domenica 31 gennaio 2016

#HUMOR / Dammi una ragione

(dal web)

#VIGNETTE / E bambino quando? (Anonimo)

(anonimo, via facebook, in molti siti web)

#CIT / Il mare (Giovanni Verga)

Giovanni VERGA, 1840-1922
scrittore e drammaturgo

In Mixtura 1 altro contributo di Giovanni Verga qui

#LINK / Shoah, come Occidente e Chiesa salvarono i nazisti (Guido Caldiron)

I segreti del Quarto Reich, un libro di Guido Caldiron, appena uscito per la Newton Compton editori, ricostruisce la rete internazionale che ha permesso la fuga e protetto i vertici delle SS dopo la fine della Guerra: una seconda vita per loro. Quali uomini, quali strutture sono coinvolti in questo “buco nero”, dai servizi segreti Alleati al Vaticano fino ai gruppi dell’estrema destra: “I gerarchi nazisti sono serviti per fermare il nuovo pericolo comunista”. 

“Malgrado l’intrigo dal sapore spionistico che ne ha spesso circondato il racconto da parte dei media, la ‘seconda vita dei nazisti’ non fu il frutto di un complotto ordito nelle segrete stanze di un apparato di intelligence ma l’esito di scelte politiche precise, il risultato di decisioni assunte più o meno pubblicamente da uomini di Stato e religiosi”. Guido Caldiron, giornalista ed esperto di estrema destra, ha passato gli ultimi 2 anni a spulciare archivi per ricostruire un buco nero del la nostra storia: quella rete internazionale che ha protetto e permesso la fuga ai gerarchi nazisti, dopo la Seconda Guerra Mondiale. (...)

*** Guido CALDIRON, giornalista, saggista, esperto estrema destra, autore di I segreti del Quarto Reich, Newton Compton, 2016, intervistato da Giacomo Russo Spena, Shoah, come Occidente e Chiesa salvarono i nazisti, 'MicroMega', 27 gennaio 2016 

LINK intervista qui

#SPILLI / Family Day, «il sesso è procreazione, non piacere» (M. Ferrario)

Massimo Gandolfini, psichiatra, Family Day: «Il sesso è procreazione, non piacere». 

Se fosse una opinione personale potrei rispettarla, come ogni opinione personale, eventualmente discuterla, sicuramente rifiutarla.

Ma poiché vuole essere una posizione frutto di una visione che deve essere imposta a tutti, per ragioni cosiddette 'naturali' ma di fatto di fede in una religione cui non intendo appartenere, mi sento violentato. 

E mi chiedo con quale diritto un signore come lui e tutti quelli come lui (e non importa se sono migliaia o milioni o miliardi) debbono decidere per me. 
In uno stato democratico. 
E di diritto.
Nel 2016.

*** Massimo Ferrario, Family Day, 'facebook', 30 gennaio 2016, qui

#PIN / Misericordia, e diritti (MasFerrario)

#MOSQUITO / L'acqua, di tutti: come le nuvole (Erri De Luca)

Ieri ho visto il Lambro che scorre verso Milano. Un amico mi raccontava che da ragazzo si pigliavano i pesci con le mani, e poi per anni nemmeno un'alga riuscì a spuntare nella sua corrente avvelenata dagli scarichi. Ora con molta pazienza e forza amorosa il tratto fino a Milano è stato risanato e sono tornati i pesci, le alghe, gli uccelli. Si può fare, si può tornare indietro e riparare. L'acqua sa perdonare, non è sangue. Si può fare molto, si può chiedere subito che nessuno diventi padrone dell'acqua. Prima che si scatenino guerre per la sete, si può stabilire che le fonti appartengono alla comunità del mondo, come le nuvole, la neve, il vento, gli oceani e le maree. 

*** Erri DE LUCA, 1950, scrittore, poeta Pianoterra, 1995, Edizioni Nottetempo, Roma, 2008


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#LINK / Manipolazione, nella morsa del ragno (Angela Chiara Leonino)

(...) È indispensabile far chiarezza e delineare chi è il manipolatore e come agisce sulla mente della sua preda.

Troppo spesso il desiderio di totale “fusione” con il partner, sotto il profilo emotivo, cerebrale e fisico, spinge la persona ad accettare qualunque cosa, pur di proteggere la personale “sensazione” di vicinanza all’altro. È bene ricordare che si può esser vicini ed intimi con l’altro, preservando la propria identità e la propria autonomia!

Alcune donne arrivano a sentirsi intrappolate in una rete in cui, sentono di aver perso progressivamente la stima di sé, parte della propria vitalità, le amicizie, tutti i propri interessi. Non per scelta, ma perché indotte dal partner, in cambio di un quieto vivere e, soprattutto, perché in balia della paura del rifiuto e dell’abbandono.

Quando si hanno queste sensazioni, il più delle volte, si ha a che fare con un “manipolatore”. (...)

*** Angela Chiara LEONINO, Nella morsa del ragno: la perversione della manipolazione, 'psicologi italiani', 3 aprile 2015

LINK articolo integrale qui

#VIGNETTE / Altan, Biani, Vauro

ALTAN
L'astuto cattodem, 'L'Espresso', 2 febbraio 2016

° ° °

ALTAN
Controlli, 'L'Espresso', 26 gennaio 2016

° ° °

Mauro BIANI
Contro gli storti, 'il manifesto', 30 gennaio 2016

° ° °

Mauro BIANI
Renzi-Douhani, pudore, 'il manifesto', 28 gennaio 2016

° ° °

VAURO
Bambini, 'Il Fatto Quotidiano', 26 gennaio 2016

° ° °

VAURO
Family Death, 'Il Fatto Quotidiano', 30 gennaio 2016

sabato 30 gennaio 2016

#PIN / Chi si ferma è perduto (MasFerrario)

#CIT / Libri (Tiziano Terzani)

Tiziano TERZANI, 1938-2004
giornalista, scrittore

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#SPOT / Ikeafamily Day


#MOSQUITO / Berretto a sonagli, ci serve (Friedrich Nietzsche)

Dobbiamo, di tanto in tanto, riposarci dal peso di noi stessi, volgendo lo sguardo là in basso su di noi, ridendo o piangendo su di noi da una distanza di artisti: dobbiamo scoprire l’eroe e anche il giullare che si cela nella nostra passione della conoscenza, dobbiamo, qualche volta, rallegrarci della nostra follia per poter restare contenti della nostra saggezza! E, proprio perché in ultima istanza siamo gravi e seri e piuttosto dei pesi che degli uomini, non c’è nulla che ci faccia tanto bene quanto il berretto a sonagli: ne abbiamo bisogno di fronte a noi stessi – ogni arte tracotante, librata in aria, danzante, irridente, fanciullesca e beata ci è necessaria per non perdere quella libertà al di sopra delle cose che il nostro ideale esige da noi. 

*** Friedrich NIETZSCHE, 1844-1900, filosofo, poeta, compositore, filologo tedesco, La gaia scienza, 1882 


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#RITAGLI / Usa, mancano i farmaci salvavita (corriere.it)

La medicina negli Stati Uniti vive uno stato di «tragica normalità»: negli ospedali vengono ormai regolarmente razionati i farmaci, specie quelli salvavita; si riducono i trattamenti; si risparmia sulle medicazioni. E tutto questo all’insaputa dei pazienti. Le conseguenze - scrive Sheri Fink sul Nyt - sono drammatiche: si pensi soltanto che la carenza di un farmaco (vecchio di decenni) per prevenire le emorragie in pazienti sottoposti a interventi a cuore aperto sta cambiando la chirurgia: «Ormai interveniamo per lo più con triage di tipo militare», spiega il dottor Brian Fitzsimons, anestesista presso la Cleveland Clinic. E il farmaco razionato viene usato solo per operare i pazienti ad alto rischio di complicanze emorragiche. Negli ultimi anni, la carenza di tutti i tipi di farmaci - anestetici, antidolorifici, antibiotici, antitumorali - è divenuta normale. Le forniture sono ormai insufficienti - sottolinea la Società americana di Salute e farmacia - per oltre 150 diverse terapie. I motivi? Dai tagli alla produzione (magari quella meno redditizia per le case farmaceutiche) ai controlli federali insufficienti. Così l’etica del giuramento di Ippocrate soccombe a «pratiche mediche discutibili». In alcuni ospedali e cliniche esistono comitati (con la partecipazione delle associazioni di consumatori) che decidono chi abbia diritto ad ottenere un determinato farmaco e chi no. E talvolta a chi riceve un placebo invece della medicina giusta, non viene detta la verità.«È doloroso - dice dottor Yoram Unguru, oncologo presso il Sinai Children’s Hospital di Baltimora -, talvolta abbiamo due ragazzini malati davanti e medicine sufficienti solo per uno: come si fa a scegliere?».

*** Corriere.it, Nascosta ai pazienti la cronica carenza di farmaci salvavita. E gli oncologi confessano: «Costretti a scelte dolorose», da 'New York Times', 'Rassegna Stampa' (a cura di Angelini, Casati, Mercuri, Zanini), 30 gennaio 2016, qui

#FAVOLE & RACCONTI / Il Pastore e il giovane (M. Ferrario)

Campagna a perdita d'occhio. 
Non un rumore: il traffico scorre lontano, là dove si intuisce snodarsi un'autostrada. 
Giornata soleggiata. Clima perfetto.
Un pastore sta pascolando il suo gregge di pecore.
Zufola.
Il cane ha smesso di correre avanti e indietro e si è sdraiato all'ombra di un albero.
Il gregge è raccolto. Le pecore brucano l'erba.

All’improvviso un nuvola di polvere si avvicina: si sposta rapida su una stradina appena tracciata che corre a zigzag fino al casolare in cui abita il pastore. 
Quando capita, lui e i suoi fratelli vendono formaggio ai turisti che arrivano. Ma devono proprio saperlo e volerci arrivare apposta, perché la strada non è segnata e la vendita del formaggio non è pubblicizzata. Solo in paese, lontano una decina di chilometri, quattro case e un negozietto che vende di tutto, offrono il formaggio del casolare.

Davanti alla nuvola di polvere si comincia a scorgere un'auto. 
Procede velocissima. 
Il guidatore arriva e inchioda a pochi metri dal pastore: ha abbassato il finestrino e cerca di scacciare con la mano la polvere sollevata dalla corsa.  
Poi, deciso, apre la portiera e scende. 
Sorride.
E' un giovane, alto, biondo, di bell'aspetto.
Ritto in piedi, saluta, con un sorriso di convenienza. Si stiracchia. Abbraccia con lo sguardo la campagna,  il gregge che mangia.
E' attratto da uno splendido cane di razza scozzese, accucciato sotto l'albero. Gli si avvicina, cauto. E' un cucciolo, dal pelo già folto e dallo sguardo vispo: si lascia accarezzare.
Atmosfera di pace, serenità.

Il pastore risponde al saluto. 
Osserva chi ha di fronte. 
E' appassionato di auto, conosce ogni modello. Il macchinone, un po' impolverato ma che ancora luccica davanti a lui, è una Bmw appena lanciata sul mercato. Un centinaio di migliaia di euro  non basta a comprarla.

Il giovane è già pronto per ripartire.
Il pastore non capisce perché si sia fermato. Finché il giovane non parla.
«Mai abbandonare la tecnologia. Non avevo acceso il navigatore e pensavo di prendere una scorciatoia. Invece vedo che la stradina è a fondo cieco. Torno sulla provinciale».
Il pastore educatamente annuisce.
Il giovane rientra in auto. Dal finestrino abbassato dà un'ultima occhiata al gregge e al cane che lo sta osservando con un occhio semichiuso.
Fa un cenno al pastore perché si avvicini. «Senti, ti faccio una proposta: io ti dico esattamente quanti animali hai qui sul campo e tu, in cambio dell’informazione, me ne dai uno. Ti va?»

Il pastore guarda il giovane come vedesse un marziano. 
«Un animale? A te? E che ci fai, tu, con una pecora?»
«Non ti preoccupare. Tu dimmi solo se accetti o no».

Il pastore ci pensa. Non capisce, ma è curioso. 
Guarda il gregge: è tutto raccolto ed è anche numeroso. In certi punti è impossibile riuscire a distinguere una pecora dall'altra. E poi, per contarle bisogna avvicinarle una ad una».

Il giovane ha premura.
«Allora? Deciditi. E' semplice: mi dici sì o no. E io me ne vado. Tu, qui, hai tutto il tempo che vuoi, ma dalle mie parti il tempo è denaro».

Il pastore è ancora più intrigato dai suoi modi sgarbati.
Attende qualche secondo e poi acconsente. 
«Va bene, dimmi quante sono le mie pecore.» 

Il giovane non attendeva altro. 
Afferra dal sedile dell'auto il computer portatile, lo collega allo smartphone, entra in internet, naviga in una pagina della Nasa, seleziona un sistema satellitare che gli rilevi la posizione esatta, invia i dati a un satellite che scansiona l'area geografica in cui in questo momento si trova e la fotografa in risoluzione ultradefinita, apre un'app di foto digitale, invia la foto ingrandita a un laboratorio di Amburgo di cui è cliente. Si ferma. Fa un respiro. Attende cinque secondi: un'email di ritorno gli conferma che tutto è in veloce elaborazione. Infatti, trascorrono dieci secondi e gli arriva per email una rapporto dettagliato che gli illustra ogni passaggio seguito per arrivare alla soluzione: formule arzigogolate, somme e moltiplicazioni, radici quadrate. Alla fine, ci sono dei numeri. Pecore, 358. Cane, 1. E compare anche un +2.

Il pastore osserva il giovane che ha finito di smanettare allo smartphone: sprizza felicità e sicurezza da ogni poro.
«Allora?», chiede il pastore, che non sembra sconvolto dai suoi maneggi al computer.
«Qui sul prato pascolano esattamente 358 pecore. Di queste 2 sono gravide. Naturalmente, per completare il numero degli animali, va aggiunto il cane».

Il pastore sorride.
«Non è così?»
La domanda del giovane è chiaramente retorica.
«Certo, è così. Prenditi la pecora».
«E non mi chiedi come ho fatto?»
«Quelli come te non dicono che contano solo i risultati? Il risultato è giusto. Basta così».

Il giovane ha richiuso il computer ed è ridisceso dall'auto.
Chiede al pastore se ha una corda.
Lui gli mostra lo zaino: «Cerca lì dentro».

Il giovane trova la corda e si avvicina all'animale. Fa per mettergliela al collo. Ma l'animale si divincola, recalcitra, fa resistenza.
Il pastore, sempre tranquillo, interviene, fermando il giovane con un braccio.
«Senti, ma se ti dico qual è il tuo mestiere, mi ridai l'animale?».

Il giovane è stuzzicato: impossibile che un semplice e ignorante pastore come lui, che trascorre le giornate lì fuori dal mondo, immagini la sua professione.
Acconsente, sfidando l'interlocutore con tono canzonatorio: «Ok, vediamo: che mestiere faccio?».

Il pastore non ha titubanze: «Sei un consulente».

Il giovane trasecola.
«Consulente»?
«Sì, consulente».
Il pastore è serio e deciso. «Allora? Sì o no? Hai detto che non hai tempo da perdere...».
«Sì. Sono consulente. Ma come sei riuscito a indovinare?».
«Non ho indovinato nulla. Ho solo messo in fila i fatti: senza computer e connessione a internet»
«Ma, scusa, quali fatti?»
«Li vuoi proprio sapere?».
«Certo».
«Sono quattro. Primo, sei  comparso senza che nessuno ti cercasse. Secondo, volevi essere pagato per darmi un'informazione che io già avevo e per la quale appunto non ti avevo chiesto nulla. Terzo, sei uno che se la tira un po' troppo per i miei gusti. Infine...»
Il pastore voleva lasciare il giovane un po' in sospeso.
«Infine c'è il fatto che dice tutto. Stai cercando di portarti via il cane al posto della pecora. Allora, delle due l'una: o hai idee confuse su come sono fatte le pecore, che hai fatto fotografare dai tuoi amici di internet ma che tu non hai mai visto nella tua vita; oppure...».
Il giovane lo interrompe:
«Oppure?»
«Qualche pecora, almeno dai libri, l'hai vista e anche tu hai imparato che i cani non sono pecore. Ma siccome cani e pecore sono tutti animali, hai voluto giocare sulla parola animali e... sì, insomma, diciamo che c'hai provato. Ma io, caro consulente, sono pastore, mica scemo».

*** Massimo Ferrario, Il Pastore e il giovane, 2013-2015, per Mixtura - Rielaborazione di un racconto noto, da anni diffuso anche in internet.

#INEDITI / 'Dress Code', l'insostenibile pesantezza del conformismo (Valerio Bianchi)


Domenica scorsa ho pranzato con un mio carissimo amico, col quale ci conosciamo dall’infanzia. Ci siamo laureati insieme in Economia, frequentando la stessa Università. Poi i nostri percorsi si sono divaricati: io ho lavorato sempre e solo nel settore pubblico, lui sempre e solo in quello privato.

Ci è capitato spesso di confrontare le rispettive esperienze di lavoro (ormai quasi ventennali per entrambi!) e nel farlo abbiamo sorriso delle differenze tra i nostri due mondi: diversi modi di entrarne a far parte, di fare carriera; diversità di valori di riferimento, di orari di lavoro e così via. Domenica la discussione si è soffermata sul dress code, cioè sull’abbigliamento richiesto in ufficio e sui relativi gradi di prescrittività.


E stavolta (mi perdonerà il mio amico) un senso di disagio si è impadronito di me. Francesco (nome di fantasia) ha preso spunto dalla mia abitudine – deprecabile a suo dire – di indossare dei sandali semichiusi nei mesi estivi, assolutamente inadeguati ad un posto di lavoro secondo il suo giudizio. Pungolato dalla “provocazione”, gli ho spiegato fra il serio e il faceto che per me è molto importante tenere i piedi al fresco nei torridi mesi estivi romani e che di questa frescura ne beneficia anche la mia capacità di concentrazione, dunque in ultima analisi la produttività. A sostegno della tesi ho aggiunto che vestendoci in maniera più leggera (anziché in giacca, cravatta e mocassini) c’è un minor consumo energetico d’estate. E che tale beneficio dovrebbe far passare in secondo piano tante vuote considerazioni “stilistiche”.

La sua controreplica però è stata oltremodo ficcante e ha passato in rassegna tutte le prescrizioni che il suo impiego gli impone, ma che lui giudica del tutto normali. Anzi di più: comprensibili e raccomandabili. Eccone alcuni esempi: 1) i completi da uomo possono essere solo grigio scuri o blu. Al limite lievi variazioni su queste tonalità. Le altre colorazioni sono bandite; 2) le camicie non possono avere il taschino né il colletto “botton down”, ma rigorosamente alla francese; 3) i pantaloni da abbinare a uno spezzato devono comunque essere di sartoria e di taglio classico (no jeans o similari). 

E così via in un agghiacciante crescendo di questo repertorio del conformismo. L’apice è stato raggiunto quando Francesco mi ha detto che sono proibiti anche le camicie a maniche corte e i calzini bianchi. “Su questo concordo anch’io”, gli ho risposto, “ma semplicemente perché sono molto brutti entrambi”.

Più tardi ho cercato di capire quale fosse il senso, l’utilità ricavata da questa rigorosa elencazione. Sul cui controllo peraltro pare si soffermi a lungo e con grande acume l’attento occhio degli addetti alle Risorse Umane. 
Lui mi ha risposto con una metafora o almeno credo che lo fosse: “Se sei un professionista o lavori presso un cliente, devi essere ESTERNO (sic!) al loro contesto”. 
“E lo sei grazie al colore dell’abito?”, replico io. 
“Sì, perché sottolinea il tuo senso di neutralità”.

Ora non so a voi l’effetto che fa questa roba, ma a me suscita uno spontaneo e irrefrenabile senso di comica repulsione. Perché tanto raggelante conformismo? A cosa serve mimetizzarsi in questi codici e imporne il rigoroso rispetto? Soprattutto come fanno certe organizzazioni a garantirsi una così ampia ed acritica adesione da parte dei loro dipendenti? Perché il senso della discussione era che tutto ciò fosse non solo lecito, ma persino ovvio, scontato e ben accetto nella cultura organizzativa di riferimento.

Concludo con una domanda: sono davvero queste le organizzazioni più virtuose ed efficienti del nostro Paese? Sono proprio loro il paradigma cui dovremmo uniformare i nostri stili manageriali e i codici comportamentali? Sono soltanto questi i “valori” che il mondo produttivo riesce a promuovere e a diffondere?

Al termine della chiacchierata col mio amico mi sono guardato i miei abiti (maglione rosso fuoco, jeans scoloriti, scarpe da ginnastica) e gli ho detto: “Io domani sarei potuto andare così in ufficio. Da te non andrebbe bene?”. Lui mi ha guardato con perplessità e mi ha risposto: “Mah…tendenzialmente no, ma se fosse stato venerdì…”. 

Era una chiara allusione al “casual Friday”, cioè all’attenuazione (anch’essa prescritta!) del rigore conformistico che queste organizzazioni consigliano o tollerano nell’ultimo giorno lavorativo della settimana.
Dentro di me ho pensato che per fortuna l’indomani, almeno nel mio mondo, sarebbe stato un semplice, banalissimo e normale lunedì.

*** Valerio BIANCHI, L'insostenibile pesantezza del dress code, inedito, per Mixtura.


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#SENZA_TAGLI / Laicità, mai rassegnarsi (Giuseppe Civati)

Secondo il rapporto Eurispes, non bisogna rassegnarsi. La partita politica è aperta. I dati sono in alcuni casi in leggero peggioramento perché la destra picchia come un fabbro, mentre la sinistra è equivocata dalle posizioni della maggioranza (che è progressista solo a parole).

Le battaglie laiche (che si chiamano così solo perché siamo tra i paesi in cui la politica è meno laica) sono comprese dalle cittadine e dai cittadini italiani.

Secondo l’indagine Eurispes, questi sono i dati:
* 60% è favorevole a una legislazione avanzata sul fine-vita (noi parliamo di diritti dei morenti).
* 48,7% alle nozze gay (senza i distinguo del Pd, che oggi lambiscono anche le coppie etero: non basta mai).
* 47,1% alla Cannabis legalizzata.

E a proposito di laicità si segnala anche che l’8 per mille è «mal vissuto» dalla maggioranza degli italiani: peccato che il nostro emendamento alla Stabilità – in cui si chiedeva di regolarlo meglio – sia stato contrastato dalla maggioranza al completo e salutato dall’astensione dei 5s. Certe battaglie, semplicemente, non si fanno. Peccato.

Nel frattempo, esplode il dato dell’evasione fiscale, sempre secondo Eurispes, ma come sapete se ne occupano solo gufi e rosiconi.

Crederci sempre, soprattutto se si tratta di diritti. Anche se alcuni se ne disinteressano e altri pensano solo a far crescere la paura.

*** Giuseppe CIVATI, politico, leader del movimento 'possibile', Non rassegnatevi mai, soprattutto sulla laicità, 'ciwati.com', 29 gennaio 2016, qui



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#SENZA_TAGLI / Cambiamento, la resistenza non esiste (Davide Storni)

La resistenza al cambiamento non esiste. È un’affermazione che mi sento di ripetere ogni volta che sento usare la resistenza al cambiamento come alibi per progetti non riusciti o mai nati.

La prima volta la usai ad un convegno sul cambiamento presso la sede di una nota associazione industriale. Dopo il 4° intervento che ribadiva come, malgrado brillanti idee e la migliore buona volontà dei relatori, le persone si ostinassero a non comprendere il perché del cambiamento e a resistere ad ogni tentativo di migliorare le loro vite, mi alzai e dissi che guardando alla mia esperienza potevo tranquillamente affermare che la resistenza al cambiamento non esistesse.

Ovviamente si trattava di una provocazione, di un paradosso, ma non fu accolto bene; a volte non c’è persona più resistente al cambiamento di chi si occupa di cambiamento.

Facciamo un passo indietro per capire da dove nasce la mia affermazione e a cosa può servirci.
Le reazioni soggettive al cambiamento sono molto diverse, variabili in relazione a molti fattori fra i quali il momento storico e le condizioni in cui la persona si trova.
C’è chi prende il cambiamento come un’opportunità, chi come una cosa naturale, chi come una speranza, chi come angoscia, chi lo vive e basta. A volte la stessa persona è più o meno ben disposto verso il cambiamento a seconda dei momenti e dell’umore. Ognuno di noi vive questa variabilità.

Solo quando si entra in azienda le cose cominciano a chiarirsi: il cambiamento è un problema degli altri.
In particolare possiamo affermare con certezza che le persone non vogliono cambiare e che la resistenza al cambiamento è la nuova legge, la nuova verità. Su questa ineluttabile legge si infrangono i migliori progetti e naufraga qualsiasi tentativo di innovazione.
Innegabile, lo sperimentiamo ogni giorno (io stesso ho potuto sperimentarlo più volte).

A volte però capita di sperimentare anche l’opposto, ovvero le cose succedono, le persone cambiano, si adattano, adottano strategie per sfruttare il cambiamento. Almeno questa è la mia esperienza, anzi è la sintesi di una serie di esperienze fatte in luoghi diversi, in situazioni molto diverse e con persone diverse. Possiamo affermare che non si tratti di un caso.
Posso anche affermare che nelle medesime situazioni e con le stesse persone ho sperimentato sia la resistenza che la disponibilità. Non essendo cambiate le situazioni in cui mi trovavo, né le persone coinvolte, cosa può essere cambiato per determinare atteggiamenti diversi da parte dei miei interlocutori?
Semplicemente il mio modo di propormi.

Possiamo arrivare ad ipotizzare che la resistenza la cambiamento sia una proiezione di chi propone il cambiamento e non un “attributo” delle persone che sono coinvolte. Quindi ad affermare che la resistenza al cambiamento non esista, almeno non esista come elemento qualificante le persone, ma solo come effetto del modo di proporre il cambiamento o della natura del cambiamento proposto.
La resistenza al cambiamento non è una “colpa” delle persone, né qualcosa di ineludibile e immodificabile.
Piuttosto essa dipenderà dalle modalità di gestione del cambiamento, ovvero da come il facilitatore saprà approcciare alla realtà in divenire e a cosa proporrà e come lo farà.

Le persone tendono a massimizzare la propria utilità in base alle opportunità presenti nell’ambiente che li circonda e in base alle proprie capacità di attivare energie e competenze che gli permettano di migliorare la propria situazione iniziale.
Ne consegue che:
1. quando le persone non capiscono hanno una naturale diffidenza.
2. quando non hanno le capacità per affrontare la nuova situazione hanno una naturale e salutare paura.
3. Quando nella nuova situazione che si va delineando non esistono possibilità di migliorare la propria posizione, allora cercano di minimizzare le perdite.

Questi comportamenti sono naturali e sani, nel senso che sono finalizzati a migliorare la situazione dell’individuo (gli stessi meccanismi valgono anche a livello di gruppo, sia pure ad un livello di complessità più elevato).
Chi si appresta a proporre un cambiamento o ad aiutare le persone ad affrontare un processo di cambiamento dovrebbe semplicemente prenderne atto ed agire di conseguenza, cercando di aiutare le persone a trovare informazioni, risorse o vie di uscita. Se non lo fa è certo che troverà resistenza, ma questo non è sorprendente, è invece la logica conseguenza del suo approccio al problema.
Estremizzando: se proponessi ai dipendenti di una società che si trova a nord di Milano, di trasferirsi entro tre mesi a Torino, beh non potrei che aspettarmi delle resistenze. Devo tenerne conto e impostare il processo di cambiamento di conseguenza. Oppure cercare di ridurre gli aspetti del cambiamento stesso che più minacciano le persone coinvolte. O, in alternativa, semplicemente prenderne atto e includerne gli effetti nel mio progetto, ma certamente non esserne sorpreso o giudicare queste reazioni come qualcosa di illogico o sbagliato.

Ho potuto sperimentare come spesso le persone non abbiano tutti gli elementi per poter comprendere le dinamiche del cambiamento, lasciando spazio al dubbio di arbitrarietà, se non di illogicità delle scelte fatte.
Spiegare gli elementi oggettivi che hanno condotto a certe scelte non renderà il cambiamento meno duro, ma se non altro ne farà comprendere i motivi e ridurrà i motivi di lamentela o di scontro. Ci sono aziende che sono arrivate a condividere scelte molto sofferte come quelle di licenziare delle persone. In generale più sarà la chiarezza e la condivisione, minore sarà la resistenza.
Ci sono poi cambiamenti meno drastici dove sarà sufficiente approfondire e comprendere gli effetti sulle persone per poterle mitigare e, a volte, trasformare quello che era un temuto peggioramento in una opportunità. E il modo migliore di comprendere è coinvolgere ed ascoltare.

La Gerenza di Milano: una delle mie prime esperienze lavorative mi condusse a fare un dimensionamento degli organici della struttura deputata ai rapporti con i broker della Milano assicurazioni. Negli anni novanta, l’azienda vantava ancora un significativo portafoglio con il mercato dei broker assicurativi, in particolare nel settore aziende. Lavorare con i broker era considerato più complesso rispetto a lavorare con agenti mono mandatari in quando i broker non avevano legami con la compagnia e potevano liberamente rivolgersi a chi offriva condizioni migliori per il proprio cliente (nonché provvigioni più alte per loro stessi).
Si doveva perciò essere in grado di offrire il miglior servizio e le migliori coperture assicurative per poter competere in un mercato sempre in divenire. Negli anni precedenti però i risultati si erano rivelati piuttosto negativi e ciò aveva condotto a diverse azioni correttive, fra le quali anche quella che avrei dovuto intraprendere io.
Iniziai con lo stesso approccio già utilizzato in altre aree aziendali, distribuendo ai capi dei questionari per la rilevazione delle attività. Gli stessi mi tornarono completamente vuoti. Quando andai a chiedere spiegazioni mi fu detto che non avrei avuto alcuna collaborazione da loro. Avevo raggiunto il più alto livello di resistenza al cambiamento possibile, muro contro muro.
A quel punto avevo davanti a me due possibilità: la prima era quella di dare la colpa a queste persone che non si rendevano conto dell’importanza per l’azienda di quanto stavo facendo oppure chiedere l’intervento del vertice aziendale affinché prendesse gli opportuni provvedimenti verso questi capi “poco collaborativi”.

Scelsi invece una terza via, andai a chiedere loro il perché.
Non fu facile, ma con un po’ di pazienza riuscii a comprendere le logiche di quel microcosmo, ad individuare dei temi di comune interesse e su questi costruire un nuovo e diverso rapporto. Alcuni dei capi che inizialmente mi avevano mostrato aperta ostilità cominciarono a collaborare: fra questi ricordo con piacere la figura di Ivana M., persona molto sensibile e fiera della propria professionalità, che amava il proprio lavoro e temeva una involuzione della realtà organizzativa in cui operava. Con Ivana riuscimmo a fare degli interventi volti a migliorare la professionalità dei suoi collaboratori, a riorganizzare alcune attività e, come ultimo passo, anche a valutare il dimensionamento dell’ufficio.

Fu un progetto molto gratificante, che mi permise di capire la necessità di comprendere punti di vista differenti e l’importanza del coinvolgimento delle persone. Proprio a seguito di questa esperienza cominciai ad affiancare alle mie competenze organizzative anche competenze di tipo diverso, approcciando l’empowerment, l’analisi transazionale, la psicologia del lavoro.

Qualche anno dopo parlando con il professor Francesco Novara delle sue esperienze in Olivetti, condividemmo l’importanza di andare a vedere da vicino cosa succede sul posto di lavoro, ascoltando il punto di vista dei lavoratori che spesso sono anche le persone che più sanno di un certo specifico lavoro.
Ritrovai poi lo stesso concetto leggendo Taichi Ohno, adottando in seguito il suo motto: go and see, ask why, show respect.

Muoversi verso l’altro è già un segno di rispetto; rispetto che poi possiamo ribadire nel modo di porci e di proporci e che è alla base di ogni rapporto sano e proficuo. Proponendoci in questo modo scopriamo che il muro a volte non è tale e che la temuta resistenza al cambiamento non è altro che la proiezione di nostre paure e di nostre storie personali o per dirla con una frase di Ivano Fossati “… saremo noi che abbiamo nella testa un maledetto muro” (da La musica che gira intorno).

*** Davide STORNI, consulente, Change Management? Change Your Mind. Parte seconda: la resistenza al cambiamento non esiste, 'bloom', 18 gennaio 2016, qui

venerdì 29 gennaio 2016

#PIN / Superficie e fondo (MasFerrario)

#SCRITTE / Fotti il sistema

#NOI TRA DI NOI / Mixtura, 10 post più letti (22gen-29gen16)

Mixtura - 10 Post più letti
(settimana 22gen16-29gen16)

#CIT / Il ricordo (Primo Levi)

Primo LEVI, 1919-1987
scrittore e poeta, chimico, deportato e partigiano

In Mixtura 1 altro contributo di Pimo Levi qui


#HUMOR / Pacifico, Anonimo, D'Antonio, Lanza, Kotiomkin

Antonio PACIFICO
Quelli di Gheddafi
(via facebook)

° ° °

Facendo le corna
(via facebook)

° ° °

Francesco D'ANTONIO
Vegani e salsicce
(via facebook)

° ° °

Lucio LANZA
Putin e i giornalisti
(via facebook)

° ° °
Battuta bellissima
(via facebook)

#MOSQUITO / Iper-attivismo, quando l'organizzazione diventa isterica (Richard Normann)

La riflessione, la concettualizzazione e la teorizzazione non sono delle capacità intrinseche che si contrappongono alla reazione rapida e all’orientamento immediato all’azione. E’ esattamente il contrario: con la nostra mentalità occidentale, che distingue analiticamente tra pensiero e azione, noi tendiamo a pensare che un orientamento verso la concettualizzazione escluda un orientamento all’azione; ma abbiamo prove empiriche sufficienti, e teorie ‘razionali’ sufficienti, a convincerci che una visione di questo tipo è inesatta, e che può portare facilmente a stereotipare gli stili di leadership in una direzione piuttosto che nell’altra. (...) 

L’organizzazione che non riflette e non concettualizza ciò che fa, ma tende solo a incoraggiare l’azione, diventerà quella che chiamo ‘organizzazione istericamente iperattiva’, caratterizzata da compartimenti stagni, dai giochi politici e dalla mancanza di aggregazione e di strutturazione delle conoscenze. La frustrazione e il cinismo dilagheranno, e la leadership perderà la propria legittimazione. 

*** Richard NORMANN, 1943-2003, consulente di direzione svedese, Ridisegnare l’impresa. Quando la mappa cambia il paesaggio, 2001, Etas, Milano, 2002

#SPILLI / Sinistra (M. Ferrario)

Scrive Jena (pseudonimo di Riccardo Barenghi): «Per rispettare il senso del pudore della sinistra bisognerebbe coprire anche Verdini» ('La Stampa", 28 gennaio 2016)

Bisognerebbe.

Se ci fosse ancora una sinistra.
Che sapesse ancora cos'è il senso del pudore.

*** Massimo Ferrario, Sinistra, 'facebook', 28 gennaio 2016

#LINK / Pubblicità, più umana che ipocrita (Massimo Guastini)

Ci sono delle riflessioni preliminari che dovremmo fare sulla convenienza per una marca di comunicare la diversity, oppure di comprendere quali logiche si seguano per farlo, che rischi si corrano.
Tutti noi condividiamo, sin dall’infanzia, il bisogno fondamentale di sentirci accettati e, per esserlo davvero, la società ci educa attraverso esempi e inviti a imitare modelli desiderabili.
Ma non si ritiene giusto, al contempo, che un essere umano si senta discriminato per esempio per le sue modalità di amare.

Secondo una ricerca condotta dall’Unione Europea, l’Italia è il paese che discrimina di più le persone LGBT.
Secondo Eurispes, inoltre, il 61% degli abitanti di Sicilia e Sardegna non considerano le relazioni omosessuali una forma d’amore al pari di quelle eterosessuali.
Proprio in Sicilia, nel 2011, Ikea uscì con un annuncio pubblicitario che mostrava due giovani uomini per mano, di spalle. Il titolo spiegava: “Siamo aperti a tutte le famiglie”.
Una grande marca che decide di “sedersi dalla parte del torto” in una regione in cui l’omosessualità è considerata uno dei peggiori torti immaginabili per un maschio. (...)

*** Massimo GUASTINI, esperto di comunicazione, La pubblicità è più umana che ipocrita. L'Italia è il paese europeo che discrimina maggiormente le persone LGBT, 'senzafiltro', 17 gennaio 2016

LINK articolo integrale qui

#LINK / Genitori, troppo coinvolti sulla scelta universitaria dei figli (Sara Piccolo)

Il futuro preoccupa moltissimo i genitori di oggi, al punto che si sentono eccessivamente coinvolti nella scelta universitaria dei figli e le loro buone intenzioni possono essere controproducenti. Ne parliamo con Elisabetta Camussi, professoressa di Psicologia sociale all’Università Bicocca di Milano, il primo ateneo italiano che da alcuni anni organizza incontri di orientamento per genitori. «L’aspetto iniziale su cui vale la pena soffermarsi è come i genitori possano aiutare i propri figli in una scelta importante come quella del percorso universitario: facendo decisamente un passo indietro, o, se proprio non riescono, almeno un passo di lato. (...)  Si tratta di genitori interessati, curiosi, troppo spesso però presenti in funzione sostitutiva rispetto ai figli». Non è un fenomeno solo italiano. Recentemente, sulle più importanti testate giornalistiche inglesi e francesi è nato un dibattito sul ruolo intrusivo dei genitori contemporanei che, oltre a essere i finanziatori degli studi, vogliono essere anche protagonisti nelle scelte dei figli, perfino a partire dalla compilazione della lettera di autopresentazione per essere ammessi a un corso di laurea. (...)

*** Sara PICCOLO, giornalista, Genitori che accompagnano i figli all’università. «Tolgono coraggio», 'Corriere della Sera', 28 gennaio 2016

LINK articolo integrale qui

#VIDEO / Platone, per vedere il pensiero (Marco Bonazzi)

Marco BONAZZI
Le idee di Platone, per vedere con il pensiero
'La Lettura', 25 gennaio 2016
video, 3min27



Platone è il teorico delle idee: il filosofo Mauro Bonazzi racconta perché il pensatore greco è tra i capisaldi della filosofia di tutti i tempi. Distinguendo l’oggetto concreto dalla sua idea astratta (dire che «questa cosa è giusta», infatti, è diverso dal concepire un’idea generale di giustizia che si possa applicare a qualsiasi situazione) ha sostanzialmente fondato la civiltà occidentale. Nonostante le critiche di molti grandi, a cominciare da Aristotele.
(dalla presentazione del video)

giovedì 28 gennaio 2016

#PIN / Decisionalità (MasFerrario)

#MOSQUITO / Statua, interiore (Plotino)

Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora interiormente bello, fa' come lo scultore di una statua che deve diventar bella. Egli toglie, raschia, liscia, ripulisce finché nel marmo appaia la bella immagine: come lui, leva tu il superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica ciò che è fosco e rendilo brillante e non smettere di scolpire la tua propria statua interiore.

*** PLOTINO, filosofo greco, 204-270, Enneadi, I, 6, 9, citato da Diego Fusaro, facebook, 26 gennaio 2016, qui

#SPOT / Chiesa, doveri delle mogli (1895)

(a) - Ricordo della sacra predicazione, 1895

° ° °

(b) - Doveri dei mariti, 1895

° ° °

(c) - Doveri delle spose, 1895


Il testo (a) è un manifesto ecclesiastico del 1895. 
E' diviso in 8 paragrafi:
1 - Doveri dei capi di casa
2 - Doveri dei figli e dei dipendenti
3 - Doveri dei mariti
4 - Doveri delle spose
5 - Doveri dei padri
6 - Doveri delle madri
7 - Doveri dei giovani
8 -Doveri delle giovani
Si aggiungono 2 sezioni intitolate Fuggi il male e Opera il bene.

E' stato trovato dai coniugi Corsini mentre restauravano un cascinale nel borgo di Casa Baroni a Fellicarolo, frazione del comune di Fanano, nell’Appennino modenese. Ed è stato segnalato in rete dallo storico Massimo Turchi, di Linea Gotica-Officina della memoria (qui).

Il riferimento è alla predicazione avvenuta nel periodo tra il 28 giugno e il 7 luglio del 1895. 
Nel documento sono elencati i “Doveri della famiglia cristiana”, e di ogni suo componente. Si va dai “Doveri del Capo famiglia” a quelli “delle Giovani”, passando, come prevedibile, da quelli “dei Mariti” e “delle Spose” (la notizia è ripresa da 'radiocittàdelcapo.it', 22 novembre 2013, qui).

Sono passati oltre 120 anni.
Ma la domanda - leggendo soprattutto i due estratti (a) e (b) qui sopra pubblicati - è: per la Chiesa, questi 120 anni sono passati? (mf)

#SGUARDI POIETICI / I bambini imparano quello che vivono (Dorothy Law Nolte)

Se i bambini vivono in un ambiente che critica, imparano a condannare.
Se i bambini vivono in un ambiente ostile, impararono ad aggredire.
Se i bambini vivono in un ambiente di paura, imparano ad essere 
     apprensivi.
Se i bambini vivono in un ambiente che mostra pietà, imparano
     a compatirsi.
Se i bambini vivono in un ambiente che prende in giro, imparano ad essere 
     timidi.
Se i bambini vivono in un ambiente di gelosia, imparano cos'è l'invidia.
Se i bambini vivono in un ambiente di vergogna, imparano a sentirsi 
     in colpa.
Se i bambini vivono in un ambiente che incoraggia, imparano ad essere 
     sicuri di sé.
Se i bambini vivono in un ambiente di tolleranza, imparano ad essere 
     pazienti.
Se i bambini vivono in un ambiente che loda, imparano ad apprezzare.
Se i bambini vivono in un ambiente che accetta, imparano ad amare.
Se i bambini un bambino vivono in un ambiente che approva, imparano 
     a piacersi.
Se i bambini vivono in un ambiente che riconosce, imparano che è bene 
     avere un obiettivo.
Se i bambini vivono in un ambiente che condivide, imparano la generosità.
Se un bambino vive in un ambiente onesto, imparano la verità.
Se i bambini vivono in un ambiente leale, imparano la giustizia.
Se i bambini vivono in un ambiente sicuro, imparano ad avere fiducia 
     in se stessi e in chi li circonda.
Se i bambini vivono in un ambiente amico, imparano che il mondo è un 
     bel posto in cui vivere. 

*** Dorothy Law NOLTE, 1924-2005, scrittrice e consulente familiare statunitense, I bambini imparano quello che vivono, da Dorothy Law Nolte e Rachel Harris, Children Learn Whiat They Live, 1998. - Traduzione di Massimo Ferrario, dal testo inglese originario del 1998. Testo originario e successive versioni  qui
https://en.wikipedia.org/wiki/Dorothy_Nolte


#RITAGLI / Famiglie omogenitoriali, gli studi mondiali (Eugenia Romanelli)

Sento e leggo beceri riferimenti a studi immaginari per dimostrare questo e quello a caso, senza la minima consapevolezza né coscienza di che cosa sia una ricerca scientifica. Allora, tutti seduti, vi faccio una lezione, così non potrete più, voi ignoranti in cattiva fede, blaterare a caso e manipolare media, social media e vicini di casa.

Cominciamo col mettere un punto fermo: dai primi rapporti psicologici sulle famiglie omogenitoriali sono passati oltre 40 anni (il primo fu Osman nel 1972). Poco? Sì, rispetto a quelli sulla polmonite, molto se si prende a paragone quelli sull’anoressia. In sostanza, abbastanza per avere un quadro approfondito.

Una recente analisi della letteratura scientifica sull’omogenitorialità compiuta da Adams e Light nel 2015 ha passato in rassegna tutte le pubblicazioni scientificamente accreditate al mondo per concludere che, intorno agli anni 2000, la comunità scientifica internazionale ha raggiunto l’unanimità sul principio che non sussistano differenze significative tra figli di genitori omosessuali e di quelli eterosessuali.

Tuttavia, esiste una posizione, minoritaria ma rumorosa, di alcuni ricercatori che sostengono il contrario, ossia che l’omogenitorialità sia causa di disagio per i figli. Tali ricercatori sono tutti legati all’accademia cristiana, a istituti di ricerca sulla famiglia fondati da chiese o aderenti a mission religiose e università cristiane. Gli studi in questione sono solamente quattro su migliaia, ma proprio perché in perfetta controtendenza rispetto alle conclusioni della comunità scientifica internazionale, hanno suscitato molto clamore (potete trovarli cercando Sarantakos, 1996; Regnerus, 2012; Sullins, 2015; Allen, 2013, quest’ultimo con taglio economico). Tali ricerche ad oggi sono state tutte smontate dalla stessa comunità scientifica che li ha screditati e disconosciuti per via di gravi falle nel metodo della raccolta dati. (...)

*** Eugenia ROMANELLI, giornalista, saggista, docente, Famiglie omogenitoriali: cosa dicono davvero gli studi mondiali, blog 'ilfattoquotidiano.it', 27 gennaio 2016

LINK articolo integrale qui

#SENZA_TAGLI / Maternità, l'ossessione (Nicola Ghezzani)

Non ogni donna ha un'attitudine alla maternità. Che esista un “istinto materno” in ogni singola donna è un arbitrio sociale. Per quasi tutti i popoli antichi la maternità era l'obbligo di pressoché ogni donna, di solito facilitato da modelli sacri, le dee madri. Rifiutare la maternità era dunque una colpa “civica” e al limite “religiosa”. Oggi, anche nell'Occidente moderno, da quando i valori del cristianesimo e in particolare del cattolicesimo sono stati “naturalizzati” (cioè interpretati come “naturali”), si ritiene che l'impulso psicologico alla maternità risponda ad una norma biologica, cioè che sia un “istinto”. Di conseguenza, le donne che non sentono questo presunto istinto vengono percepite come psichicamente “anormali”, cioè affette da una “perversione” morale o affettiva.

Se la maternità fosse un istinto biologico universale, tutte le donne sentirebbero un identico impulso a restare incinte, a partorire e ad accudire con amore il proprio bambino. Ma non è così. Mentre ogni bambino, per istinto, gira il viso verso il seno o il biberon per nutrirsi, non ogni donna desidera restare incinta, partorire e accudire un figlio. Con ogni evidenza, esiste una quantità di donne che non desiderano avere figli né vogliono accudirli, anche se percependo questo desiderio negativo e questa incapacità spesso si vergognano e si sentono in colpa.

Ogni donna nasce con una personalità distinta, e come tale ha la facoltà di scegliere, secondo la sua natura psicologica (caratteriale), se avere un figlio oppure no. Alla specie homo sapiens non interessa che ogni essere umano si riproduca, ma che a farlo sia il gruppo etnico (che è la sua unità biologica minima), e che ognuno, all'interno dell'etnia, svolga una sua funzione, più o meno utile. Questa inconscia “intelligenza di specie” agisce nel senso di generare un numero indefinito di donne dotate di eccellenze affettive e intellettuali che non si sentono affatto “destinate” alla maternità, ma che, se lasciate libere, troverebbero altri scopi, non meno degni, alla loro vita (come dimostrano le tante scienziate, artiste, intellettuali, religiose, patriote, donne impegnate negli affetti e nei valori che non hanno avuto figli e non ne hanno sofferto).

Purtroppo, le culture religiose (perlopiù eredi delle società patriarcali arcaiche) insistono che la natura della donna sia di generare figli e non per esempio affetti, amori, ambienti, oggetti, idee, opere d'arte, sistemi sociali e di valori. La gran parte delle culture religiose e purtroppo anche tante teorie psicologiche colpevolizzano l'impulso di tante donne a vivere secondo scopi personali che non includono la maternità. Questa insistenza, interiorizzata come codice psichico normativo, diventa in molte donne una vera e propria ossessione, portatrice di incertezza, ambiguità e patologia. Quelle che esitano a lungo e superano la fatidica soglia biologica (40/50 anni) senza avere figli, spesso si colpevolizzano per la loro scelta, che talvolta negano, come se fosse stata provocata da fattori casuali e indesiderati, talaltra riconoscono come propria ma ripudiano su un piano morale. In entrambi i casi l'esito è una depressione. Altre donne, prima della soglia fatidica, si ostinano nel tentare approcci sentimentali fallimentari o percorsi medici costosi e devastanti pur di sentirsi “normali”. Altre ancora, impongono ai loro compagni, anche non amati, una una vera e propria “estorsione biologica”, e questi diventano padri a loro volta non volendolo. Naturalmente anche in questi casi l'esito è la depressione, il conflitto, l'occultamento di una bassa autostima e di una identità interna percepita come negativa.

Non di rado, l'immagine interna negativa genera in queste donne gelosie ossessive, persino paranoiche: l'idea che il compagno desideri una donna più giovane, più fertile, più femminile, più materna. Altre volte, se il compagno non c'è, l'idea di essere destinate al ripudio da parte di qualunque uomo e di chiunque, parenti e amici, quindi di essere condannate ad una solitudine senza scampo.

Lo psicoterapeuta dialettico dovrebbe essere in grado di leggere in queste drammatiche esperienze femminili il conflitto di valori che le sommuove. La teoria psicologica dovrebbe mettersi in grado di cogliere dati di semplice e immediata realtà culturale e sociale oltre che psicologica, per restituire alla paziente il diritto alla propria innata dignità e quindi a rivendicare come scelta ciò che i valori esterni (interiorizzati ma parassitari) le hanno imposto. Se la cultura corrente (interiorizzata nel Super-io) risponde al suo rifiuto di maternità con un giudizio ottuso e impietoso di “anormalità psichica” e di “difetto morale”, lo psicoterapeuta dovrebbe essere in grado di funzionare come "specchio dell'interiorità", cogliendo il valore intrinseco della persona che ha di fronte e la necessità di ripristinare la sua libertà morale nei confronti della coercizione ambientale.

Naturalmente, quanto detto fino ad ora non nega affatto che molte donne che diventano madri pur non volendolo possano scoprire inattese capacità materne e essere adeguate al ruolo più di altre che fanno della maternità più uno status simbol che una complessa esperienza esistenziale.

*** Nicola GHEZZANI, psicoterapeuta e saggista, L'ossessione della maternità, facebook, 23 gennaio 2016, qui