Elezioni in Spagna? In Francia? Puapua Nuova Guinea? Tranquilli: due compresse di Italicum prima del voto e passa la paura. Il refrain della settimana è questo: siccome il bipolarismo non esiste più (tendenza europea conclamata), facciamo una legge elettorale che lo imponga a martellate alla festante popolazione, che così avrà finalmente in dono il bene che più desidera: la stabilità politica. Risolto con la fiction il problema del bipolarismo, si affiderebbe il potere, con scarsissimi contrappesi, a un partito solo, che a quel punto sarebbe super-maggioritario in Parlamento e decisamente minoritario nel paese. Sembrerebbe la vecchia storia della coperta corta: volete più libertà o più sicurezza?, si chiede per lottare contro il terrorismo. Analogamente nella politica si chiede: volete più stabilità o più rappresentanza?
Esiste però in questa semplice equazione una specie di errore di base, un peccato originale, una gamba del tavolo non solidissima. Che è proprio lì: stabilità. Ma è così vero che l’Italia è la patria dell’instabilità politica? Che le divisioni frenano il paese? Che non si riesce a governare? E non è bizzarro che chi dice che così non va bene, che non si governa, siano proprio quelli che governano, e dicono di farlo bene e con efficienza? Il ragionamento zoppica. Anche perché, a guardare i suoi sviluppi generali, la stabilità politica italiana è strabiliante. Persino quando si cambiava un governo ogni sei mesi, ai tempi della prima repubblica, la stabilità era a prova di bomba, si davano il cambio attori e comparse nella stanza dei bottoni, ma il disegno restava più o meno identico. Facevano i turni, i vecchi volponi della prima repubblica, ma il lavoro era sempre quello.
Se si guardano per esempio le politiche sul lavoro degli ultimi vent’anni, non c’è niente di più tremendamente stabile. Cominciò il governo Prodi (1996) a sventolare la bandiera della “flessibilità”, senza la quale, ci dissero, saremmo morti tutti. L’allora ministro Treu stappò il vaso di Pandora del lavoro flessibile e precario, che dilagò nel paese, che si impose senza freni e controlli, fino alla sua regolamentazione finale con il Jobs act: tutti un po’ precari, cioè licenziabili a un costo minimo, tutti demansionabili eccetera, eccetera. Si può dunque dire che nel giro di una ventina d’anni, con strappi improvvisi e lunghe pause, con governi di destra e di sinistra, con i fini economisti prodiani e con la compagnia di giro del poro Silvio, il disegno di flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro si è perfettamente compiuto. Impeccabile opera di stabilità politica: chiunque governasse, il disegno era quello, ed è stato eseguito.
Ci sarebbero altri esempi, ovviamente, non ultimo il fatto che abbiamo sempre mandato aerei, armi e soldati dove ci hanno chiesto di mandarli, altro esempio di stabilità. Insomma, non siamo così instabili, diciamo anzi che specie nelle politiche economiche siamo stabilissimi, come dimostra il fatto che le diseguaglianze sociali sono aumentate, negli ultimi anni, piuttosto costantemente, e non diminuite: un capolavoro a cui hanno concorso tutti, chi più chi meno, altro esempio di continuità politica niente male.
L’Italicum come garanzia di stabilità, dunque, lascia perplessi. Indicare la Spagna dicendo: “Visto? Col nostro trucchetto non sarebbe successo” è suggestivo ma non porta lontano. E’ vero: col trucchetto dell’Italicum Rajoy finirebbe per formare un governo, in solitudine e maggioranza assoluta: un governo con superpoteri che sarebbe espressione di un elettore su quattro. Una spallata abbastanza decisa al concetto di democrazia rappresentativa. E vabbé, non facciamola lunga, avrete un po’ meno democrazia, ma vuoi mettere la stabilità?
*** Alessanro ROBECCHI, giornalista e scrittore, Una pasticca d’Italicum e ti passa subito la voglia di democrazia, 'Il Fatto Quotidiano', 23 dicembre 2015, qui
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