorti che l’ultima credenza è sbagliata perché la capitale dell’Australia è Canberra. Quando me ne sia reso conto, potrò allora legittimamente dire “credevo che Sydney fosse la capitale dell’Australia”, dando per implicito che quello che avevo in mente fosse falso. Ma, come si vede, la liceità del congiuntivo dipende non solo da regole linguistiche ma anche dalle conoscenze che la comunità ha circa il modo in cui vanno le cose nel mondo reale. Naturalmente già dicendo che credo che la capitale dell’Australia sia Sydney lascio aperta la possibilità di essermi sbagliato, mentre se dico che “io so che la capitale dell’Australia è Sydney” sono un ignorante e un presuntuoso.

In ogni caso, se faccio attenzione al fatto se stia parlando di ciò che si sa o di ciò che mi passa per la testa, vero o falso che sia, ho una buona regola per sapere se usare il congiuntivo o l’indicativo. Detto in modo un poco più tecnico, si usa “sapere” e l’indicativo quando ci si riferisce (a torto o a ragione) al mondo reale, e si usa il congiuntivo quando ci si riferisce a un mondo possibile. E sono appunto mondi possibili quelli delle nostre credenze, speranze, desideri, previsioni.

Eppure c'è un caso in cui, riferendoci a un mondo chiaramente irreale, si deve usare l’indicativo. È il caso dei riferimenti a situazioni narrative. Non si dice “credo che Watson fosse l’amico di Sherlock Holmes” (salvo che uno non ricordi più i racconti di Conan Doyle e voglia dimostrare la sua incertezza). Si dice invece ”so che Watson era l’amico di Sherlock Holmes”. E questo perché nell’immergersi nei mondi narrativi si sospende l’incredulità e li si accetta come se fossero mondi reali. E perché, in fondo, nel dire che si sa che Watson era l’amico di Holmes, ci si riferisce in effetti a un aspetto del mondo reale e cioè a quanto ha realmente scritto Conan Doyle, dove si ritiene indiscutibile che Watson sia davvero l’amico di Holmes.

Ma perché ho scritto “si ritiene indiscutibile… che sia”? Se è indiscutibile e accettato da tutti, perché ho usato il congiuntivo? Perché “indiscutibile” riguarda pur sempre un atteggiamento mentale e si presume che il punto vada (congiuntivo) ancora discusso.

*** Umberto ECO, 1932-2016, semiologo, filosofo, saggista, scrittore, Che io vadi, 'la bustina di Minerva', 'L'Espresso', 6 marzo 2015, qui


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lunedì 13 febbraio 2017

martedì 1 marzo 2016

#LIBRI PIACIUTI / Pape Satàn Aleppe, di Umberto Eco (recensione di M. Ferrario)

Umberto ECO, Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida
La nave di Teseo, 2016
pagine 359, € 20,00, formato ebook € 9,99

Una società liquida. Ma non troppo.
Poche parole. E sono già troppe. 
Dopo lo tsunami di celebrazioni per la morte di Umberto Eco, ogni commento ai suoi libri rischia il già detto. 
Qui basti ricordare che il volume Pape Satàn Aleppe, che inaugura la nuova casa editrice (La nave di Teseo) voluta dall'autore in risposta al monopolio ottenuto con l'acquisizione di Rizzoli Libri da parte di Mondadori (pare che il termine Mondazzoli sia stato coniato proprio da lui), raccoglie buona parte delle 'Bustine di Minerva' pubblicate settimanalmente su 'L'Espresso' dal 2000 al 2015. 

Chi se le è godute leggendosi periodicamente la rivista, se le rigode nel libro, riordinate per grandi temi: è un recupero di memoria che porta sangue al cervello anche per capire qualcosa dell'oggi. 
Gli altri, se vogliono gustarsi il sapore intelligente di una cultura che sa esercitarsi su ogni argomento, mescolando in modo impareggiabile 'l'alto e il basso', anche grazie al condimento di uno stile spesso ironico e sfottente, hanno un testo che fa per loro. 
Lo so, la capacità incredibile di Eco di passare da un argomento serio ad uno frivolo, cogliendo anche nel frivolo la serietà che nessuno vede, è stata richiamata più volte come una delle sue caratteristiche principali: non sono quindi originale nel sottolinearla, ma ogni tanto il pensiero comune dice il vero e anche chi soffre nello stare con l'opinione della maggioranza, se ha superato la controdipendenza fisiologica dell'adolescenza, deve riconoscere ciò che va riconosciuto.

Gli spunti su cui l'autore riflette, e fa riflettere, sono tanti, alcuni più noti e altri originali, e tutti riguardano il nostro vivere sociale. 
Una società sempre più 'liquida', come dice il termine fortunato inventato da Zygmunt Bauman. E come ribadisce anche il sottotitolo del volume: a commento di quel 'Pape Satàn Aleppe', di dantesca memoria, usato di proposito, oltre che come richiamo classico, per suggerire a chi legge il significato che ognuno vuole vederci. 
Ma la liquidità pare non essere poi così sfuggente e contenere, contraddittoriamente, anche qualche nota di relativa stabilità, se è vero che parecchie annotazioni di Eco, sebbene siano riferite a momenti del quindicennio passato, permangono anche oggi. Cambiano i personaggi, ma i fenomeni restano. Merito anche di chi sa andare oltre i fenomeni, appunto, ed ha lo sguardo, 'coltivato', capace di cogliere il nocciolo delle cose.

*** Massimo Ferrario, per Mixtura

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Un tempo la reputazione era soltanto o buona o cattiva, e quando si rischiava una cattiva reputazione (perché si faceva fallimento, o perché ci dicevano cornuto) si arrivava a riscattarla col suicidio o col delitto d’onore. Naturalmente tutti aspiravano ad avere una buona reputazione. 
Ma da tempo il concetto di reputazione ha ceduto il posto a quello di notorietà. Conta essere “riconosciuto” dai propri simili, ma non nel senso del riconoscimento come stima o premio, bensì in quello più banale per cui, vedendoti per strada, gli altri possano dire “guarda, è proprio lui”. Il valore predominante è diventato l’apparire, e naturalmente il modo più sicuro è apparire in televisione. E non è necessario essere Rita Levi Montalcini o Mario Monti, basta confessare in una trasmissione strappalacrime che il coniuge ti ha tradito. (2013) (Umberto ECO, Pape Satàn Aleppe, La nave di Teseo, 2016)

Twitter è come il bar Sport di qualsiasi villaggio o periferia. Parla lo scemo del paese, il piccolo possidente che ritiene di essere perseguitato dal fisco, il medico condotto amareggiato perché non ha avuto la cattedra di anatomia comparata nella grande università, il passante che ha già preso molti grappini, il camionista che racconta di passeggiatrici favolose sul raccordo anulare, e (talora) chi esprime alcuni giudizi sensati. Ma tutto si consuma lì, le chiacchierate al bar non hanno mai cambiato la politica internazionale e se ne preoccupava solo il fascismo, che al bar proibiva di far discorsi di alta strategia, ma nell’insieme quel che pensa la maggioranza della gente è solo quel dato statistico che emerge nel momento in cui, ciascuno avendo fatto le sue riflessioni, si vota, e si vota per le opinioni espresse da qualcun altro, dimenticando quello che si era detto al bar. (2013) (Umberto ECO, Pape Satàn Aleppe, La nave di Teseo, 2016)

Andavo sul marciapiede e mi sono visto venire incontro una signora incollata al suo telefonino, che pertanto non guardava davanti a sé. Se non mi fossi scansato ci saremmo urtati. Siccome sono intimamente malvagio, mi sono fermato di colpo e mi sono voltato dall’altra parte, come se guardassi in fondo alla strada: così la signora è venuta a schiantarsi contro la mia schiena. Io mi ero irrigidito per preparami all’impatto e ho retto bene, lei è andata in tilt, il telefonino le è caduto, si è resa conto che aveva sbattuto contro qualcuno che non poteva vederla e che a schivarlo doveva essere lei. Ha farfugliato delle scuse, mentre io umanamente le dicevo: “Non si preoccupi, capita, al giorno d’oggi.” 
Spero solo che il telefonino cadendo si sia rotto e consiglio a chi si trovi in situazioni analoghe di comportarsi come me. Certo i telefonatori compulsivi bisognerebbe ucciderli da piccoli ma siccome un Erode non lo si trova tutti i giorni, è bene punirli almeno da grandi, anche se non capiranno mai in che abisso sono caduti, e persevereranno. (2015) (Umberto ECO, Pape Satàn Aleppe, La nave di Teseo, 2016)
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* Sempre in Mixtura una mia recensione al romanzo di Umberto Eco, 'Numero zero', Bompiani, 2015 qui

domenica 21 febbraio 2016

#LINK / Umberto Eco, 40 anni di interviste (Giuseppe Rizzo)

Chi scrive queste righe, e chi le legge, appartiene per forza di cose alla vasta categoria di persone che Umberto Eco descriveva così venti anni fa: “Recentemente un discepolo pensoso (tale Critone) mi ha chiesto: ‘Maestro, come si può bene appressarsi alla morte?’. Ho risposto che l’unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni”.

È una delle ironie che Eco si è lasciato dietro dopo la sua morte. Circola molto sul web (...)

*** Giuseppe RIZZO, giornalista, Umberto Eco in quarant'anni di interviste, 'internazionale.it', 21 febbraio 2016

LINK (ricco di rimandi e di un video) qui


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sabato 20 febbraio 2016

#MOSQUITO / Visibilità, soprattutto (Umberto Eco)

... in quel tempo antico vigeva una distinzione molto rigida tra essere famosi ed essere chiacchierati. Tutti volevano diventare famosi come il miglior arciere o la più brava ballerina, ma nessuno voleva es-sere chiacchierato come il più cornificato del paese, l’impotente acclarato, la puttana irrispettosa. (...) 
Nel mondo del futuro (se assomiglierà a quello che già oggi si configura) questa distinzione sarà scomparsa: pur di essere ‘visti’ e ‘parlati’ si sarà pronti a fare di tutto. Non ci sarà differenza tra la fama del grande immunologo e quella del giovanotto che è riuscito ad ammazzare la mamma a colpi di scure, tra il grande amante e chi avrà vinto la gara planetaria per il membro virile più corto, tra chi avrà fondato un lebbrosario nell’Africa centrale e chi sarà riuscito a meglio frodare il fisco. Tutto farà brodo, pur di apparire ed essere riconosciuti dal droghiere (o dal banchiere). 

*** Umberto ECO, 1932-2016, semiologo, filosofo, saggista, scrittore, rubrica ‘La bustina di Minerva’, ‘l’espresso’, 26 dicembre 2002.


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#CIT / L'uomo colto (Umberto Eco)

Umberto ECO, 1932-19 febbraio 2016
semiologo, filosofo, saggista, scrittore

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sabato 26 dicembre 2015

#SENZA_TAGLI / Indugiare, un piacere (Umberto Eco)

Quando una ventina di anni fa avevo tenuto le mie Norton Lectures alla Harvard University, avevo ricordato che otto anni prima di me avrebbe dovuto tenerle Calvino, che però era scomparso senza poter scrivere la sesta lezione (i suoi testi sono poi stati pubblicati come “Lezioni americane”). Come omaggio a Calvino avevo preso le mosse dalla lezione in cui elogiava la rapidità, ricordando tuttavia che la sua apologia della rapidità non pretendeva negare i piaceri dell’indugio. Perciò al piacere dell’indugio avevo dedicato una delle mie conferenze.

L’indugio non piaceva a quel Monsieur Humblot il quale, respingendo per l’editore Ollendorf il manoscritto della “Recherche” di Proust, aveva scritto: «Sarò forse duro di comprendonio, ma non riesco proprio a capacitarmi del fatto che un signore possa impiegare trenta pagine per descrivere come si giri e rigiri nel letto prima di prendere sonno». Negare i piaceri dell’indugio ci impedirebbe dunque di leggere Proust. Ma, a parte Proust, ricordavo un caso tipico di indugio ne “I promessi sposi”.

Don Abbondio torna a casa recitando il suo breviario, e vede qualcosa che non avrebbe per niente desiderato vedere, e cioè due bravi che lo attendono. Un altro autore vorrebbe soddisfare subito la nostra impazienza di lettori e ci direbbe subito che cosa accade. Invece Manzoni a quel punto impiega alcune pagine a spiegarci chi erano a quel tempo i bravi - e, quando ce lo ha detto, indugia ancora, insieme a don Abbondio che si gira il dito nel colletto per guardarsi indietro, se mai qualcuno potesse venire in suo aiuto. E alla fine don Abbondio si chiede “che fare?” (in anticipo su Lenin).

Era necessario che Manzoni inserisse quelle informazioni storiche? Sapeva benissimo che il lettore sarebbe stato tentato di saltarle, e ciascun lettore de “I promessi sposi” ha fatto così, almeno la prima volta. Ebbene, anche il tempo che occorre per sfogliare delle pagine che non si leggono fa parte di una strategia narrativa. L’indugio accresce lo spasimo non solo di don Abbondio ma anche di noi lettori, e rende il suo dramma più memorabile. E ditemi se non è una storia di indugi la Divina Commedia, dove il viaggio di Dante potrebbe svolgersi oniricamente anche in una sola notte, ma per arrivare all’apoteosi finale dobbiamo impegnarci su cento canti.

La tecnica dell’indugio presume una lettura non affrettata ma lenta. Woody Allen, parlando delle tecniche di “quick reading”, per cui si scorre diagonalmente un testo in fretta, aveva concluso a un dipresso: «Ho letto così “Guerra e Pace”. Parlava della Russia».

Alla lettura lenta  dedica il suo libro “Lettura lenta nel tempo della fretta” (Scripta Edizioni) Anna Lisa Buzzola, ma non si limita ad auspicare il ritorno a un passo rilassato di lettura. Lega il problema alla tematica della velocità nel nostro tempo, e alle analisi antropologiche che ne sono state fatte, ponendo il suo tema al centro di una serie di pratiche salvifiche in cui rientra persino lo “slow food”.

Per quanto riguarda la letteratura, Buzzola (come mi spiace che per una malintesa correttezza politica si eviti ormai di dire “la Buzzola” come si diceva, anche all’estero, “La Callas”) esamina le teorie di Genette, Sklovskij e altri, e analizza compiutamente le opere di Javier Marías, Ian McEwan, Bufalino, De Luca, Saramago, Kundera, Delerm, Rumiz, Baricco - e onestà di recensore mi obbliga a dire che si occupa gentilmente anche di me e dell’indugiare godendo della vertigine della lista.

Ne nasce una fenomenologia delle tecniche dell’indugio alla fine della quale nasce nel lettore il desiderio di imparare a leggere più lentamente - anche se deve indugiare su trenta pagine per capire come qualcuno si giri e rigiri nel letto prima di prendere sonno. Escludendo noterelle e bibliografia il libro conta solo centotrenta pagine, e si può leggere con la dovuta lentezza.

*** Umberto ECO, 1932, semiologo, saggista, scrittore, Il piacere dell'indugio, rubrica 'La bustina di minerva', 'L'Espresso', 14 novembre 2014, qui

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domenica 6 dicembre 2015

#RITAGLI / Felicità, il diritto (Umberto Eco)

Talora mi viene il sospetto che molti dei problemi che ci affliggono – dico la crisi dei valori, la resa alle seduzioni pubblicitarie, il bisogno di farsi vedere in tv, la perdita della memoria storica e individuale, insomma tutte le cose di cui sovente ci si lamenta in rubriche come questa – siano dovuti alla infelice formulazione della Dichiarazione d’indipendenza americana del 4 luglio1776, in cui, con massonica fiducia nelle magnifiche sorti e progressive, i costituenti avevano stabilito che «a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità».

Sovente si è detto che si trattava della prima affermazione, nella storia delle leggi fondatrici di uno Stato, del diritto alla felicità invece che del dovere dell’obbedienza o altre severe imposizioni del genere, e a prima vista si trattava effettivamente di una dichiarazione rivoluzionaria. Ma ha prodotto degli equivoci per ragioni, oserei dire, semiotiche.

La letteratura sulla felicità è immensa, a iniziare da Epicuro e forse prima, ma a lume di buon senso mi pare che nessuno di noi sappia dire che cos’è la felicità. Se si intende uno stato permanente, l’idea di una persona che è felice tutta la vita, senza dubbi, dolori, crisi, questa vita sembra corrispondere a quella di un idiota – o al massimo a quella di un personaggio che viva isolato dal mondo senza aspirazioni che vadano al di là di una esistenza senza scosse, e vengono in mente Filemone e Bauci. Ma anche loro, poesia a parte, qualche momento di turbamento dovrebbero averlo avuto, se non altro un’influenza o un mal di denti.

La questione è che la felicità, come pienezza assoluta, vorrei dire ebbrezza, il toccare il cielo con un dito, è situazione molto transitoria, episodica e di breve durata: è la gioia per la nascita di un figlio, per l’amato o l’amata che ci rivela di corrispondere al nostro sentimento, magari l’esaltazione per una vincita al lotto, il raggiungimento di un traguardo (l’Oscar, la coppa, il campionato), persino un momento nel corso di una gita in campagna, ma sono tutti istanti appunto transitori, dopo i quali sopravvengono i momenti di timore e tremore, dolore, angoscia o almeno preoccupazione.

Inoltre l’idea di felicità ci fa pensare sempre alla nostra felicità personale, raramente a quella del genere umano, e anzi siamo indotti sovente a preoccuparci pochissimo della felicità degli altri per perseguire la nostra. Persino la felicità amorosa spesso coincide con l’infelicità di un altro respinto, di cui ci preoccupiamo pochissimo, appagandoci della nostra conquista. (...)

Quando è al contrario che, siccome non siamo delle bestie senza cuore, ci preoccupiamo della felicità degli altri? Quando i mezzi di massa ci presentano l’infelicità altrui, negretti che muoiono di fame divorati dalle mosche, ammalati di mali incurabili, popolazioni distrutte dagli tsunami. Allora siamo persino disposti a versare un obolo e, nei casi migliori, a impegnare il cinque per mille.

È che la dichiarazione d’indipendenza avrebbe dovuto dire che a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto-dovere di ridurre la quota d’infelicità nel mondo, compresa naturalmente la nostra, e così tanti americani avrebbero capito che non devono opporsi alle cure mediche gratuite – e invece vi si oppongono perché questa idea bizzarra pare ledere il loro personale diritto alla loro personale felicità fiscale.

*** Umberto ECO, 1932, semiologo, saggista, scrittore, Il diritto alla felicità, rubrica 'La bustina di minerva', 'L'Espresso', 26 marzo 2014.

LINK, articolo integrale qui


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domenica 6 settembre 2015

#MOSQUITO / Intellettuali, grilli parlanti (Umberto Eco)

Hanno invece ragione colore che dicono che il vero intellettuale è anzitutto colui che sa criticare quelli della propria parte, perché per criticare il nemico bastano gli uomini dell’ufficio stampa, che certamente svolgono lavoro intellettuale ma non lo fanno in modo critico e creativo. 
Il grillo parlante. Questo è il lavoro dell’intellettuale, col rischio di essere poi spiaccicato contro il muro. Ma ogni attività comporta le proprie malattie professionali. 

*** Umberto ECO, semiologo, saggista e scrittore, Alfabeto per intellettuali disorganici, ‘Alfabeta2’, luglio-agosto 2010.

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mercoledì 26 agosto 2015

#LINK / Italiano, 40 consigli per parlare bene (Umberto Eco)

Chi meglio di Umberto Eco può insegnarci come scrivere bene in italiano? 
Nell'antologia La Bustina di Minerva, il celebre semiologo, filosofo e scrittore italiano dà alcuni consigli per scrivere correttamente in italiano ed esprimersi con uno stile elegante.
Dal 1985, Eco ha curato la rubrica La Bustina di Minerva per il settimanale L'Espresso, in cui tratta argomenti che spaziano dalla storia alla letteratura, dall'attualità alla scienza. Nel 2000, la casa editrice Bompiani ha raccolto i suoi contributi in un'antologia omonima.
Ecco una raccolta dei suoi consigli migliori, pubblicata dal sito italianalingua.it e tratta dall'antologia La Bustina di Minerva, che ironizza sui peggiori errori commessi quando si scrive in italiano.

*** Umberto ECO, docente di semiotica, saggista, scrittore, da Le regole di Umberto Eco per parlare bene l'italiano. I 40 consigli di Umberto Eco per parlare bene in italiano ed evitare i peggiori errori stilistici e grammaticali, 'the post internazionale', 11 giugno 2015, qui

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