mercoledì 30 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Lupo Bianco e Lupo Nero (Massimo Ferrario)

Il Grande Capo Alba Rossa e il giovane Occhio di Falco erano nella foresta, accovacciati accanto a un albero maestoso.
- Nessuno può insegnarti la vita, Occhio di Falco: la vita si impara vivendo. Ma quel che io posso fare è dirti di me. Di come io l’ho affrontata e tuttora la affronto.

Era stato Occhio di Falco a chiedere al nonno di parlargli: ormai era entrato nell’età adulta e sapeva quanto era fortunato ad essere il nipote prediletto di Alba Rossa, il capo della tribù che tutti ammiravano e rispettavano.

- Eccoci qui, ragazzo. Mi hai chiesto e io ti dico. Del resto, anche a me mio padre, un tempo ormai molto lontano, raccontò le poche cose importanti che ho imparato per vivere al meglio la vita. Fu lui a parlarmi dei due lupi.
- Due lupi?
- Già. Due lupi: uno bianco e uno nero. Lui mi raccontò che li abbiamo dentro di noi. E ne-gli anni io ho potuto verificare quanto questo sia vero. E quanto sia utile tenerlo sempre  presente. Perciò ti svelo il segreto. Che è assai semplice: da dire. Ma, come tutto ciò che appare semplice, difficilissimo da praticare. Vedi, questi due lupi non hanno solo il colore diverso: hanno caratteristiche opposte. Per questo tendono a confliggere. Perché ognuno vuole essere fino in fondo sé stesso, senza farsi condizionare dall’altro. Vuole dare libera espressione alle proprie caratteristiche. Quello bianco tende a essere buono, gentile, tranquillo. E’ di animo docile, ama andare d’accordo con gli altri animali e con il mondo. Non vuole aggredire. E se lo fa è per difendere sé o la sua famiglia, quando questa è attaccata. Intendiamoci: a Lupo Bianco non manca il coraggio, anzi. Solo che lo usa con intelligenza. E spesso ci vuole più coraggio a contenere le proprie pulsioni violente, che anche i lupi bianchi, come tutti, hanno strutturalmente dentro di sé, che a esprimerle, indirizzandole sugli altri o sul mondo. Il Lupo Nero, invece, ha una natura esattamente contraria. E’ aggressivo, violento, avido. Ulula per niente ed è portato a odiare. Basta un nonnulla per farlo arrabbiare e anche per questo non ha amici: si fida solo di se stesso. Ha bisogno di primeggiare: se non vince si deprime e ogni occasione è buona per attaccare briga. Insomma: lui vuole dominare. Ne ha bisogno: altrimenti non è lui.

Occhio di Falco era attento e assorbiva ogni parola.
- Un bel problema, nonno. Con questi due animali in corpo la lotta non può che essere continua e il rischio, per chi li ha nell’anima, è di venire dilaniati dai loro combattimenti. A giudicare i tuoi comportamenti, però, sempre ponderati, equilibrati, saggi, come ti è peraltro riconosciuto da ogni membro della nostra tribù, tu sei riuscito a mandarli via, questi due lupi. Sei stato bravo: ma come hai fatto?

Alba Rossa si trattenne: Occhio di Falco non era più il piccolo nipotino cui si poteva dare una carezza, ora era un adulto. Ma in quel momento avrebbe voluto.
- Mi sopravvaluti, Occhio di Falco. Primo, non ho mandato via nessun lupo. Secondo, non sono così saggio come mi vedi.
- Non capisco, nonno. Tieni i due lupi dentro di te? Ma allora, come fai a essere quello che sei?

Alba Rossa prese quattro bei pezzi di carne dalla bisaccia: due erano arrostiti a puntino e due erano crudi e sanguinolenti. Li depose davanti a loro su una pelle.
- Mangiamo, ora.
Il giovane si stupì.
- Ma nonno, perché hai portato questa carne fresca?
- Per i due lupi.
- Per i due lupi?
- Infatti. Anche loro devono mangiare. E’ il modo che io uso per non far vincere nessuno dei due. Hanno tutti e due diritto di vivere e io questo diritto lo alimento. Nutro ambedue: per due ragioni, almeno. Perché io stesso, come ogni appartenente alla nostra tribù, amo gli animali: tutti. E, come anche tu sai bene, quando siamo costretti a ucciderli, cosa che mai facciamo per diletto, ma solo per placare la nostra fame, chiediamo loro scusa. E poi perché mi conviene. Sì, c’è un fine strumentale che non nego. Io ho bisogno sia di Lupo Bianco che di Lupo Nero. 

Occhio di Falco cercava di capire.
- Ne hai ‘bisogno’?
- Certo. 
- Anche di Lupo Nero?
- Magari non di ‘tutto’ Lupo Nero. Ma in alcune circostanze, sì. Io cerco di fare in modo che ambedue i lupi riescano a convivere: Lupo Nero non deve sopraffare Lupo Bianco e Lupo Bianco deve poter esprimere la sua anima pacifica. Se scegliessi di nutrire solo Lupo Bian-co, Lupo Nero si vendicherebbe: potrebbe approfittare di qualche mio momento di debolezza e prendere il sopravvento nelle mie azioni, spingendomi all’ira, all’odio, alla violenza. Lupo Nero, come ogni essere, uomo o animale, di qualunque specie e colore, vuole comprensione, attenzione, rispetto: per quello che è. E del resto, se gli riconosco la sua potenza e la sua forza, in alcuni momenti queste sue caratteristiche mi potranno tornare utili: io non voglio, né debbo, ‘costruire’ nemici, come giustamente mi insegna Lupo Bianco, ma i nemici esistono: e Lupo Nero può aiutarmi a combatterli, con la sua astuzia e la sua determinazione. Perché è intelligente e capace di mettere in atto strategie vincenti: ad esempio, nel caso in cui la nostra tribù venisse attaccata, Lupo Nero potrebbe aiutarmi più di Lupo Bianco. Almeno all’inizio.
- All’inizio?
- Sì, perché dopo invece potrebbe essere di danno. Dopo potrebbe, e senz’altro dovrebbe, esserci spazio per Lupo Bianco: il suo desiderio di convivere in armonia è quello che può indurre a fare la pace, facendoci ricorrere alle parole della diplomazia e spingendoci a deporre le frecce e i pugnali.

Occhio di Falco stava rimuginando i pensieri, mentre fissava i due pezzi di carne sanguinanti.
- Fammi ricapitolare, nonno. I due lupi devono convivere, nessuno deve vincere. Dando loro da mangiare, presti attenzione a entrambi e loro, non facendosi la guerra, lasciano in pace anche te. E tu, a questo punto, da loro ti assicuri una ‘giusta distanza’: non sei dilaniato, come prima temevo, dai loro conflitti e puoi riflettere con maggiore serenità su quanto ti accade intorno: per capire e agire al meglio. Non solo: ma puoi meglio assorbire, in qualche modo ‘spurgate’, le caratteristiche positive di ognuno dei due animali: non quelle estreme, che polarizzano i loro comportamenti, ma quelle più moderate, che aiutano a mantenere equilibrio.

Stavolta Alba Rossa cedette a un moto di affetto. E abbracciò il nipote, non più nipotino.
- Hai inteso perfettamente, Occhio di Falco. Però bada: non ti ho dato nessuna ricetta. Perché per fortuna la vita si vive senza ricettari: i ricettari sono fatti di carta e la vita è fatta di vita, che va oltre qualunque ricettario. Ciò che ho cercato di trasmetterti con la storia dei due lupi è solo una suggestione: se anch’io riuscissi a praticarla sempre, cosa che purtroppo talvolta non mi accade, avrei la coscienza profonda e vigile, mai distratta e parziale. Davanti a un foglio macchiato, ad esempio, vedrei il bianco e il nero nelle giuste proporzioni: non solo il bianco, dimenticando il nero, o solo il nero, dimenticando il bianco. Forse tu, come evoca il nome che i tuoi ti hanno dato, grazie a due lupi, puoi davvero avere un occhio di falco: sul mondo, ma anche dentro di te. Questo almeno è il mio augurio per il tuo futuro di adulto. E adesso anche noi, come Lupo Bianco e Lupo Nero, ci siamo guadagnati questi due pezzi di carne: e tu dimmi se li ho cotti e insaporiti come vuole la tradizione. 

*** Massimo Ferrario, Lupo Bianco e Lupo Nero, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura di un testo di autore anonimo, attribuito ai nativi americani, e diffuso anche online in più siti.


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martedì 29 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / L'Elefante che era troppo grande (Massimo Ferrario)

Un Elefante solitario camminava nella foresta in cerca di amici. 

Vide una Scimmia, la salutò gentilmente e le chiese: “Cara Scimmia, possiamo diventare amici?”
La Scimmia rispose: “Sei troppo grande e non puoi oscillare sugli alberi come faccio io. Mi spiace, non puoi essere mia amica”.

Deluso, l’Elefante proseguì, imbattendosi in un Coniglio. Lo salutò gentilmente e anche a lui chiese: “Caro Coniglio, possiamo diventare amici?”.
Il Coniglio guardò l’Elefante e rispose: "Sei troppo grande per entrare nella mia tana. Mi spiace, non puoi essere mio amico”.

L’Elefante non si arrese e continuò il cammino. 
Vide una Rana sul bordo del sentiero, vicino a un rigagnolo d’acqua. La salutò gentilmente e le chiese: "Cara Rana, possiamo diventare amici?”.
La Rana rispose: “Sei troppo grande e pesante; non puoi saltare come me. Mi spiace, non puoi essere mio amico”.

L’Elefante insisteva. Ogni volta che incontrava un animale della foresta, più piccolo di lui, lo salutava gentilmente e gli chiedeva: “Caro animale, possiamo diventare amici?”. Ma la risposta era sempre la stessa: lui era troppo grande e nessun animale voleva essere suo amico. 

Il giorno seguente, l’Elefante, mentre camminava lento e pacifico godendosi il panorama, fu quasi travolto: tutti gli animali correvano spaventati. Con la proboscide riuscì a fermare un Orso per informarsi su cosa stesse accadendo. L’Orso gli disse che c’era una tigre che stava aggredendo tutti i piccoli animali.

L’Elefante sapeva dove trovare la Tigre. Corse da lei tutto preoccupato e con un barrito che spaventò la foresta intera le urlò: “Per favore, cara Tigre, lascia stare i miei amici. Tu sei grande e grossa, loro sono piccoli e buoni. Non ti hanno fatto nulla. La foresta è la nostra casa: viviamo tutti da amici”.
La Tigre ruggì, infastidita. “Fatti gli affari tuoi: non ho chiesto il tuo parere. Tu sei un Elefante e comportati come credi; io sono una Tigre e faccio la Tigre. Se tu hai amici, sono problemi tuoi: io non ne ho e non li voglio.” 

L’Elefante era buono, ma era pur sempre un grande animale. Si avvicinò alla Tigre, sempre barrendo, e con la grande zampa le sferrò un grande calcio sul muso. La Tigre rimase sbigottita: un altro grande animale aveva osato colpirla. Con il viso dolorante, guardò le dimensioni imponenti dell’Elefante: pensò che non era il caso di andare allo scontro e se ne andò.

All’improvviso, da ogni parte della foresta, sbucarono i piccoli animali: quelli che avevano rifiutato l’amicizia dell’Elefante.  Tra questi, la Scimmia, il Coniglio, la Rana. Ma anche tutti gli altri.
Gli si strinsero tutti attorno per fargli festa e ringraziarlo. 
In coro gli dissero: “Caro Elefante, abbiamo visto e imparato. Non sei troppo grande. Sei della taglia giusta per essere nostro amico”.

*** Massimo FERRARIO, L’Elefante che era troppo grande, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura di un breve racconto tratto da Shannon Serpette, scrittrice ed editor statunitense, Elephant and Friends, da 20 Good Short Moral Storie for Kids, in ‘momlovesbest.com’, 1 febbraio 2021


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domenica 27 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Come aggiustare il mondo (Massimo Ferrario)

Una bambina e il suo papà sono soli in viaggio, seduti tranquillamente in uno scompartimento ferroviario. 
Il papà legge un libro. La bambina un po’ gioca con la sua bambola preferita, sus-surrandole una storia che man mano inventa e agitandola sui sedili vuoti per farle compiere i movimenti del copione che ha in mente; e un po’ guarda fuori dal finestrino.
Il paesaggio fuori scorre veloce. Alberi, terreni coltivati, fattorie, covoni, trattori, mucche. All’inizio è tutto bello, poi lo spettacolo è sempre quello e la bambina, abituata con gli stimoli inesauribili e rapidi della televisione, già si annoia. 

Cominciano a fioccare le domande.
- Dove siamo? Quanto ci manca? Perché non arriviamo? 
Il papà cerca di rispondere, ogni volta interrompendo la lettura. 
Poi ha un’idea. Apre la ventiquattrore, estrae una rivista, cerca una pagina. La strappa e la fa a pezzi.

- Cosa fai, papà? Perché stai strappando la rivista? Non ti piace?
Il papà sorride. 
- Sto facendo una cosa per te. Ti preparo un bel gioco. Ecco. Questi sono i pezzetti di questa pagina. Ho ridotto tutto a un puzzle. Sai, quelli che ti piacciono tanto. Adesso devi rimettere insieme i ritagli: sono tanti, ma sono abbastanza grandi e dovrebbe essere facile anche per te ricomporre il tutto. La pagina fotografava il mondo: c’era anche l’Italia, che tu hai visto disegnata tante volte a scuola. Lo stivale, i mari, le isole. Mi pare che proprio un mese fa la maestra vi ha mostrato in classe tutti i paesi che stanno sul pianeta. Prova a vedere se riesci a riunire ogni pezzo. Se non ci riesci, poi ti aiuto io. Ma intanto comincia tu: ci vuole tempo, ma vedrai che quando avrai finito saremo arrivati. O comunque saremo vicini. 

La bambina prende in mano i pezzetti di pagina che le ha consegnato il papà e li depone con accuratezza sul tavolino ribaltabile, stando attenta a non mescolarli e a lasciarli esattamente nella disposizione in cui erano. 

Passano cinque minuti e la bambina annuncia trionfante.
- Finito!
Il papà non ci crede.
- Cosa finito?
- Il gioco del mondo.
- L’hai già finito? E come hai fatto?
- Li ho voltati tutti.
- Cosa hai voltato?
- I pezzetti del foglio che tu mi avevi dato.
- E allora?
- Nel retro della pagina c’era una foto grande: di un uomo. 
- Quindi?
- E’ stato facilissimo. Mi sono fissata sulla figura di quest’uomo. Ho ricostruito l’uomo e il mondo, che era nella pagina dietro, si è aggiustato da sé. 

*** Massimo Ferrario, Come aggiustare il mondo’, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura di un testo di autore anonimo, di spirito zen.


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lunedì 21 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / La farfalla che non vola (Massimo Ferrario)

Per la bambina era la prima volta. 

Non era mai stata in campagna dallo zio contadino e non finiva di girare per la fattoria. Era interessata a tutto e perlustrava ogni angolo.
Fu colpita da una strana cosa, là nella parte in ombra della legnaia. 

Collegò soltanto dopo che quella cosa doveva essere un bozzolo: e al momento si avvicinò incuriosita, con circospezione. Scoprì che dentro, oltre il buchino che appariva in cima, c’era vita. Si dimenava un animaletto, in forma di minuscole zampine. Fu allora che si ricordò: a scuola la maestra aveva raccontato delle farfalle. Di come facessero fatica a diventare ciò che erano e a spiccare il volo dopo il loro stato di bruchi. 
Si fermò a fissare il movimento inconcludente di quell’essere minuscolo che doveva diventare una farfalla. Ci stava provando con tutte le sue forze, ma il bozzolo non si apriva. E la farfalla restava prigioniera.

Provò una pietà affettuosa. 
Spettava a lei aiutare il bozzolo ad aprirsi. Cercò in giro, corse in casa in cucina, trovò un coltellino, ritornò nella legnaia. Mise la massima attenzione: con la punta del coltellino, allargò il foro. Piano piano. Delicatamente. E a quel punto la farfalla uscì dal bozzolo.

La bambina sospirò, felice: è fatta, si disse.
Invece non era fatta per nulla. 
Perché la farfalla, appena capitata fuori dal bozzolo, provava a spiegare le piccole ali, ma non ci riusciva. Erano tentativi continui, però senza successo. Faceva passettini fuori dal bozzolo, ma restava a terra. I suoi muscoli non erano abbastanza forti: le era stato risparmiato lo sforzo di uscire dal bozzolo e ora questo mancato sforzo non le dava la forza di volare.

La bambina corse dallo zio, piangendo: stava arando nei campi. E lo costrinse a venire subito a vedere.
- Fai qualcosa, zio. La farfalla deve poter volare: non so perché non vola. Cosa le è successo?
Raccontò del bozzolo e del coltellino. 

Lo zio cercò di essere più delicato possibile con la nipotina.
- Qualche volta aiutare fa male, piccola. Perché impedisce a chi deve fare di fare. Tu volevi essere buona con la farfalla, lo so. Ma quello che adesso stai imparando vale anche per gli esseri umani. Nascere e crescere richiede sforzi che nessuno può fare al nostro posto. Nessuno meglio della natura ce lo insegna. Anche con la durezza spietata che è tipica proprio della natura. La farfalla che non riesce a volare la terrò qui al riparo, nella legnaia: e la curerò personalmente fino a quando sarà in vita, facendo in modo che abbia sempre vicino qualche fiore fresco da cui possa suggere il nettare. Quello che però nessuno può fare è darle il volo che le manca. 
Lo zio abbracciò la bambina: capiva che il suo pianto era necessario.

- Mi spiace, piccola. Oggi hai imparato una cosa molto importante: dilla a scuola. Sarà un grande insegnamento per tutti.

*** Massimo FERRARIO, La farfalla che non vola, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura di un testo di autore anonimo

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domenica 20 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / La mano a cucchiaio (Massimo Ferrario)

Un tramonto dolce e rosso su un mare calmo che invita a rilassare l’anima. 
Una mamma e un bambino camminano sulla spiaggia sabbiosa.
- Mamma, sto crescendo. Oggi conosco tanti bambini e domani conoscerò tanti uomini e tante donne. Avrò anch’io, come te e papà, amici che non sono semplici conoscenti. E magari troverò una bella donna come papà ha trovato te. Oppure, chissà, un uomo con cui mi piacerà vivere. Insomma, mi capiterà quello che capita a tutti: di provare amicizia e affetto. E di essere oggetto, a mia volta di amicizia e di affetto. Ti chiedo: c’è una cosa che è utile sapere per conservare un affetto con un’altra persona, maschio o femmina che sia?

La mamma si ferma, stupita.
- Sì, stai crescendo, figlio mio. Lo dice anche la domanda che mi hai fatto.
Leo sorride: un po’ perché gli piace essere ritenuto già un ragazzino e un po’ perché non vuole essere preso troppo sul serio.
- Ho fatto una domanda troppo da adulti?
- Sì. E’ una domanda intelligente. E per le domande intelligenti, come imparerai, non c’è sempre risposta. O, meglio: non c’è risposta chiara, precisa, sicura. Il tipo di risposta che in genere vogliamo. Sono i casi in cui è bene resti sempre aperta la domanda: utile per non smettere di interrogarsi.
- Quindi non mi risponderai?
Stavolta è la mamma a sorridere. 
- Ci provo. A modo mio: se no, non sarei la mamma che conosci. 

Il bambino lancia un segnale di affettuosa complicità alla mamma, stringendole più forte la mano.
- Ahi… E’ proprio il momento che me la lasci, la mano: usala per raccogliere un po' di sabbia. 
- Perché?
- Fa parte della risposta che sto per darti.
Leo si china e mostra una manciata di sabbia finissima. 
- Ora stringi il pugno... 
Il bambino esegue: più stringe, più la sabbia gli esce dalla mano. 
- La sabbia scappa.  
- Infatti. Ora tieni la mano più aperta...
- La sabbia se ne va ancora più velocemente e in maggiore quantità.
- Perfetto. Ora raccogline un altro po' e tienila sempre in mano, ma apri la mano a cucchiaio... così... abbastanza chiusa per custodirla e abbastanza aperta per non stringerla. 
Il bambino obbedisce: si china, raccoglie la sabbia e dispone la mano imitando il gesto della mamma. 

La mamma conclude:
- Ecco. Adesso hai visto come può funzionare un’amicizia. Il problema però è che con le persone, se pure il principio può essere lo stesso, è tutto più difficile: perché le persone non sono come la sabbia. La sabbia è inerte, passiva: se non la fai scivolare via, sta appunto nelle nostre mani. Buona e ferma. Le persone, invece, per fortuna, sono attive. E possono andarsene anche quando noi abbiamo verso di loro un’attenzione giusta, equilibrata, attenta. Magari cercando di imitare la mano ‘a cucchiaio’. Anche perché la mano che può essere ‘a cucchiaio’ per noi, per altri può essere troppo aperta o troppo chiusa. Segnalando indifferenza, nel primo caso. E costrizione, nel secondo caso. E poi, a qualcuno solo l’idea di essere in mano ad altri, per quanto questi altri mostrino una 'giusta cura', può dare fastidio. Legittimamente. Non nasciamo per stare in mani altrui: non siamo sabbia.

*** Massimo FERRARIO, La mano a cucchiaio, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura di un testo di autore anonimo di spirito zen

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sabato 19 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / La sete della rosa (Massimo Ferrario)

In una terra lontana, a tratti desertica, cresceva un tempo una bellissima rosa rossa, orgogliosa delle sue forme e del suo colore sgargiante. La sua unica lamentela era che aveva accanto a un cactus: brutto e pungente. 

Ogni giorno, la rosa insultava e derideva il cactus per il suo aspetto, ma il cactus rimaneva tranquillo e silenzioso. 

Le piante vicine avevano cercato di far vedere alla rosa un significato in questa strana vicinanza, ma lei era troppo presa dalla sua bellezza e non capiva altro che pavoneggiarsi al sole, magnificando sé stessa.

Quell’anno, però, fu un’estate torrida e la terra si fece secca: le ultime piogge erano un ricordo lontano. Ogni segno di umidità nel terreno era sparito e la rosa iniziò rapidamente ad appassire. I suoi bellissimi petali persero il colore rosso lussureggiante: si piegavano ogni giorno di più verso il terreno.

La rosa guardava il cactus, sempre tranquillo e silenzioso. Conservava la sua bruttezza, ma era vivo, incurante del caldo: eretto quasi a sfidare i raggi del sole con gli aculei delle foglie. 

Un passero atterrò dal cielo. Zampettò fino al cactus: lo guardò, come a chiedergli il permesso. Poi immerse il becco in una delle sue tante foglie per bere un po’ dell’acqua che sapeva c’era al suo interno. 

La rosa seguì vogliosa la bevuta del passero: che dopo essersi dissetato volò via, ringraziando la pianta con la piccola ala. Il cactus non aveva dato segni di risposta all’uccellino, ma l’uccellino sapeva che era stato contento che lui avesse potuto bere. Come se la sua vita di cactus, brutto e irto di spine, avesse trovato un senso.

La rosa per un po’ si trattenne. Poi, non resistette alla sete e domandò al cactus se poteva regalarle un po’ della sua preziosa acqua. Glielo chiese sottovoce: un po’ perché era sfinita e un po’ perché si vergognava.

Anche stavolta il cactus rimase silenzioso. Ma parlò con il comportamento: facendo un certo sforzo, perché le piante non si muovono facilmente come gli animali e gli uomini, avvicinò lentamente alla rosa la sua foglia migliore, quella che conservava più acqua. 

La rosa bevve quel giorno e tutti i giorni che seguirono. E i suoi petali ripresero colore e vigore. 

Il cactus non la sentì più magnificare la sua bellezza. E soprattutto non venne più insultato per la sua bruttezza. 

Allora la rosa ricordò e capì quando le altre piante, lì vicino, l’avevano invitata a vedere un significato nel loro strano accoppiamento.

*** MASSIMO FERRARIO, La sete della rosa, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura di un breve racconto tratto da Shannon Serpette, scrittrice ed editor statunitense, The Proud Rose, da 20 Good Short Moral Storie for Kids, in ‘momlovesbest.com’, 1 febbraio 2021


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venerdì 18 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / L'acqua del pozzo (Massimo Ferrario)

Lu Kao aveva bisogno di utilizzare una nuova fonte d’acqua per la sua fattoria e comprò un pozzo dal suo vicino, Dang Lin. 

Il giorno dopo aver concluso l’affare, il contadino si recò dal vicino per prelevare l’acqua. Ma il vicino glielo impedì. 
- Ti ho venduto il pozzo, - si giustificò Dang Lin, - non l’acqua. 
Lu Kao insistette, ma non riuscì a ottenere nulla. 
Come poteva essere? Lui aveva comprato il pozzo per per poter usare l’acqua che faceva parte del pozzo. Se no, a che gli serviva il pozzo?

Decise che si sarebbe rivolto ai funzionari del distretto. 
Il capo dei funzionari chiese consiglio a Lin Po, uno dei saggi più autorevoli. 

Lin Po si offrì di incontrare il vicino del contadino e si fece ricevere da Dang Lin. 
Gli chiese perché non lasciasse attingere l’acqua al contadino cui aveva venduto il pozzo. E lui rispose, come aveva già detto a Lu Kao, che aveva appunto venduto il pozzo, non l’acqua che stava nel pozzo. 

Lin Po ascoltò con attenzione. Poi domandò Dang Lin: 
- Ma tu adesso paghi un affitto a Lu Kao per l’acqua che consideri tua e che è nel pozzo che gli hai venduto? 
Dang Lin si mostrò stupito. 
- No, non gli pago nessun affitto. Ci mancherebbe pure che dovessi pagare Lu Kao: adesso il pozzo è suo.
Allora Lin Po concluse: 
- È semplice, Dang Lin: devi decidere. Hai tre possibilità. Due facili e concrete,  una difficile  e improbabile. La prima è lasciare che Lu Kao, che ha comprato il tuo pozzo, usi l’acqua, che fa parte integrante del pozzo. La seconda è pagare un affitto a Lu Kao per l’acqua che tu consideri tua ma sta nel pozzo che lui ha comprato da te. La terza possibilità è che tu tolga l’acqua dal pozzo. Ma questa possibilità non è di facile realizzazione: primo, perché l’acqua, per sua natura, sta dentro un pozzo e qualunque pozzo, se non è secco, comprende l’acqua. E secondo perché, se anche fosse tecnicamente possibile togliere l’acqua, per intervenire sul pozzo dovresti chiedere il permesso a Lu Kao, che ha comprato da te il pozzo e che ora ne è legittimo proprietario. 

Dang Lin dovette cedere. Capì che altrimenti avrebbe dovuto pagare un mucchio di soldi al vicino: Lu Kao, infatti, che aveva bisogno di acqua per i suoi campi, non avrebbe accettato facilmente altre soluzioni al di fuori di quella, ovvia, di poter usare il pozzo, ormai diventato suo a tutti gli effetti.

Dal giorno seguente, quindi, Lu Kao, poté attingere l’acqua. 
Se ne bevve subito un bicchiere. Era limpida e fresca: e ovviamente era senza sapore. Ma lui trovò che aveva un sapore che non aveva mai trovato in un bicchiere d’acqua .

*** Massimo FERRARIO, L’acqua del pozzo, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura di un breve racconto tratto da Shannon Serpette, scrittrice ed editor statunitense, The Farmer and the Well, da 20 Good Short Moral Storie for Kids, in ‘momlovesbest.com’, 1 febbraio 2021


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giovedì 17 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / I tre insegnamenti dell'uccellino (Massimo Ferrario)

Un ricco signore passeggiava, calmo e contento, nel giardino della sua villa: amava la natura e la giornata era bella. 
Improvvisamente notò un piccolo uccello caduto in una retina predisposta dai servitori per catturare i roditori che rovinavano alcune piantine cui era molto affezionato. 

Prese in mano il piccolo animale con delicatezza ed ebbe una reazione sbigottita quando l’uccellino cominciò a parlare: 
- O caro signore, ti prego, liberami. A che ti serve chiudermi in una gabbia? Guardarmi non ti piacerà, perché non ho piume colorate e splendenti che stupiscono. Non posso intrattenerti, perché non ho il canto melodioso che affascina. E non posso esserti di nutrimento, perché sono troppo piccolo, tutto ossa e poco grasso. Se invece mi libererai, potrò compensarti con tre saggi insegnamenti.

L’uomo, superata la sorpresa, guardò con attenzione e simpatia la piccola creatura e commentò: 
- Dici la verità, mio sfortunato uccellino: in realtà sei piccolo e ossuto, hai penne grigie e comuni. E se non canti, ovviamente non puoi intrattenermi. Fammi allora sentire la tua saggezza: e se mi insegnerà qualcosa che merita, ti darò la libertà.

L'uccellino non si fece ripetere la promessa e fu pronto a sentenziare i suoi tre avvertimenti.
- Allora, ecco, caro signore. Come prima cosa, ti dico: non piangere per cose già accadute. Aggiungo, come secondo monito: non desiderare ciò che è irraggiungibile. E la mia terza massima è: non credere in ciò che non è possibile.

Il ricco signore continuava a essere stupefatto: non solo l’uccellino parlava, ma sapeva dire cose profonde.
- Confesso che mi hai davvero insegnato, uccellino. Manterrò la promessa e ti renderò libero. Ecco: ti slego la zampina e la trappola non è più una trappola.

Mentre l'uccello se ne volava via, l’uomo ripensava seriamente alle parole appena ascoltate. 
Ma proprio in quel momento sentì che l’uccellino se la rideva allegramente. La sua risata, schietta e irrefrenabile, proveniva da un albero lì vicino: si era posato sul ramo più alto e da lì guardava il ricco signore che aveva alzato la testa proprio per individuarlo. 
- Caro uccellino, immagino tu sia giustamente contento di essere tornato a volare libero tra gli alberi. Ma c’è qualche altra ragione per cui ora stai ridendo in modo tanto sguaiato e senza freni? - chiese l'uomo, fissando dal basso, incuriosito, il suo interlocutore. 

L’uccellino ricacciò in gola l’ultimo singulto di risata e non si fece pregare a dare spiegazioni: 
- Sì, caro signore, hai colto bene: c’è una ragione. Rido, come tu supponevi, perché sono felice della mia libertà ritrovata. Ma rido soprattutto perché questa libertà me la sono conquistata molto facilmente. E ancora di più, rido per la follia di voi uomini che credete di essere più intelligenti di tutte le altre creature.

Il ricco signore non capì. E si sentì anche offeso. 
- Spiegami: secondo te io sarei un uomo stupido?
L’uccellino annuì, scuotendo il capino su e giù: 
- Non ti arrabbiare. Ma se tu fossi stato intelligente almeno quanto me, ora saresti un uomo ricco.
- Ma io sono già ricco -, precisò il signore. 
- Bene. Lo saresti ancora di più. 
- E come sarebbe stato possibile? - chiese il padrone del giardino.
- Semplice -, affermò con convinzione l’uccellino, che voleva dimostrare di essere più furbo dell’uomo. - Se invece di ridarmi la libertà, mi avessi tenuto prigioniero, avresti scoperto alla mia morte che io ho in corpo un diamante delle dimensioni di un uovo di gallina.

Il ricco signore era come pietrificato. 
L’uccellino nascondeva un diamante così grosso in corpo? 
In effetti, chi, anche se già ricco, avrebbe potuto rifiutare una pietra tanto preziosa di quelle dimensioni?

Dopo essersi ripreso dalla sorpresa, l’uomo non rinunciò a mantenere aperto il dialogo con il suo strano interlocutore. 
- Tu, caro il mio uccellino, pensi di essere felice perché io ti ho ridato la libertà. Puoi aver ragione. Ma forse, più probabilmente, te ne pentirai tra breve. Amaramente. Perché l’estate sarà presto finita e arriverà l'inverno con le sue tempeste. I ruscelli si congeleranno e allora tu non sarai in grado di trovare una sola goccia d'acqua per dissetarti. I campi saranno coperti di neve e non troverai nulla da mangiare. Io invece ti avrei dato un posto caldo e un luogo come questo giardino dove ogni tanto, fuori dalla grande gabbia che potevo predisporre per te, avresti potuto volare liberamente. E poi, naturalmente, avresti avuto in ogni momento tutta l'acqua e tutto il cibo che ti potevano servire. Ma sei ancora in tempo, caro uccellino: scendi dall’albero e ti mostrerò che stai meglio con me che con la tua libertà.

Per tutta risposta l'uccellino rise ancora più forte della prima volta. Ormai non era una risata, la sua, era uno sghignazzo:  e questo fece arrabbiare il ricco signore. 
- Non ti sei stancato di ridere? - chiese l'uomo. - Oltre che saggio, ti credevo buono e gentile. Ma evidentemente mi sono sbagliato: mi accorgo ora che i tuoi modi sono insopportabili.
- Può darsi -, rispose l'uccello. - Ma ti dico solo poche: così vedi tu se non ho ragione di divertirmi ascoltando le tue parole. Mi hai concesso la libertà perché mi hai detto di aver apprezzato i miei insegnamenti; eppure sei così sciocco che li hai subito dimenticati. Ti ho detto: non devi piangere per le cose che sono accadute; eppure sei già dispiaciuto di avermi concesso la libertà. Ti ho detto: non devi desiderare cose che non puoi ottenere; eppure vuoi che io, che considero la libertà la cosa più importante della mia vita, accetti volontariamente di entrare in una prigione. E per finire, ti ho detto: non devi credere a ciò che è impossibile; eppure credi che io stia nascondendo davvero dentro il mio corpo un diamante grande come un uovo di gallina, anche se io stesso, con tutto il mio corpo, misuro solo la metà delle dimensioni di un uovo di gallina. Penso tu abbia materia abbondante per riflettere, caro signore.

Il ricco signore non trovò parole per rispondere, ma, se anche le avesse avute, le avrebbe ascoltate solo lui: l’uccellino, dopo essersi prodotto nell’ultima risataccia denigratoria, con un frullo d’ali, era già volato lontano. 

*** Massimo FERRARIO, I tre insegnamenti dell’uccellino, per ‘Mixtura’ - Libera riscrittura di un racconto di origine polacca di Otto Knoop, 1853-1931, floklorista polacco Die drei Sprüche, in Ostmärkische Sagen, Märchen und Erzählungen (Lissa: Oskar Eulitz' Verlag, 1909), no. 72, pp. 147-149, traduzione in inglese di DL Ashliman, pubblicato online in DL Ashliman (a cura), 1938, scrittrice e folclorista statunitense, 'Folklore and Mythology Electronic Texts', Università di Pittsburg


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martedì 15 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Un bicchiere di latte e due panini (Massimo Ferrario)

Era un ragazzo povero: passava le mattinate andando di porta in porta a vendere giornali per pagarsi la scuola. Ma quello che guadagnava non bastava: nonostante fosse attento e parsimonioso, le spese per i libri, per l’affitto di casa, per i vestiti e per il cibo erano sempre maggiori delle entrate e lui spesso era costretto a saltare i pasti. 

Quel giorno si sentiva molto debole: non mangiava da almeno tre giorni e aveva la testa che gli girava. 
Mentre consegnava il giornale ad una ragazza che gli aveva aperto la porta, all’improvviso svenne. 
La ragazza si spaventò: se lo caricò in spalla e lo condusse in camera, sdraiandolo sul letto. 
Appena adagiato, il ragazzo si riprese e fece per alzarsi, chiedendo scusa per il disturbo che aveva arrecato. La ragazza lo costrinse a restare sdraiato: andò in cucina e gli prese un bicchierone di latte. Lui lo trangugiò e lei, che aveva capito che lui aveva bisogno urgente di sfamarsi, gli preparò due panini, uno al formaggio e uno con un hamburger croccante. 

Il ragazzo divorò tutto in pochi minuti, vergognandosi per la figuraccia. Poi, quando si rese conto di essersi ripreso, promise che sarebbe tornato appena possibile per sdebitarsi. Ma la ragazza, con un sorriso che però faceva intuire quasi l’offesa, disse che non gli avrebbe più aperto: non gli aveva offerto latte e cibo per essere pagata.

Molti anni dopo, la ragazza, diventata adulta, si ammalò gravemente. Andò di dottore in dottore, ma nessuno riusciva a curarla. Alla fine, un’amica le suggerì di provare un medico anziano della città vicina: molti pazienti ne lodavano la competenza e la disponibilità alla relazione. 
La donna si lasciò convincere e ci andò, anche se ormai sperava poco in una terapia risolutiva. 

Il medico si prese cura di lei per un mese, vedendola due volte a settimana: le face fare esami che non aveva mai fatto e le prescrisse medicine che non aveva mai assunto. 
E la guarì. 

L’ultimo giorno, prima dei saluti e degli auguri rituali per il futuro, la donna era al settimo cielo per essersi finalmente liberata della malattia, ma assai preoccupata. 
Per difficoltà economiche non aveva potuto stipulare nessuna assicurazione sanitaria e negli ultimi tempi, dopo anni di lavoro come segretaria di direzione, quando era stata licenziata per chiusura dell’azienda, era passata da un rapporto precario all’altro. Temeva di non riuscire a pagare l’onorario.

Con molta apprensione, quindi, chiese al medico quanto gli doveva. 
Lui non disse nulla. Serio e impassibile, le consegnò una busta. 
Lei aprì e lesse: "Tutto già abbondantemente pagato. Con un bicchiere di latte e due panini”.

*** Massimo FERRARIO, Un bicchiere di latte e due panini, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura creativa di un breve racconto tratto da Shannon Serpette, scrittrice ed editor statunitense, A Glass of Milk, da 20 Good Short Moral Storie for Kids, in ‘momlovesbest.com’, 1 febbraio 2021


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lunedì 14 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Pietre per il vecchio avaro (Massimo Ferrario)

C'era una volta un vecchio che viveva a piano terra di un grande palazzo lussuoso, con un giardino enorme, ricco di piante rare e fiori anche esotici. 
Era padrone dei tanti appartamenti che formavano il palazzo, alto dieci piani ed ereditato dai genitori: la sua fortuna, oltre al valore dell’immobile, era data dalle decine di affitti che gli fruttavano un conto corrente sempre crescente. 

Il vecchio era un campione di avarizia. Chi lo conosceva diceva che nessun avaro fosse come lui, perché lui davvero batteva tutti. 
Era la sua malattia per il denaro che lo portava ad accumulare, ma la sua particolare mania era data dal fatto che lui non teneva in casa le sue tantissime monete d’oro, comprate con i soldi degli affitti ad ogni compleanno. Per paura che gli venissero rubate le nascondeva sotto delle pietre in un punto segreto del giardino.

Ogni sera, prima di andare a letto, al buio naturalmente per sfuggire a ogni eventuale sguardo di intrusi, l’avaro usciva in giardino per contare le monete. Naturalmente sapeva benissimo quante erano e quanto valevano. Ma lui, ogni volta, godeva nel prenderle in mano una a una: le accarezzava, qualcuna perfino la baciava, e poi le contava e le ricontava e di nuovo le contava. Alla fine le riponeva con cura, sempre guardandosi in giro per evitare che qualcuno scoprisse il suo nascondiglio segreto. 

Però una notte accadde ciò che non doveva accadere ma che era logico che accadesse. 
Fu visto da un ladro, appostatosi dietro un albero del giardino fin dalla mattina presto, quando aveva scavalcato la recinzione. Quando il vecchio rientrò in casa, la sera, dopo il rito della conta delle monte, il ladro si rubò tutte le monete d’oro. 
La notte seguente il vecchio uscì come al solito per amoreggiare con le sue monete e fece la terribile scoperta. 
Ebbe quasi un infarto. Cadde al suolo, rantolando. Poi cominciò a urlare e piangere, rotolandosi nel vialetto di ghiaia del giardino. 

Accorse una guardia che stava facendo il giro di sorveglianza nel quartiere: non conosceva il vecchio avaro, perché era appena stata assunta ed era al suo primo servizio. La società di vigilanza aveva le chiavi dei proprietari della zona e l’uomo le usò per entrare in giardino. 
Si chinò sul vecchio ancora a terra e gli chiese spaventato cosa fosse successo. E il vecchio, un po’ farfugliando perché ancora scosso dalla spaventosa scoperta, raccontò tutto. 

La guardia fece fatica a credere a quanto ascoltava: monete d’oro? nascoste in giardino? 
“Scusi, signore”, non si trattenne, “ma perché non custodiva le monete in casa, magari ben chiuse in una cassaforte a muro con tripla chiave cifrata? Oltre alla sicurezza si sarebbe assicurato di avere a portata di mano le monete: in qualunque momento, senza dover andarle a recuperare di notte in giardino, con il rischio, come è avvenuto, di essere scoperto e poi derubato, avrebbe potuto portarle in banca e convertirle in valuta per comprarsi, lei che è ricco, tutto quello che voleva…”. 

Il vecchio a quel punto si riebbe: come colpito da una frustata. 
“Usare quelle monete d’oro? Fare acquisti? Ma lei sa quello che mi sta dicendo? Le mie monete crescevano ad ogni mio compleanno: mai le avrei usate per stupide spese inutili. Il loro destino era di essere sempre di più, mai di meno. Erano il mio tesoro. La cosa più preziosa e bella che avevo”.

La guardia, incredula, scosse il capo: davvero c’erano persone bizzarre al mondo. 
Raccolse una delle pietre che erano nel nascondiglio, con le quali il vecchio copriva le monete d’oro e la offrì al vecchio. 
“Allora prenda questa”, disse, con un po’ di irritazione. 

Il vecchio guardò la pietra, senza capire: “Questa? E’ una pietra. Che me ne faccio?”. 
La guardia si incamminò verso l’uscita, pensando di avere già perso troppo tempo.
“La mette insieme alle altre e poi le conta, come mi ha raccontato che faceva con le monete d’oro. Usa le pietre come usava le monete d’oro. O meglio: non usava quelle e continua a non usare queste: che differenza c’è?”.

*** Massimo FERRARIO, Pietre per il vecchio avaro, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura di un breve racconto tratto da Shannon Serpette, scrittrice ed editor statunitense, The Miser and His Gold, da 20 Good Short Moral Storie for Kids, in ‘momlovesbest.com’, 1 febbraio 2021


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sabato 12 novembre 2022

#SGUARDI POIETICI / A chi so io (Massimo Ferrario)

Quando sbagliamo, 
capita raramente che lo facciamo.
Ma, 
se siamo abituati a non farlo, 
sarebbe bello 
- e soprattutto finalmente umano -
imparare a dire tre parole: 
"Ho sbagliato, scusa". 
Se proprio non ci riusciamo, 
in genere all'altro 
possono bastare le prime due.

Naturalmente 
esiste una precondizione assoluta:
le due o tre parole
devono essere sincere:
altrimenti è questa finzione 
che diventa lo sbaglio più grave.
Per il quale non ci sono 
scuse.

*** Massimo Ferrario, A chi so io, per 'Mixtura'


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mercoledì 9 novembre 2022

#MOSQUITO / Quella intossicazione vischiosa (Piero Calamandrei)

Bisogna fare di tutto perché quella intossicazione vischiosa non ci riafferri: bisogna tenerla d’occhio, imparare a riconoscerla in tutti i suoi travestimenti. In quel ventennio c’è ancora il nostro specchio. Solo guardando ogni tanto in quello specchio possiamo accorgerci che la guerra di Liberazione, nel profondo delle coscienze, non è ancora terminata.

*** Piero CALAMANDREI, 1889-1956, politico, avvocato, accademico, Il fascismo come regime della menzogna, Laterza, 2014


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lunedì 7 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Il vecchio gufo che osservava (Massimo Ferrario)

C'era una volta un vecchio gufo che viveva in una cavità di una vecchia quercia. 
Ogni giorno osservava tutto quello che accadeva lì intorno. 
Vedeva tante cose e persone e animali. 

Ad esempio: 
# Un ragazzino che aiutava un vecchio a trasportare un pesante cesto. 
# Una ragazza che urlava contro sua madre e le diceva brutte parole di cui domani si sarebbe pentita. 
# Un elefante che barriva mentre correva e faceva spaventare tutti gli animali. 
# Un vecchio che si vantava di non aver mai commesso un errore nella sua lunga vita. 
# Un uomo e una donna che si erano amati su una stuoia stesa alla base della quercia: tanto innamorati che a chiunque avrebbero fatto venire la voglia di far l’amore.
# Un uomo che confidava a un amico di aver sbagliato molto con il figlio, così che il figlio se n’era andato senza salutarlo: e non si vedevano da anni. 
# Una mamma che camminava con un cesto pesante sulla testa e un neonato a tracolla. 
# Una rana che saltava, tutta contenta, nello stagno che costeggiava la quercia. 
# Un uomo che chiedeva perdono alla sua donna che lo voleva lasciare.
# Due ragazzi che litigavano: e prima avevano fatto a pugni e poi si erano abbracciati.
# Un gruppo di scimmie che giocavano a farsi gli scherzi tra i rami dell’albero di fronte: e sembrava che cadessero e mai non cadevano. 
# Un bambino che piangeva perché aveva perso il suo animaletto di stoffa che si portava sempre a letto la notte: e correva a cercarlo ma non sapeva dove.
# Una vecchia che trascinava delle sporte che pesavano tanto che per l’età non riusciva più a trasportare. 
# Un nonno che giocava a palla col nipotino: e il nipotino lo prendeva in giro perché non riusciva a parare mai un tiro.
# Un leone che passava con in bocca la preda appena cacciata: e non era proprio un bel vedere tutto il sangue che gli colava sul muso.
# Una coppia che non si prometteva mai eterno amore: però ogni anno passava proprio sotto la quercia per dirsi che si amavano.

Il vecchio gufo vedeva e sentiva tutto. Ma stava zitto. E ascoltava. Amava ascoltare le persone. Ma anche gli animali: di ognuno dei quali conosceva i linguaggi. 
Per ogni persona, una storia. In una storia tante persone. E animali di ogni tipo. 
Bambine e bambini, ragazze e ragazzi, donne e uomini, vecchie e vecchi. Madri e padri, figlie e figli. Bianchi, neri, rossi, gialli. E poi rane, elefanti, tigri, scimmie. E ogni altro animale.

Nel tempo notò che, tra gli umani, c’erano stati miglioramenti. Ma anche peggioramenti. E forse gli animali, che erano sempre restati animali, potevano insegnare agli umani.

Lui, vecchio gufo sempre più vecchio, stava sull’albero. Mai una parola. Zitto proprio come un gufo saggio. E ogni giorno diventava più saggio.

*** Massimo FERRARIO, Il vecchio gufo che osservava, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura creativa di un breve racconto tratto da Shannon Serpette, scrittrice ed editor statunitense, A Wise Old Owl, da 20 Good Short Moral Storie for Kids, in ‘momlovesbest.com’, 1 febbraio 2021


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domenica 6 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Legni e fascine (Massimo Ferrario)

Un vecchio, vedovo da anni, viveva in un villaggio con i tre figli, ormai adulti. I tempi economici non erano propizi ed era difficile trovare lavoro. Il vecchio aveva una misera pensione e i giovani dovevano accontentarsi di lavoretti precari: si poteva sopravvivere solo aiutandosi reciprocamente. 

Invece i tre giovani non facevano che litigare. Per tutto. Ma soprattutto per i pochi soldi che entravano in casa, che non bastavano mai per i loro divertimenti, peraltro sempre necessariamente misurati. 
Il vecchio invitava i figli a essere uniti. A non dividersi. A fare fronte comune alle difficoltà. Ma le sue parole non avevano molto successo. 

Trascorsero mesi e il vecchio si ammalò.  
E convocò i tre ragazzi nella sua camera. 
Accanto al letto, aveva posto un cesto che conteneva venti legni sciolti, di dimensioni uguali. 
Disse ai figli. “Prendete ogni legno e spaccatelo in almeno tre pezzi. Alla fine dovreste avere una sessantina di piccoli pezzi di legno. Chi completerà il compito per primo si sarà  guadagnato una fetta di torta per la cena di stasera.”

I giovani accettarono. Ci misero pochissimo. Fecero subito a pezzi ogni legno e litigarono per stabilire chi aveva terminato per primo. Avevano capito che la fetta di torta, grazie ai loro litigi, non avrebbe premiato nessuno e stavano per andarsene. 

Intervenne il vecchio: fece un urlo che faticò a far uscire dalla gola per il poco fiato che ormai gli era rimasto. 
“Non è finita. Vi do un ultimo compito”. 
I figli frenarono le loro proteste e obbedirono. 
Il vecchio indicò tre fascine disposte lungo la parete della camera. 
Precisò: “Ogni fascina è uguale all’altra e tiene insieme, legati stretti con lo spago, una decina di legni. Che hanno dimensioni, peso e robustezza uguali. Non dovete smembrare le fascine. Ognuno di voi prenda una fascina e cerchi di spezzarla in due. Chi ci riesce vince non una fetta di torta, ma una torta intera.”  

I giovani si precipitarono ad afferrare le fascine. E subito iniziarono a cercare di spezzarle. Provarono più volte. Ma non ci riuscirono. Eppure avevano tutti muscoli potenti, di giovani vigorosi. Niente: lanciando vari improperi, dovettero arrendersi. 
“Non ci riusciamo, padre. I legni non si spezzano.“

Il vecchio sorrise. 
“Prima li avete spezzati senza il minimo sforzo: erano separati. Ora non ci riuscite: i legni, intatti, sono tutti lì, legati nelle fascine come prima che voi provaste a romperle. Le fascine, e i legni che le compongono, si fanno beffe di voi. Non c’è bisogno di essere molto intelligenti per capire il senso di ciò che vi ho voluto dimostrare. L’unione fa la forza non è solo un vecchio motto buono per chi ama la retorica: è un fatto, preciso e concreto, che chiunque può constatare. Ora sta a voi decidere. Io non ci sarò più, ma vi lascio una sola domanda: vorrete essere tre legni o una fascina?”. 

Il vecchio si tirò la coperta al mento e si addormentò. Era sereno. Perché era consapevole di aver fatto ciò che andava fatto.

*** Massimo FERRARIO, Legni e fascine, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura creativa di un breve racconto tratto da Shannon Serpette, scrittrice ed editor statunitense, The Bundle of Sticks, da 20 Good Short Moral Storie for Kids, in ‘momlovesbest.com’, 1 febbraio 2021


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sabato 5 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / E la vecchia a 80 anni finalmente capì (Massimo Ferrario)

Nel villaggio viveva una Vecchia. 
Pensava di essere una delle persone più sfortunate del mondo e si lamentava in continuazione della sorte e dei tanti problemi che le capitavano.
Non le andava mai bene nulla. E forse pure per questo le cose continuavano a non andarle bene.
Stava sempre in disparte, anche perché nessuno voleva sopportare il suo cattivo umore e il suo carattere acido, scontroso, odioso.
Aveva parole velenose per tutti. E anche il volto era sempre atteggiato a mostrare fastidio per il mondo e per chiunque, anche solo da lontano, la guardasse. 
La gente la evitava: diceva che portava disgrazia e infelicità. E ovviamente tutti l’avevano soprannominata ‘la strega’. Ma per fortuna erano finiti i tempi in cui le streghe, giovani e vecchie, belle o brutte, venivano bruciate in piazza.  

Un giorno accadde una cosa incredibile. 
E subito girò la voce che la vecchia aveva sorriso. Una volta. Poi due. Poi tre. 
E ora sorrideva sempre. Aveva il viso rilassato. Si  era messa pure a cantare. E anche a ballare. E adesso usava rossetto e cipria ed era sempre pettinata. E guardava le persone con interesse. E salutava. E rispondeva al saluto. 

Nel villaggio la gente si passava la parola: “La Vecchia è cambiata. Ora è una vecchia buona, gentile, alla mano, simpatica. Parla e scherza. E non dice più che lei il mondo lo odia e che se finisce domani è contenta perché il mondo se lo merita di finire all’inferno.”
All’inizio nessuno voleva crederci, ma poi in molti avevano verificato di persona: incontrandola nelle vie del villaggio. Non era più lei: era un’altra. 

Una bambina la vide seduta su una panchina nella piazza del villaggio, mentre canterellava, del tutto stonata, una canzoncina ispirata al Natale che stava arrivando.
Le si avvicinò, senza un filo di timore, e le chiese: 
- Nonna, ma che ti è successo?
Lei le diede una carezza.  
- E’ successo quello che mai avrei immaginato. Fino ad oggi ho inseguito la felicità. E l'altro ieri, proprio nel giorno in cui ho compiuto 80 anni...
La bambina la interruppe:
- Hai trovato finalmente la felicità…!
- No, assolutamente. Non l’ho trovata, cara la mia piccola.
La bambina fece un salto, sorpresa e stupita. 
- Non hai trovato la felicità? E allora, nonna, perché sei felice?
- Perché, piccola mia, c’ho messo 80 anni, ma alla fine ci sono arrivata. E adesso, il segreto, te lo svelo. Così magari anche tu non impieghi 80 anni per fare la scoperta che ho fatto io. Ho capito che lei, la felicità, non la devo cercare. Viene quando vuole venire e se ne va quando se ne vuole andare. Lo so, sembra semplice, ma è questo che ho imparato. Una cosa banale. Ma per nulla banale. Perché è la verità che può trasformare la vita. E a me, come vedi, l’ha trasformata. Tardi, troppo tardi, ma mi ha fatto fare una svolta. Anzi, ‘la’ svolta. Per questo sono felice, tesoro mio. Adesso finalmente posso dire: “Felicità, ci sei, non ci sei? Fa’ quel che vuoi. Io non ho bisogno di te. Anzi, te lo urlo proprio in faccia: cara felicità, chissenefrega!, vai a ossessionare tutti quelli che si lasciano ancora ossessionare da te, io, per mia misteriosa fortuna, sono guarita!”.

*** Massimo FERRARIO, E la vecchia a 80 anni finalmente capì, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura creativa di un testo di autore non identificato, che circola da tempo in internet su siti italiani e stranieri. 


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venerdì 4 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Noi dentro l'acqua che bolle (Massimo Ferrario)

Emma, sempre più infelice e depressa, si rivolge a un amico fidato perché la aiuti a superare il brutto momento. 

L’amico la invita una sera a cena, anticipandole che le avrebbe proposto un’esperienza su cui avrebbe potuto riflettere. 
Chiarisce che non ha bacchette magiche: né è uno psicologo che scrive libri sulle dieci mosse per vincere la depressione.

Lei sorride: “Non ami gli psicologi?”
Lui è netto: “Dipende. Quando sono 'psicofili', mi piacciono.”
“Psicofili”, chiede lei senza capire. “Chi sono?”
Lui le risponde con piacere: è un tema cui è affezionato. 
“E’ un termine che mi sono inventato io. Significa ‘amici della psiche’. Il contrario di quelli che catalogano, definiscono, razionalizzano, fissano. Come chi infilza le farfalle per conservarle in una teca. Un’etimologia di ‘psichè’, parola che viene dal greco antico, rimanda appunto a ‘farfalla’. Io amo le farfalle: vive. Che volano. E ancor più amo chi le lascia vivere e non pretende di farle volare dove lui vuole. Sono per il rispetto, vero e non solo proclamato, del ‘volo libero’ di noi umani. Un supporto discreto, indiretto, va bene. Se l’interessato lo vuole, naturalmente. E niente aiuti invasivi, men che meno ‘a fin di bene’. Che prescrivono in base a modelli precostituiti. Ma il discorso sarebbe lungo. Ne riparliamo a cena, se vuoi.” 

E infatti, a cena, ne parlano a lungo.
Al termine l’atmosfera è calda e accogliente, anche perché favorita da giusti calici di vino e qualche bicchierino di wikskey torbato. 
Poi la ragazza si ricorda della promessa: l’esperimento annunciato. L’amico confessa che stava per dimenticarsene. O forse voleva che fosse lei a ricordarglielo: così da essere sicuro che davvero fosse interessata.

Vanno entrambi in cucina. E lui prende dalla dispensa tre cose: un uovo, due foglie di tè e una patata. Poi accende l’acqua sotto tre pentole differenti. Quando l’acqua bolle, in una pentola mette l’uovo, in un’altra due foglie di tè e nella terza la patata. 
“Adesso tieni d’occhio la bollitura e il tempo”, lui avverte Emma. “Tra una decina di minuti, spegni e togli tutto dalle pentole.”
Emma esegue. Allo scadere del tempo, estrae uovo, foglie di tè e patata dall’acqua  che bolle e pone tutto con cura in tre piatti piani sul tavolo.

“E adesso?”, chiede l’amica curiosa.
“Semplice”, dice l’amico. “Non c’è che da guardare. I tre oggetti hanno ‘goduto’ della stessa circostanza: l’acqua bollente ne ha condizionato la cottura. Quindi ne ha favorito la risposta. Puoi notare tu stessa la differenza: l’uovo era morbido e ora è duro. La patata era dura e ora è morbida. Per le foglie di tè, osserva l’acqua rimasta nella pentola: ne è cambiato il colore ed è diventata tè.” 

Emma rimane in silenzio. 
Poi pone all’amico una domanda: che peraltro suona un po’ retorica, come quelle che studiava in latino al liceo, con il ‘nonne’ che andava tradotto con il rituale ‘non è forse vero che…?”.
“Vuoi dire che noi rispondiamo alla realtà nello stesso modo? E che sta a noi essere uova, patate o foglie di tè?”
“Infatti. Magari non è tutto così facile e meccanico: perché non sempre ci è dato decidere cosa e chi vogliamo essere, più o meno pesantemente influenzati come siamo dalla nostra identità (il noi più profondo) e perché non siamo solo condizionati dal contesto esterno (l’acqua che bolle). E poi perché, più spesso di quanto crediamo, siamo degli ibridi: più cose insieme. Uova e patate e foglie di te e tanto altro. Sia chiaro: non sono tanto ottuso da 'prescriverti' nulla, facendo bollire tre cose dentro una pentola. Però l’esperimento può comunque far pensare: grazie a una metafora sulla cottura ci domanda se siamo, o tendiamo a voler essere, uova, patate o foglia di tè. O altro ancora. E ci ricorda pure una cosa importante: che la foglia di tè non ‘risponde’ solo all’acqua, come fanno uova e patate, ma ‘agisce’: cambiando l’acqua in tè. Dunque la foglia di tè potrebbe essere un bel riferimento: anche per chi non è un fan britannico o un innamorato ‘perso’ dell’oriente…”.

*** Massimo FERRARIO, Noi dentro l’acqua che bolle, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura creativa di un racconto famoso, di autore anonimo, diffuso in rete da parecchi siti, sia italiani che stranieri.


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giovedì 3 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Il sogno della povera vecchia (Massimo Ferrario)

Una vecchia, povera da una vita, mentre trasportava il latte al mercato in un grande vaso di terracotta, iniziò a pensare in che modo avrebbe potuto diventare ricca. 

Immaginava. Certo, avrebbe venduto il latte, ma stavolta non più per quattro monete, almeno per cinque, perché il suo latte veniva da una mucca che mangiava un’erba particolare, che cresceva in un posto segreto, e il latte per questo era nutriente come nessun altro e aveva un sapore che nessun altro aveva; poi, con queste cinque monete, avrebbe comprato una giovane gallina che avrebbe fatto tante uova; poi, con le uova della giovane gallina, avrebbe allevato una batteria di polli, che poi avrebbe venduto per comprare un maialino; poi, il maialino, una volta cresciuto e ben ingrassato, avrebbe fatto tanti maialini, che lei avrebbe venduto per acquistare un puledro, però non un cavallo qualunque, proprio un purosangue, da allevare con cura e devozione fino a quando non fosse stato adatto a essere cavalcato. 

Sognava. Sì all’inizio un puledrino. Che però sarebbe diventato il più bel cavallo del mondo. E sarebbe stata lei, solo lei, a cavalcarlo. Con lui avrebbe percorso in lungo e in largo tutta la pianura. E lo avrebbe incitato a correre… correre… correre. Gli avrebbe urlato hip hip e hop hop nelle orecchie e lui e lei non avrebbero smesso di galoppare nella prateria… Lei con i capelli liberi, finalmente sciolti e scompigliati, non più pochi e brutti e imprigionati nel velo da contadina come una vecchia, ma tornati tanti e fluenti e freschi e biondi come erano da ragazzina, e lui, il più bel cavallo del mondo, focoso ma obbediente alla padrona, con la criniera al vento… Ambedue felici nel sole tiepido della sera... Lei spensierata, non più povera e finalmente ricca come i più ricchi… Perché quel cavallo, un purosangue di razza, era un animale da ricchi e lui ormai era suo ed era solo per lei…

Mentre sognava tutto questo, si fermò, poggiò a terra il vaso di terracotta e cominciò a muovere i piedi e i talloni come se calzasse gli speroni e a battere le mani per la gioia, sempre gridando hip hip e hop hop… E batteva piedi e mani sempre più forte, mentre incitava il cavallo a galoppare… a galoppare… a galoppare… via per i campi… nel vento…

Fu così che, mentre lei immaginava di spingere il cavallo con lo sperone ad un galoppo sempre più sfrenato, e lei gli era in sella e lui e lei galoppavano sempre più veloci, tra i suoi continui hip hip e hop hop, dal piede della vecchia partì un calcio che lanciò lontano lo zoccolo e lo zoccolo colpì la brocca, e la brocca andò in mille pezzi e in un attimo tutto il latte si sparse per terra, e né il cavallo, né il maiale, né i polli, né la gallina, né le cinque monete, né il latte… niente di tutto questo rimase nelle mani della vecchia che sognava di essere diventata ricca perché cavalcava il più bel cavallo del mondo, che era un purosangue che solo i ricchi potevano possedere. 

*** Massimo Ferrario, Il sogno della povera vecchia, per 'Mixtura', libera riscrittura di un racconto famoso, nella versione europea più antica. Fonte: Jacques de Vitry, 1165 ca-1240, predicatore, teologo, storico, vescovo e cardinale francese, da The Exempla; oppure, Thomas Frederick Crane (a cura), Illustrative Stories from the Sermones Vulgares, London: Folk-Lore Society, 1890, n. 51, pp. 154-55, in DL Ashliman (a cura), 1938, scrittrice e folclorista statunitense, Story of an Old Woman, Carrying Milk to Market in an Earthen Vessel, ‘Folklore and Mythology Electronic Texts’, Università di Pittsburg, online


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mercoledì 2 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Il giovane caduto dal cielo (Massimo Ferrario)

Un’anziana contadina, un'anima buona e semplice, stava tornando dal mercato, carica di borse per la spesa appena fatta al paese a qualche chilometro di distanza. 
Era quasi arrivata a casa, quando per strada incontrò un giovane: lui l’aveva vista da lontano mentre lei camminava lenta e affaticata e si era fermato a guardare fisso il cielo, col naso all’insù. 
“Che cosa significa questo?”, pensò la vecchia. 

Quando fu vicina al giovane, lo salutò e gli chiese: 
- Amico mio, perché stai guardando in aria? È successo qualcosa lassù?
- Cara donna -, rispose il ragazzo, - sono appena caduto dal cielo e ora non riesco a ritrovare il buco per rientrarvi.

La donna non si mostrò stupita più di tanto. 
Ripeté solo: 
- Caduto dal cielo? Ho capito bene?

Il giovane confermò, con forza. 
- Esatto, Donna. Hai capito benissimo. Sono arrivato sulla terra senza difficoltà. Ma ora non so come rientrare. 

La vecchia neppure per un attimo mise in dubbio le parole del giovane: la sua naturale buona fede, frutto del suo animo candido, era automaticamente attribuita a chiunque incontrasse.
Pensò subito a suo figlio. 
- Quindi -, commentò la vecchia, - se sei appena caduto dal cielo, devi conoscere bene come stanno le cose lassù…
- Certo -, disse il giovane. - Visto dove abito, ormai sono diventato un esperto di cielo e conosco tutto quello che c’è lassù: cose e persone. 
- Allora forse conosci anche mio figlio Kees, morto quasi due anni fa?
- Kees? -, chiese il ragazzo con foga. - Kees, hai detto? È tuo figlio? E mi chiedi se lo conosco? Mia cara donna, è il mio amico più caro!
- E' meraviglioso -, disse la vecchia, - e dimmi... dimmi: come sta?
- Abbastanza bene! Anche se… sì, insomma, la settimana scorsa un po’ si lamentava che le sue calze sono ormai piene di buchi. E anche le camicie e i pantaloni cominciano a  essere consumati. E poi, la salsiccia, il prosciutto e il burro non riesce più a mangiarli: spariti dalla tavola. Però, a parte questo, sta bene. E’ allegro. E chiacchieriamo spesso. Siamo ottimi amici. Sei fortunata ad avere avuto un figlio come lui.
- Oh, amico mio, ma è fantastico: dunque conosci Kees. E siete amici…

La donna lasciò trascorrere qualche secondo di silenzio. Ebbe un attimo di commozione. 
Poi si riprese. 
- Mi dicevi delle sue calze consumate. E dei vestiti. Ma non c'è nessuno lassù che possa prendersi cura di queste cose?
- No -, disse l'uomo, - in cielo ognuno bada a sé stesso.
- E poi mi dicevi che lui non riesce più a mangiare salsiccia, prosciutto e burro? Ma come mai? Soprattutto le salsicce erano la sua passione. Non si trovano in cielo?
- Sì, sono in vendita, ma lassù è tutto terribilmente costoso e lui cibi così non se li può permettere.
- Oh caro il mio figliolo, è un peccato che anche adesso che è morto debba soffrire per dei bisogni elementari che non riesce a soddisfare. Ma io, pur essendo una povera contadina, potrei benissimo permettermi di fargli arrivare qualcosa… qualche vestito... un po’ di quel cibo che so gli piace…

La donna voleva sapere tutto e non finiva di chiedere. E l'uomo raccontò con ogni dettaglio come stava Kees, e cosa stava facendo, e dove e come esattamente viveva. 

Alla fine però disse che doveva tornare in cielo, altrimenti sarebbe stato in ritardo e c’era il rischio che venisse punito. 
- Torni in cielo ora? - chiese la vecchia.
- Sì, certo. Devo solo ritrovare il buco da cui passare - , rispose il giovane.
- Allora, poiché conosci così bene Kees, saresti così gentile da farmi un grande favore? 
- Se posso, volentieri, buona donna. Vedo che sei una mamma affettuosa: te lo meriti.
La vecchia sorrise. 
- Vieni a casa mia: ti preparo una valigia, con alcune cose che mi piacerebbe potessi portargli.
- D’accordo -, disse. - Oltre che per te, lo farò perché Kees è Kees: gli sono molto legato. Ma se non ci affrettiamo, poi mi tireranno le orecchie per essere stato via così a lungo.

Il giovane raccolse le borse pesanti che la donna si trascinava con fatica dal mercato e insieme andarono alla fattoria. 
Qui la vecchia confezionò due bei pacchi: uno per il giovane caduto dal cielo, perché era stato così gentile e disponibile, e uno per Kees. Il pacco per Kees era naturalmente molto più grande e la donna disse che dentro c’era anche un sacchetto pieno di soldi, così che il figlio potesse comprarsi tutte le salsicce che voleva. 

Poi il giovane si congedò: doveva sbrigarsi a ritrovare l’entrata del cielo. 

La vecchia guardò il giovane che se ne andava a passo svelto con i due pacchi, con la testa alta che scrutava il cielo alla ricerca del punto giusto per rientrarvi. E non smise di guardarlo, mentre si allontanava sul sentiero, fino a quando fu una figurina piccola piccola. 
Pensava: “Chissà come sarà felice Kees quando il suo amico tornerà e gli racconterà che è stato qui”. 

La donna non seppe mai se Kees ricevette il pacco che lei gli aveva preparato con tanto affetto.
Del resto, a tutt’oggi, nessuno neppure sa se il giovane caduto dal cielo, abbia trovato, lassù in alto, il buco da cui rientrare.

*** Massimo Ferrario, Il giovane caduto dal cielo, per 'Mixtura', libera riscrittura di un testo olandese, registrato a Rotterdam nel 1894 e tradotto in americano nel 2014 da DL Ashliman, 1938, scrittrice e folclorista statunitense -  Fonte: Gerrit Jacob  Boekenoogen, 1868-1930, linguista olandese, Van den man die uit den hemel gevallen was, Volkskunde: Tijdschrift voor Nederlandsche Folklore, vol. 15 (1903), no. 41, pp. 187-88, in DL Ashliman, a cura, Folklore and Mythology Electronic Texts Università di Pittsburg, online


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