Quando una ventina di anni fa avevo tenuto le mie Norton Lectures alla Harvard University, avevo ricordato che otto anni prima di me avrebbe dovuto tenerle Calvino, che però era scomparso senza poter scrivere la sesta lezione (i suoi testi sono poi stati pubblicati come “Lezioni americane”). Come omaggio a Calvino avevo preso le mosse dalla lezione in cui elogiava la rapidità, ricordando tuttavia che la sua apologia della rapidità non pretendeva negare i piaceri dell’indugio. Perciò al piacere dell’indugio avevo dedicato una delle mie conferenze.
L’indugio non piaceva a quel Monsieur Humblot il quale, respingendo per l’editore Ollendorf il manoscritto della “Recherche” di Proust, aveva scritto: «Sarò forse duro di comprendonio, ma non riesco proprio a capacitarmi del fatto che un signore possa impiegare trenta pagine per descrivere come si giri e rigiri nel letto prima di prendere sonno». Negare i piaceri dell’indugio ci impedirebbe dunque di leggere Proust. Ma, a parte Proust, ricordavo un caso tipico di indugio ne “I promessi sposi”.
Don Abbondio torna a casa recitando il suo breviario, e vede qualcosa che non avrebbe per niente desiderato vedere, e cioè due bravi che lo attendono. Un altro autore vorrebbe soddisfare subito la nostra impazienza di lettori e ci direbbe subito che cosa accade. Invece Manzoni a quel punto impiega alcune pagine a spiegarci chi erano a quel tempo i bravi - e, quando ce lo ha detto, indugia ancora, insieme a don Abbondio che si gira il dito nel colletto per guardarsi indietro, se mai qualcuno potesse venire in suo aiuto. E alla fine don Abbondio si chiede “che fare?” (in anticipo su Lenin).
Era necessario che Manzoni inserisse quelle informazioni storiche? Sapeva benissimo che il lettore sarebbe stato tentato di saltarle, e ciascun lettore de “I promessi sposi” ha fatto così, almeno la prima volta. Ebbene, anche il tempo che occorre per sfogliare delle pagine che non si leggono fa parte di una strategia narrativa. L’indugio accresce lo spasimo non solo di don Abbondio ma anche di noi lettori, e rende il suo dramma più memorabile. E ditemi se non è una storia di indugi la Divina Commedia, dove il viaggio di Dante potrebbe svolgersi oniricamente anche in una sola notte, ma per arrivare all’apoteosi finale dobbiamo impegnarci su cento canti.
La tecnica dell’indugio presume una lettura non affrettata ma lenta. Woody Allen, parlando delle tecniche di “quick reading”, per cui si scorre diagonalmente un testo in fretta, aveva concluso a un dipresso: «Ho letto così “Guerra e Pace”. Parlava della Russia».
Alla lettura lenta dedica il suo libro “Lettura lenta nel tempo della fretta” (Scripta Edizioni) Anna Lisa Buzzola, ma non si limita ad auspicare il ritorno a un passo rilassato di lettura. Lega il problema alla tematica della velocità nel nostro tempo, e alle analisi antropologiche che ne sono state fatte, ponendo il suo tema al centro di una serie di pratiche salvifiche in cui rientra persino lo “slow food”.
Per quanto riguarda la letteratura, Buzzola (come mi spiace che per una malintesa correttezza politica si eviti ormai di dire “la Buzzola” come si diceva, anche all’estero, “La Callas”) esamina le teorie di Genette, Sklovskij e altri, e analizza compiutamente le opere di Javier Marías, Ian McEwan, Bufalino, De Luca, Saramago, Kundera, Delerm, Rumiz, Baricco - e onestà di recensore mi obbliga a dire che si occupa gentilmente anche di me e dell’indugiare godendo della vertigine della lista.
Ne nasce una fenomenologia delle tecniche dell’indugio alla fine della quale nasce nel lettore il desiderio di imparare a leggere più lentamente - anche se deve indugiare su trenta pagine per capire come qualcuno si giri e rigiri nel letto prima di prendere sonno. Escludendo noterelle e bibliografia il libro conta solo centotrenta pagine, e si può leggere con la dovuta lentezza.
*** Umberto ECO, 1932, semiologo, saggista, scrittore, Il piacere dell'indugio, rubrica 'La bustina di minerva', 'L'Espresso', 14 novembre 2014, qui
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