Domenica scorsa ho pranzato con un mio carissimo amico, col quale ci conosciamo dall’infanzia. Ci siamo laureati insieme in Economia, frequentando la stessa Università. Poi i nostri percorsi si sono divaricati: io ho lavorato sempre e solo nel settore pubblico, lui sempre e solo in quello privato.
Ci è capitato spesso di confrontare le rispettive esperienze di lavoro (ormai quasi ventennali per entrambi!) e nel farlo abbiamo sorriso delle differenze tra i nostri due mondi: diversi modi di entrarne a far parte, di fare carriera; diversità di valori di riferimento, di orari di lavoro e così via. Domenica la discussione si è soffermata sul dress code, cioè sull’abbigliamento richiesto in ufficio e sui relativi gradi di prescrittività.
E stavolta (mi perdonerà il mio amico) un senso di disagio si è impadronito di me. Francesco (nome di fantasia) ha preso spunto dalla mia abitudine – deprecabile a suo dire – di indossare dei sandali semichiusi nei mesi estivi, assolutamente inadeguati ad un posto di lavoro secondo il suo giudizio. Pungolato dalla “provocazione”, gli ho spiegato fra il serio e il faceto che per me è molto importante tenere i piedi al fresco nei torridi mesi estivi romani e che di questa frescura ne beneficia anche la mia capacità di concentrazione, dunque in ultima analisi la produttività. A sostegno della tesi ho aggiunto che vestendoci in maniera più leggera (anziché in giacca, cravatta e mocassini) c’è un minor consumo energetico d’estate. E che tale beneficio dovrebbe far passare in secondo piano tante vuote considerazioni “stilistiche”.
La sua controreplica però è stata oltremodo ficcante e ha passato in rassegna tutte le prescrizioni che il suo impiego gli impone, ma che lui giudica del tutto normali. Anzi di più: comprensibili e raccomandabili. Eccone alcuni esempi: 1) i completi da uomo possono essere solo grigio scuri o blu. Al limite lievi variazioni su queste tonalità. Le altre colorazioni sono bandite; 2) le camicie non possono avere il taschino né il colletto “botton down”, ma rigorosamente alla francese; 3) i pantaloni da abbinare a uno spezzato devono comunque essere di sartoria e di taglio classico (no jeans o similari).
E così via in un agghiacciante crescendo di questo repertorio del conformismo. L’apice è stato raggiunto quando Francesco mi ha detto che sono proibiti anche le camicie a maniche corte e i calzini bianchi. “Su questo concordo anch’io”, gli ho risposto, “ma semplicemente perché sono molto brutti entrambi”.
Più tardi ho cercato di capire quale fosse il senso, l’utilità ricavata da questa rigorosa elencazione. Sul cui controllo peraltro pare si soffermi a lungo e con grande acume l’attento occhio degli addetti alle Risorse Umane.
Lui mi ha risposto con una metafora o almeno credo che lo fosse: “Se sei un professionista o lavori presso un cliente, devi essere ESTERNO (sic!) al loro contesto”.
“E lo sei grazie al colore dell’abito?”, replico io.
“Sì, perché sottolinea il tuo senso di neutralità”.
Ora non so a voi l’effetto che fa questa roba, ma a me suscita uno spontaneo e irrefrenabile senso di comica repulsione. Perché tanto raggelante conformismo? A cosa serve mimetizzarsi in questi codici e imporne il rigoroso rispetto? Soprattutto come fanno certe organizzazioni a garantirsi una così ampia ed acritica adesione da parte dei loro dipendenti? Perché il senso della discussione era che tutto ciò fosse non solo lecito, ma persino ovvio, scontato e ben accetto nella cultura organizzativa di riferimento.
Concludo con una domanda: sono davvero queste le organizzazioni più virtuose ed efficienti del nostro Paese? Sono proprio loro il paradigma cui dovremmo uniformare i nostri stili manageriali e i codici comportamentali? Sono soltanto questi i “valori” che il mondo produttivo riesce a promuovere e a diffondere?
Al termine della chiacchierata col mio amico mi sono guardato i miei abiti (maglione rosso fuoco, jeans scoloriti, scarpe da ginnastica) e gli ho detto: “Io domani sarei potuto andare così in ufficio. Da te non andrebbe bene?”. Lui mi ha guardato con perplessità e mi ha risposto: “Mah…tendenzialmente no, ma se fosse stato venerdì…”.
Era una chiara allusione al “casual Friday”, cioè all’attenuazione (anch’essa prescritta!) del rigore conformistico che queste organizzazioni consigliano o tollerano nell’ultimo giorno lavorativo della settimana.
Dentro di me ho pensato che per fortuna l’indomani, almeno nel mio mondo, sarebbe stato un semplice, banalissimo e normale lunedì.
*** Valerio BIANCHI, L'insostenibile pesantezza del dress code, inedito, per Mixtura.
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