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martedì 16 giugno 2020

#RITAGLI / Montanelli e la statua imbrattata (Stefano Feltri)

Indro Montanelli è stato un grande giornalista, milioni di italiani si sono formati sulle pagine della sua Storia d’Italia e sulle sue cronache, spesso più ricche di dettagli della realtà che raccontava. 

Chi ha imbrattato la statua nei giardini a lui intitolati a Milano non pensa che Montanelli scrivesse male o che fosse noioso, ma contesta la trasformazione dell’uomo, inevitabilmente complesso e fallace, in un simbolo nel quale tutti sono chiamati a riconoscersi.

I fatti. Durante la guerra d’Etiopia, tra il 1935 e il 1936, una orribile guerra coloniale durante la quale tutti facevano cose orribili, Montanelli si trova in Africa e “sposa” una ragazzina di 12 o 14 anni. 

La Fondazione Montanelli riassume così la vicenda: " Montanelli sposò sì la giovane Destà com’era usanza della popolazione locale, ma, per quanto oggi possa apparirci riprovevole, quel tipo di matrimonio era addirittura un contratto pubblico, sollecitato dal responsabile del battaglione eritreo guidato da Indro.
Si tratta di un episodio della sua vita, non imposto né attuato con violenza, che mai nascose. "

Montanelli a 26 anni era un giovane uomo, non un ragazzino incapace di valutare le proprie azioni. Ma i tempi e il contesto erano quelli che erano, dicono i suoi difensori.

Qualcuno smette forse di leggere Socrate e Platone perché predicavano le virtù dell’amore per i fanciulli? 

Poi però i tempi sono cambiati parecchio, Montanelli meno. Ancora nel 1972 Montanelli parla con disinvoltura dell’episodio, “in Africa usa così”, dice. In una trasmissione tv non ha argomenti per replicare alla femminista Elvira Banotti che gli contesta come, dal punto di vista psicologico e fisico, i danni sulla ragazzina non siano stati diversi da quelli che avrebbe subito una dodicenne europea. 

Ma accettiamo pure l’assoluto relativismo culturale di Montanelli - che oggi impedirebbe ogni critica alle pratiche più umilianti cui le donne sono sottoposte in certi regimi islamici - e restiamo al contesto del quale condividiamo le coordinate etiche e morali, cioè l’Italia e l’Occidente. 

Ancora nel 2000, nella risposta a una lettrice oggi pubblicata sempre sul sito della Fondazione Montanelli (giudicata accettabile anche dai custodi della memoria del giornalista), Montanelli racconta le sue difficoltà a entrare in intimità con la ragazzina etiope per via del suo “odore” e perché “era infibulata fin dalla nascita”. Sorvoliamo sulla palese assurdità del concetto, ma Montanelli non si fa scrupolo alcuno neanche a posteriori, anzi racconta - senza traccia di empatia o comprensione - quanta fatica avesse fatto per “demolire” quella che per lui era “una barriera insormontabile”. Aggiunge anche che ci volle “il brutale intervento della madre” per appagare la sua italica virilità. Ripeto: siamo nel 2000, non nel 1935 durante la guerra coloniale di un regime dittatoriale. 

Tutto questo rende Montanelli un cattivo giornalista? Secondo la maggioranza, inclusi anche alcuni suoi critici, no.  

La questione che la vernice sulla statua pone è diversa: possiamo celebrare un grande giornalista anche se per tutta la vita è rimasto indifferente a una simile violenza, pure quando aveva perso ormai ogni alibi di contesto? 

Si può perdonare l’imperfezione dell’uomo, ma questo non obbliga a trasformarlo in simbolo, è il messaggio del vandalismo di Rete Studenti e LuMe.

*** Stefano FELTRI, direttore di 'Domani', estratto da Le statue e la memoria di Domani, 15 giugno 2020, qui


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mercoledì 18 dicembre 2019

#MOSQUITO / Lavoro, robot, formazione (Stefano Feltri)

C’è un report dell’aprile 2019 dell’Ocse, con un paio di dati rilevanti per l’Italia. Si scopre che non siamo particolarmente esposti al rischio di robotizzazione del lavoro: soltanto il 15,2 per cento dei posti di lavoro è a rischio a causa dei robot, contro una media Ocse del 14. A essere spazzate via saranno soprattutto le mansioni routinarie, quelle che richiedono poca creatività o poca interazione umana: addio operai non specializzati in fabbrica, cassieri al supermercato, bancari. Il paese meno esposto al pericolo robot è la Norvegia (5,7 per cento dei posti a rischio), quello più preoccupato nella classifica dell’Ocse dovrebbe essere la Slovacchia (33,6 per cento dei posti a rischio). 

Saranno però moltissimi i lavori che nei prossimi anni cambieranno, stravolti dalla tecnologia: in Italia ben il 35,5 per cento. Ognuno di noi ha già osservato questa evoluzione nella sua esperienza personale. Nel mio settore, il giornalismo, quasi nessuno di quelli che lavorano da più di quindici anni troverebbe oggi un posto di lavoro stabile e ben remunerato se non ha investito per adeguare le sue competenze alle esigenze del mercato e sa soltanto scrivere, o girare un servizio, o impaginare un testo. Oggi bisogna saper fare tutto questo insieme, possibilmente dallo smartphone, meglio ancora se anche in inglese, senza neppure aver bisogno di mettere piede in ufficio. 

Vista la portata della transizione, bisogna farsi trovare pronti, sia sviluppando competenze, sia garantendo tutele a chi finisce vittima del cambiamento, o perché perde il lavoro o perché vede ridursi le ore lavorate e dunque il salario (come è appunto successo in Italia con l’esplosione dei part time involontari tra 2008 e 2018). Nei paesi Ocse soltanto il 40 per cento dei lavoratori adulti partecipa a programmi di formazione continua e di solito sono quelli più qualificati. In Italia quel dato, già basso, si dimezza: soltanto il 20 per cento degli adulti si sta formando. Colpa anche della dimensione delle imprese. Quelle italiane sono quasi sempre troppo piccole per investire su un percorso di evoluzione interna dei propri lavoratori: tra quelle che hanno più di dieci dipendenti, soltanto il 60 per cento riesce a offrire formazione continua, contro il 75 per cento della media europea dei paesi Ocse.

***Stefano FELTRI, 1984, giornalista e saggista, giornalista, saggista, Sette scomode verità sull'economia italiana, Utet, 2019


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domenica 28 ottobre 2018

#MOSQUITO / L'approccio 'epistemico' alla efficacia della democrazia (Stefano Feltri)

L’unico modo per rispondere all’attacco sovranista alla democrazia rappresentativa è usare quello che il filosofo americano David Estlund chiama «l’approccio epistemico» alla questione: il valore della democrazia non sta soltanto nel reggersi su un principio che tutti possono accettare (le decisioni si prendono a maggioranza), ma nella sua capacità di produrre risultati migliori rispetto ad altri sistemi. Decidere a maggioranza, in fondo, è un metodo come un altro: tutti percepiscono una certa equità perché sanno che se oggi possono trovarsi in minoranza su una certa decisione, domani magari invece faranno parte della maggioranza. E quindi non c’è una discriminazione, una barriera insormontabile o pregiudiziale, semplicemente prevale l’opinione piú condivisa. Però, osserva David Estlund, anche decidere lanciando una moneta è un metodo che garantisce a tutti equità: nessun gruppo organizzato può influenzare il processo decisionale, nessun lobbista può interferire. L’Italia deve uscire dall’euro? «Testa» rimane, «croce» se ne va. Se vogliamo sostenere che la democrazia rappresentativa fondata sulla delega e il Parlamento è meglio del lancio della moneta – o di un referendum consultivo – dobbiamo dimostrare che produce decisioni di una qualità superiore, che il dibattito e la mediazione che solo i partiti e il Parlamento possono garantire permette di approdare a un risultato di maggiore soddisfazione per tutti. Finora i partiti tradizionali non hanno neppure provato a impegnarsi in questo difficile compito che richiede modifiche delle procedure parlamentari, una maggiore apertura alle proposte della società civile, grande trasparenza. L’approccio è stato, in Italia come in Europa, quello dell’arrocco: usare regolamenti e tattiche parlamentari per minimizzare le conseguenze dell’improvvisa presenza massiccia di deputati eletti da schieramenti populisti o comunque di protesta. Il prevedibile risultato è stato quello di aumentare lo scetticismo sulla capacità di questa politica di rinnovarsi da sola. Ma senza affrontare i sovranisti con l’approccio «epistemico» di Estlund, cioè dimostrare che pratiche e istituzioni screditate possono garantire risultati decisionali migliori rispetto alle scorciatoie sovraniste, la battaglia in difesa della democrazia rappresentativa sarà persa.

*** Stefano FELTRI, 1984, giornalista e saggista, Populismo sovrano, Einaudi, 2018 - David Estlund, The Epistemic Dimension of Democratic Authority, in James Bohman, William Rheg, a cura, Deliberative Democracy. Essays on Reason and Politics, Mit Press, Cambridge, Mass, 1997


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giovedì 23 agosto 2018

#MOSQUITO / Sovranismo, il tracollo del 'mondo di ieri' (Stefano Feltri)

Gli eurocritici e i cantori della sovranità non vogliono ricostruire un equilibrio distrutto dal capitale, dalle multinazionali, dalla tecnologia. Evocano semplicemente, senza mai offrire dettagli sul come, il quando e il cosa, un assetto diverso. Che, nel concreto, si traduce spesso nella promessa di fruire dei benefici della globalizzazione senza affrontarne gli impegni e i costi che comporta. Non sembra esserci alcun modo efficace di contrastare questa deriva. I tentativi maldestri delle istituzioni europee di spiegare le catastrofi cui la Gran Bretagna sarebbe andata incontro in caso di uscita dall’Unione hanno soltanto dato argomenti agli euroscettici indignati per questo «project fear», progetto paura. Se non si è abbastanza credibili da convincere qualcuno, è difficile che si riesca a spaventarlo. Non si vedono idee o forze, esclusa forse quella di inerzia, in grado di contrastare il crollo del nostro «mondo di ieri». Un tracollo che, con tutti i traumi che comporterà, è forse l’unica premessa per costruire nuove e più contemporanee risposte alla domanda di sicurezza.

*** Stefano FELTRI, giornalista e saggista, Populismo sovrano, Einaudi, 2018


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martedì 20 giugno 2017

#LINK / Voucher 2,0, peggio di prima (Stefano Feltri)

A molti la protesta della Cgil pare incomprensibile, a tutti quelli che credono al ritornello che “non sono tornati i voucher, ma un po’ di regole ai lavoretti erano necessarie o sarebbe tornato tutto nel sommerso”. Per quanto false, queste genere di considerazioni si sentono a ciclo continuo tra radio e tv. Sono balle di chi mente sapendo di mentire. Il governo Gentiloni ha cancellato i voucher per decreto perché Matteo Renzi aveva paura del referendum previsto per giugno – come dargli torto, visti i precedenti – e poi li ha ripristinati con un altro violento abuso, cioè infilati in una manovra correttiva sui è stata posta la fiducia.

Questi nuovi voucher hanno alcune modifiche che dovrebbero farli sembrare migliori: limite di 5000 euro all’anno per lavoratore, non più di 2500 dallo stesso committente; sanzioni pesanti come l’obbligo di assunzione a tempo indeterminato per il committente che sfonda il tetto (curiosamente l’obbligo non vale se a imbrogliare è lo Stato, cioè la pubblica amministrazione…), aumenta la paga reale per il prestatore d’opera, che sale di fatto da 7,5 a 9 euro all’ora e non è neppure rigida, ma può essere più alta; colf e badanti pagate dalle persone fisiche con il “libretto di famiglia” hanno anche più diritti, tra cui quello al riposo giornaliero e alle pause settimanali. Tutto bene, dunque? Assolutamente no.

Se non credete alla Cgil, leggetevi il focus prodotto dall’Ufficio parlamentare di Bilancio, che è un’autorità davvero indipendente che analizza e commenta la politica economica. Scorprirete che di ragioni per protestare in piazza ce ne sono parecchie. (...)

*** Stefano FELTRI, giornalista e saggista, vice direttore di 'Il Fatto Quotidiano', Voucher 2.0, perché sono peggio di prima, 17 giugno 2017

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lunedì 9 gennaio 2017

#LINK / 2017, l'anno senza narrazione (Stefano Feltri)

Si avverte un certo senso di vuoto, sfogliando i giornali e guardando i siti di news in questo lento inizio di anno: è scomparsa la narrazione, è finito lo spin, si è incrinato lo storytelling. Senza più Matteo Renzi a ripetere con dedizione da studente coranico quanto sta migliorando l’economia, che boom incredibile di posti di lavoro stiamo osservando, a ricordarci la fenomenale centralità dell’Italia nello scacchiere europeo e che ottimo investimento sia il Monte dei Paschi di Siena, è sceso il silenzio. E giornali e giornalisti, molto più che i loro (ormai pochi) lettori, devono prodursi in uno sforzo da tempo dimenticato, per il quale i muscoli necessari sono da tempo rattrappiti, causa lo scarso utilizzo: pensare da soli, farsi un’opinione del mondo, scegliere in che modo presentare ai lettori quello che succede.

Guarda caso, il dibattito sulla post-verità è arrivato con grande ritardo in Italia, solo quando ha perso forza la “verità unica”, quella decisa a palazzo Chigi e comunicata al popolo direttamente dai cellulari di Matteo Renzi e del suo braccio destro Filippo Sensi, grazie all’amplificazione di troppo ricettivi opinion maker e politici di corte. Ora che la narrazione è finita, si può finalmente ammettere che gran parte di quello che gira su siti, talk show e giornali (per non dire dei siti istituzionali) è soltanto un cumulo di balle. O, per dirla in modo più elegante, il prodotto di una propaganda tanto sofisticata quanto brutale. (...)

*** Stefano FELTRI, giornalista, saggista, vicedirettore di 'Il Fatto Quotidiano', 2017, l'anno senza narrazione, 'ilfattoquotidiano.it', 7 gennaio 2017

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domenica 28 agosto 2016

#LINK / Terremotati, e sciacalli contro i migranti (Stefano Feltri)

Chi sono gli “sciacalli”? Dopo le tragedie c’è sempre qualche ladruncolo che si infila nelle case, costruttori che pregustano gli appalti, politici che colgono l’occasione di un passaggio tv. Ma sono sciacalli, e peggiori, quelli che cercano di spostare l’onda di emozione collettiva dalla compassione all’odio. Di usare i 290 morti tra Lazio e Marche per validare i propri argomenti, come se anteporre la tragedia alle bestialità rendesse illegittime le obiezioni.

Lo sciacallaggio è partito presto, sui social network: “Perché i terremotati devono stare nelle tende e i profughi negli hotel?” Come osa lo Stato sprecare ancora risorse per quegli invasori esigenti e ingrati mentre tanti italiani hanno le proprie case distrutte? Il quotidiano Libero si è fatto interprete di questi umori che qualcuno attribuisce ancora alla “pancia” degli italiani, invece che trattarli come semplice razzismo in cerca di basi economiche per i propri pregiudizi. (...)

*** Stefano FELTRI, gionralista e saggista, Gli sciacalli che usano la tragedia contro i migranti, 'ilfattoquotidiano.it', 27 agosto 2016

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venerdì 12 agosto 2016

#LINK / Boschi, altro che cosce (Stefano Feltri)

(...) Le agenzie e i siti e i giornali che rilanciano, sdegnati, la vignetta di Riccardo Mannelli sono gli stessi che hanno completamente – e dico completamente – ignorato cose ben più gravi che Il Fatto ha pubblicato in questi mesi: le inchieste sulle strane manovre intorno all’Eni, il fatto che un giudice della Corte costituzionale è indagato, la lottizzazione renziana della Rai, perfino la notizia che c’erano forze speciali italiane in Libia e Iraq ha avuto dignità di richiamo solo quando – due settimane dopo di noi – l’ha scritta Repubblica.

E le parlamentari che si inalberano sono le stesse che non hanno avuta nulla da obiettare quando Novella 2000 pubblicava servizi con fotografie a doppia pagina di Maria Elena Boschi e titoli incredibili tipo “A un passo dal topless”. TgCom24, testata di Mediaset, ha dedicato addirittura un servizio alle “onorevoli smagliature”. Dove eravate voi sdegnate deputate e senatrici? E voi infervorati commentatori? Non ditemi che vi erano sfuggite. (...)

*** Stefano FELTRI, giornalista, Boschi, altro che cosce: dovevate indignarvi prima, 'ilfattoquotidiano.it', 11 agosto 2016

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mercoledì 29 giugno 2016

#LINK / Brexit, la democrazia della menzogna (Stefano Feltri)

La democrazia non può fondarsi sulle bugie, soprattutto quando prova a essere diretta e non rappresentativa. Il voto in Gran Bretagna sta dimostrando quanto è pericoloso chiedere il parere degli elettori su questioni complesse come il rapporto tra Stati e Unione europea senza dare loro gli elementi per formarsi un’opinione completa e indipendente.

Il fronte del “leave” ha vinto: la Gran Bretagna uscirà dall’Ue. Ma ha vinto con le menzogne e ora si scontra con l’inevitabile contraccolpo. (...)

*** Stefano FELTRI, giornalista e saggista, Brexit, Boris Johnson e la democrazia della menzogna, 'ilfattoquotidiano.it', 27 giugno 2016

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martedì 1 dicembre 2015

#SENZA_TAGLI / Presepi, Bataclan e leggi speciali: ma che Occidente difendiamo? (Stefano Feltri)

Tra i tanti danni che causano i terroristi, quegli squilibrati che usando il linguaggio dell’Islam (come a Parigi) o il un nichilismo tutto europeo (Anders Breivik in Norvegia), c’è quello di esasperare le nostre ambiguità. Di far vacillare proprio quelle certezze, quei valori che in momenti di aggressione esterna o interna proclamiamo di voler difendere. Anche a prezzo della vita.

L’ultimo esempio è quello del presepe di Rozzano, vicino Milano. L’opinionista collettivo, da bar o da social network, da giorni discute se sia giusto o no cancellare le celebrazioni del Natale da una scuola elementare. Rispetto per le diverse fedi dei bambini e delle famiglie o pericolosa deriva relativista?

Subito la destra italiana, quella che rivendica con orgoglio scarsa sensibilità di fronte ai profughi congelati alle frontiere e ai bambini siriani affogati in mare, quella che difende i metodi dell’autocrate Vladimir Putin, quella che candida gli assassini, perché sparare a un ladro per ucciderlo deve essere un diritto costituzionale, ecco, quella destra lì si è precipitata a Rozzano con presepi e cd musicali. 

Parentesi: ci sono tanti sacerdoti che faticosamente cercano di spiegare che il Natale cristiano non è l’albero, il presepe, Babbo Natale e i regali, che cantare Tu scendi dalle stelle è un modo di dimostrare partecipazione a un evento che per chi crede è l’inizio della storia della salvezza. Le canzoni e le statuine non sono il Natale, ma solo una sua manifestazione esteriore, superficiale, irrilevante. Non capirlo significa indulgere all’idolatria cosa che, stando alla Bibbia, è un peccato piuttosto serio. Chiusa parentesi.

Poi ci sono i fatti: nella sua lettera ufficiale il preside Marco Parma spiega che “l’unico diniego che ho opposto riguarda la richiesta di due mamme che avrebbero voluto entrare a scuola nell’intervallo mensa per insegnare canti religiosi ai bambini cristiani: cosa che continuo a considerare inopportuna”. Due mamme invadenti respinte. E’ scontro di civiltà o buon senso?

In questo clima di ipersensibilità dopo la strage di Parigi è facile vedere fronti della guerra di civiltà ovunque, è un messaggio politicamente semplice quello di nascondere dietro un’azione difensiva – “proteggiamo il nostro Natale” – una propensione violenta, offensiva, di aggressione contro “quelli che ci vogliono togliere anche il Natale”. Quelli, cioè loro, i musulmani, gli arabi, i terroristi, l’Isis, non fa differenza. Quelli. E allora difendiamo il presepe, perché se cade quello, in un attimo ci troviamo nell’Eurabia partorita dal delirio di Oriana Fallaci.

Scambiare i valori dell’Occidente con le sue manifestazioni esteriori, però, non è tipico solo della destra più becera alla Matteo Salvini. Lo abbiamo visto nei giorni scorsi quando si è affermata la cupa espressione della “generazione Bataclan”. Il sottinteso prevalente è che il Bataclan, cioè una sala concerti, riassume l’Europa di oggi: ragazzi di tutti i Paesi, che vogliono divertirsi, con spensieratezza. E che per questo diventano un bersaglio del nichilismo terrorista. Questa sintesi, però, porta a identificare i valori dell’Occidente con un mero edonismo di superficie, la libertà con la libertà di andare in discoteca, il superamento dei nazionalismi con l’uniformità consumistica e così via.

Parlare di “generazione Bataclan”, in fondo, implica abbracciare il punto di vista dei terroristi, che non vedono un Occidente ricco di valori ma molliccio, superficiale, che pensa soltanto a svagarsi mentre in altre parti del mondo si consumano drammi e lotte cruente. La “generazione Erasmus” era quella che traduceva l’Europa in studio, cosmopolitismo, amicizie, nell’inglese lingua franca. La “generazione Bataclan” si declina invece in una birra dopo l’altra.

I capi di governo non sono da meno: François Hollande ha colto l’occasione della strage per rivendicare flessibilità di bilancio con l’Unione europea, subito si è accodato anche Matteo Renzi per l’Italia, in Francia (ma anche in Belgio) sono partiti arresti dimostrativi, sono state sospese garanzie democratiche. In Italia, dopo una prima sana calma, si è passati ad annunci di intercettazioni sulle Playstation e chissà cos’altro. Per contrastare chi vuole distruggere il nostro stile di vita – che è la democrazia, l’habeas corpus, i diritti civili e non soltanto il calendario Pirelli, l’alcol libero e le droghe tollerate – scegliamo di picconarlo da soli. Inoculare virus serve a vaccinarsi contro le malattie. Ma non sempre le metafore biologiche funzionano in politica.

L’Occidente non è il presepe o Tu scendi dalle stelle, non è il Bataclan, non è la rinuncia alla libertà personale in nome della sicurezza. Siamo meglio di così. E’ ora di ricordarlo a noi stessi. E di dimostrarlo.

*** Stefano FELTRI, giornalista e saggista, Presepi, Bataclan, leggi speciali: ma che Occidente difendiamo?, blog 'ilfattoquotidiano.it', 30 novembre 2015, qui

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domenica 15 novembre 2015

#RITAGLI / Terrorismo, non è religione né immigrazione (Stefano Feltri)

(...) Questa guerra non si vince sul piano dei valori. Va benissimo esorcizzare la paura con un tweet, che sia #jesuischarlie o #prayforparis, ma questa non è una battaglia per conquistare “i cuori e le menti”. E’ una guerra che si combatte sul campo. Risolvendo due disastri che per troppo tempo abbiamo lasciato incancrenire, cioè la Libia e la Siria, bloccati dalla paura di un nuovo Iraq e – soprattutto – dalle posizioni della Russia di Vladimir Putin. Che continua, tuttora, a sostenere il dittatore criminale Bashar al Assad in Siria, anche con interventi militari diretti. E per questo, probabilmente, è stato abbattuto un jet pieno di passeggeri russi in Egitto.

Le reazioni immediate, quelle del partito “aveva ragione Oriana Fallaci, dobbiamo ribellarci all’Eurabia”, creano un nesso tra il problema delle migrazioni e quello del terrorismo. Sono due problemi, certo, due enormi sfide a cui vanno incontro le nostre società. Ma sono due problemi diversi. Che possono però avere una soluzione comune: stabilizzare i Paesi da cui partono i migranti, dove, in molti casi, l’Isis spadroneggia. E purtroppo non sembrano esserci molti modi diversi da un intervento sul terreno. I droni non bastano e producono molte vittime collaterali. Il fatto che siano vittime locali e non di soldati bianchi non può essere un argomento a loro favore.

Ma chiudere le frontiere, varare leggi restrittive sull’immigrazione, punire per colpe non loro i tanti musulmani che vivono in pace tra noi, è un ottimo sistema per peggiorare la situazione. Guardate cos’è successo alla Turchia: se dieci anni fa avessimo accelerato il suo processo di avvicinamento all’Unione europea, forse avremmo evitato la sua degenerazione autoritaria e oggi sarebbe una solida barriera contro l’Isis, invece che la protagonista di una zona grigia nella quale il nemico (l’Isis) del mio nemico (i curdi) finisce per diventare quasi un amico.

*** Stefano FELTRI, giornalista e saggista, Attentati a Parigi: non mischiamo terrorismo, religione e immigrazione, 'ilfattoquotidiano.it', 14 novembre 2015

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mercoledì 16 settembre 2015

#RITAGLI / Jaremy Corby, non è Tsipras (Stefano Feltri)

“Pagare le tasse non è un fardello, è il canone che paghiamo per vivere in una società civilizzata”. La Gran Bretagna non è la Grecia e Jeremy Corbyn non è Alexis Tsipras, anche se l’ostilità intorno al nuovo leader dei laburisti inglesi è simile a quella che ha circondato l’ex premier greco negli otto mesi in cui è stato in carica. Corbyn vuole più welfare State, più salari e più tasse per finanziare la spesa pubblica, ma le sue richieste riguardano un Paese che è fuori dall’euro, che nel 2014 è cresciuto del 2,8 per cento e che ha un deficit sotto controllo, che deve passare dal 4,5 al 3,1 per cento del Pil. Non esattamente le stesse condizioni in cui Tsipras è arrivato al potere in gennaio, quando aveva promesse più generose di quelle di Corbyn ma da applicare in un Paese in default strutturale, privo di accesso ai mercati finanziari e dipendente dagli aiuti internazionali.

Corbyn si è fatto la fama di avere un programma molto vago, in economia. Ma non è così. C’è un documento, “The Economy in 2020”, che risale a luglio ed è abbastanza preciso almeno nel delineare le idee di fondo. In sintesi: Corbyn non appartiene ai teorici della decrescita, non è rassegnato a una Gran Bretagna in declino in cui l’unico compito della sinistra è distribuire equamente i sacrifici (modello Tsipras). “La creazione di ricchezza è una cosa buona: tutti noi vogliamo una maggiore prosperità”, è la prima frase, che evoca quell’ “arricchirsi è glorioso” di Deng Xiaoping alle radici del boom cinese di questi decenni. (...)

*** Stefano FELTRI, giornalista e saggista, Gb: meglio il rosso di Corbyn che quello di Tsipras, 'Il Fatto Quotidiano', 15 settembre 2015

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Sempre in Mixtura, altri 3 contributi di Stefano Feltri e una mia recensione al suo libro (La politica non serve a niente, Rizzoli, 2015)

giovedì 10 settembre 2015

#LIBRI PREZIOSI / La politica non serve a niente, di Stefano Feltri (recensione di M. Ferrario)

Stefano FELTRI, "La politica non serve a niente. 
Perché non sarà il Palazzo a salvarci", Rizzoli, 2015
pagine 201, € 17,00 - ebook, 9,99

Può essere utile riportare subito l'assunto del libro, ben sintetizzato da Stefano Feltri in queste righe: 
«(...) la politica si sta rivelando inutile perché non riesce più a rispondere ai bisogni fondamentali delle persone che, in estrema sintesi, possiamo riassumere nell’avere un lavoro e uno stile di vita dignitoso. (...) questa politica non riesce più a incidere, a far ripartire la crescita economica e a mettere in condizione i cittadini di affrontare i cambiamenti profondi portati dalla tecnologia senza esserne travolti. Dobbiamo quindi rassegnarci ad andare incontro al nostro destino?»

Ciò che ruota dentro e attorno alla tesi sopra riportata, in circa duecento pagine del libro, è un'analisi precisa, documentata, piacevole anche per lo stile scorrevole con cui è condotta: che calamita l'attenzione come si stesse leggendo un 'thriller', per la quantità di informazioni, registrate con puntualità e occhio accattivante, su dove sta andando il mondo, e per la riflessione ampia e su più fronti, che cerca di essere equilibrata e 'oggettiva', sui problemi che il nuovo secolo ci ha buttato addosso. 

L'esame, proprio perché onesto, non nasconde il messaggio dell'autore che in alcuni punti sembra trasparire in filigrana, ma in altri emerge con nettezza e drasticità: un messaggio che 'punge', ed è forse anche notevolmente 'disturbante', per chi ha ancora testa e pancia nel Novecento e fatica a riorientarsi nella baraonda della nuova epoca. 
L'invito, in forma qui da me condensata, appare drastico: se la politica è morta, ognuno si impegni per conto suo, responsabilizzandosi per la vita che vuole vivere; la tecnologia, già oggi e ancor più domani, è l'unico strumento chiave con cui ognuno può ottenere ciò che dalla politica, ormai impotente e incapace di fare scelte vere e di grande respiro per il bene di tutti, non può più attendersi.
In sostanza, è la vittoria della responsabilizzazione dell'individuo in quanto tale ed è la fine dello sforzo, individuale ma solidale, di provare a tracciare e realizzare dei destini collettivi. 

Una posizione non nuova, quella del richiamo 'al fai-da-te', individualistico e frammentato. Ma qui la proposta, anche se avanzata con convinzione, non mi pare 'venduta' come sicura panacea, né mi pare veicolata in versione beotamente ottimistica: manca l'inno a quell'orgoglio neoliberista che molti continuano a credere possa salvare il mondo. E del resto mancano i tamburi che esaltino questa visione anche perché la conclusione cui l'autore giunge vuole essere la logica conseguenza di una raccolta di dati e fatti, valutati come inesorabili e commentati con (tentata) freddezza e (riuscita) problematicità. Sono i numerosi esempi concreti presi dal mercato, o i pensieri citati di molti studiosi interessati a capire la complessità e i trend del presente (economisti, politologi, sociologi), che pongono la questione e supportano l'ipotesi di questa soluzione.

Naturalmente, chi come me ha qualche 'nostalgia', non solo dovuta all'età, per una visione, pur riveduta e aggiornata ma comunque sempre 'politica' del mondo e della società, oltre a provare nella lettura qualche irritazione, qua e là, per qualche eccesso di sicurezza, mantiene in campo dubbi e perplessità. Del resto, se siamo 'ancora' in un 'thriller' in divenire, il finale ovviamente non possiamo conoscerlo: anche perché dipenderà molto da come noi attori ci muoveremo.

Comunque l'utilità di questo saggio 'intelligente' di Feltri mi sembra evidente: costringe anche chi non è nuovo alla (auto)interrogazione su questi temi, a 'ri-pensarli' una volta di più, confrontandosi con un punto di vista che non si può facilmente gettar via con una scrollata di spalle: perché, nonostante una soggettività ineliminabile (la realtà, anche quando si fotografa, si interpreta), 'dentro' questa soggettività ci senti, specie nell'analisi, un nocciolo di verità ineliminabile. 
Una verità con la minuscola, com'è ovvio: ma una verità.

*** Massimo Ferrario, per Mixtura

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Conteranno sempre di più soltanto le competenze. Poi spetta a ciascuno di noi scegliere se costruire le proprie contando soltanto sulla capacità di visione della politica, di qualche ministro che immagina riforme lente e marginali, che poi si scontreranno con le resistenze dei sindacati, con quelle dei professori che non vogliono essere valutati e degli studenti che tendono a essere più conservatori dei docenti. Oppure provare a diventare competitivo adattando in tempo reale le proprie conoscenze e competenze, creandosi un network internazionale che magari è soltanto virtuale (e cosa non lo è oggi?) interagendo con i migliori professori del mondo, in inglese o magari in cinese. In alternativa può laurearsi in scienze della comunicazione in un’università di provincia e sperare che la vita gli permetta di sviluppare fuori da un percorso accademico privo di sbocchi le caratteristiche che gli servono per trovare lavoro. 
Quello che conta è che ora si può scegliere, che i percorsi individuali non dipendono più soltanto da scelte collettive. Che possiamo costruire quel «capitale umano» da soli senza aspettare i tempi di una politica che continua a ritenere adeguato offrire la stessa istruzione superiore del dopoguerra. La responsabilità dei nostri destini, adesso, è in capo a noi. Non a loro. (Stefano Feltri, La politica non serve a niente. Perché non sarà il Palazzo a salvarci, Rizzoli, 2015).

I motori della crescita straordinaria del Novecento sono finiti, l’integrazione dei commerci c’è stata, il muro di Berlino è caduto, le classi medie si sono comprate la lavatrice e milioni di persone che aspirano a diventare a loro volta classe media – in Cina e India – stanno iniziando a mangiare carne. Come si può immaginare che questa crescita prosegua senza far collassare il pianeta e senza politiche pubbliche di sostegno all’economia che oggi non sembrano attuabili? Grazie alla tecnologia, rispondono altri economisti, perché siamo all’inizio di un mutamento epocale, che cambierà le nostre società quasi quanto la scoperta del fuoco, quella dell’elettricità o degli antibiotici. 
In un caso come nell’altro, a prescindere da chi abbia ragione, il ruolo della politica sembra marginale. Certo, i partiti resteranno i protagonisti indiscussi dell’attività parlamentare, perché per essere eletti bisogna essere candidati da una qualche formazione che, in fin dei conti, è sempre un partito. Ma le decisioni dei parlamenti sono lente, poco efficaci, lontane e parallele rispetto alle forze che stanno definendo il mondo in cui viviamo. (Stefano Feltri, La politica non serve a niente. Perché non sarà il Palazzo a salvarci, Rizzoli, 2015).


Fino a qualche anno fa i genitori che si preoccupavano per i destini dei loro figli regalavano loro una casa, niente è meglio del mattone. Secondo alcune ricerche, una casa è un investimento che rende in media tra il 3 e il 4,2 per cento, affittandola o risparmiando i soldi di un affitto. Una laurea in una facoltà utile, tipo ingegneria, può rendere tra il 30 e il 69 per cento. Per anni le famiglie italiane hanno potuto permettersi di fare l’investimento sbagliato, quello nel mattone. Ora i genitori che regalano ai figli un appartamento invece che un’istruzione devono sapere che stanno contribuendo a rendere la loro vita difficile. (Stefano Feltri, La politica non serve a niente. Perché non sarà il Palazzo a salvarci, Rizzoli, 2015).
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venerdì 28 agosto 2015

#RITAGLI / Disoccupati, uno studio sui laureati (Stefano Feltri)

Chiara Binelli, economista dell’Università di Southampton, ha sondato 1,238 laureati tra il 2011 e il 2013. La studiosa italiana ha dovuto fermare la ricerca prima del Jobs Act, perché rimasta senza fondi

Basandosi sugli elenchi del consorzio interuniversitario Almalaurea, la professoressa Binelli ha spedito un questionario di 71 domande per raccogliere le classiche informazioni su età, famiglia, status sociale, ricerca del lavoro, ma anche per sondare le aspettative: che vita si aspettano questi giovani disoccupati? Quali attese hanno sul proprio stipendio eventuale futuro? Di solito a questo genere di questionari via email risponde il 10 per cento dei contattati. Alla professoressa Binelli invece l’85 per cento. Una percentuale che lei non aveva mai riscontrato.

“Ho costruito il mio set di dati, perché non esisteva niente di simile”, spiega: 1.238 giovani senza lavoro, laureati tra 2011 e 2013 in una delle 64 università che aderiscono ad Almalaurea. L’indagine si è svolta tra gennaio e febbraio 2015, cioè un attimo prima dell’entrata in vigore del Jobs Act e del contratto a tutele crescenti al posto di quello tradizionale a tempo indeterminato con l’articolo 18 sul reintegro in caso di licenziamento ingiusto. (...)

Che cosa c’è nella testa di questi disoccupati di alta gamma, che dopo almeno 18 anni di studi non riescono a trovare un posto? Il primo pensiero è come sarà il loro stipendio, quando ne avranno uno. Sono pessimisti ma, scopre la professoressa Binelli, hanno ragione a esserlo: si aspettano di trovare lavoro nei prossimi 12 mesi con una probabilità del 44 per cento, le statistiche dimostrano che la percentuale reale media è il 50, che scende al 39 nel Sud. Solo il 17 per cento si aspetta un lavoro a tempo determinato, lo avranno in 21 su 100. Non si attendono un reddito elevato, stimano 1.099 euro lordi mensili (ma solo il 60 per cento è disposto a lavorare per quella cifra). Nei fatti – dati Almalaurea 2013 – ne ottengono un po’ meno, 1.034.

Come incide questo poco allettante futuro sulle scelte di vita dei laureati? Chiara Binelli ha scoperto, con un modello econometrico, che le cicatrici sono profonde. E misurabili: “Un aumento della probabilità di trovare un lavoro con tutele adeguate dal 10 al 50 per cento fa aumentare l’intenzione di avere figli in futuro dal 68 al 71 per cento”. Le conseguenze sono anche sulla società nel suo complesso: se la probabilità di trovare un buon posto (con tutele adeguate) sale dal 10 al 50 per cento fa aumentare la probabilità di essere soddisfatti del “processo politico democratico in Italia” dal 6 al 10 per cento. Tradotto: più resti disoccupato, più diventi pessimista. E più sei pessimista, meno ti interessa la politica, perché sembra non poter cambiare le cose, e meno progetti ambiziosi per il futuro riesci a fare, come costruire una famiglia. (...)

*** Stefano FELTRI, giornalista, Disoccupazione, studio su giovani laureati senza lavoro: “Sono senza soldi, pessimisti e arrabbiati”, blog 'ilfattoquotidiano.it', 27 agosto 2015

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martedì 18 agosto 2015

#RITAGLI / Ancora sullo studiare: per chi, per cosa (Stefano Feltri)

Potrei dedicare molte righe alle repliche arrivate ai miei due post precedenti, (‘Il conto salato degli studi umanistici‘ e ‘Studiate quello che vi pare, ma poi sono fatti vostri‘) a come i paladini del principio “bisogna studiare quello che ci piace e non quello che è utile a trovare lavoro”, commettano grossolani errori nel leggere i dati, sfuggano al problema principale che ho posto (chi ci paga uno stipendio dopo che abbiamo studiato quello che ci piace?) e si rifugino in citazioni autorevoli, perché ovviamente preferiscono il principio di autorità rispetto ad argomenti sostenuti da numeri. E ritengono un grande scandalo, per misteriose ragioni, il fatto che io abbia studiato alla Bocconi.

Ma preferisco aggiungere elementi al dibattito... (...)

Mi sembra che le conclusioni siano evidenti: possiamo crogiolarci nella nostra retorica (anche renziana) di essere il Paese del Rinascimento, la culla della civiltà e di Dante. Ma nella competizione internazionale siamo messi molto male. Molto. E’ chiaro che studiamo le cose sbagliate e, per aggravare la situazione, le studiamo anche male. Prevengo l’obiezione, fondata: se anche studiassimo benissimo le cose che negli altri Paesi ritengono prioritarie, tipo scienze informatiche, probabilmente le imprese italiane non saprebbero che farsene. Vero. Ma da qualche parte bisogna pur provare a rompere il circolo vizioso. Ed è più facile che, se ci sono tanti ingegneri informatici, questi – magari da dentro le imprese – migliorino il mercato del lavoro. Ma formare migliaia e migliaia di scienziati della comunicazione di sicuro non aiuta. (...)

*** Stefano FELTRI, giornalista, Università, gli studi belli ma inutili e l’ascensore sociale bloccato, 'ilfattoquotidiano.it', 17 agosto 2015

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sabato 15 agosto 2015

#RITAGLI / Università: studiare per la carriera o per se stessi? (Stefano Feltri)

Mi pare che l'articolo sollevi un problema sempre aperto e non facilmente risolvibile...
Credo che la domanda meriti di continuare a sollecitare riflessioni: di studenti, di genitori, ma anche di ognuno di noi che, in quanto membro di una società, è chiamato, giustamente, in vario modo, a contribuire al pagamento delle politiche di formazione pubblica. (mf)

° ° °

Viste le reazioni, tra insulti, commenti, condivisioni, al mio post precedente (“Il conto salato degli studi umanistici”) mi sembra che la domanda sia cruciale e meriti un ritorno: all’università bisogna studiare quello che serve a trovare un buon lavoro o quello che piace di più?

Vi riassumo la questione: il centro studi di Bruxelles Ceps ha pubblicato uno studio (che una delle sue autrici, Ilaria Maselli, ci racconterà nel dettaglio su carta nei prossimi giorni) che arriva a queste conclusioni sull’Italia: fatto 100 il valore medio attualizzato di una laurea a cinque anni dalla fine degli studi, per un uomo laureato in Legge o in Economia (o Scienza politiche, che però credo abbassi il valore medio) è 273, ben 398 se in Medicina. Soltanto 55 se studia Fisica oInformatica (le imprese italiane hanno adattato la propria struttura su lavoratori economici e poco qualificati). Se studia Lettere o Storia, il valore è pesantemente negativo, -265. Cioè fare studi umanistici non conviene, è un lusso. Che bisogna potersi permettere. (...) 

Il consorzio Almalaurea ha intervistato nel 2014 i laureati del 2009 per capire come stavano andando le loro carriere. Gli uomini laureati in ingegneria guadagnano 1759 euro, quelli in medicina 1668, quelli in materie scientifiche 1653, chi ha studiato economia e statistica 1602. Quelli che guadagnano meno: chi ha studiato scienze della formazione, 1201, chi ha fatto studi letterari, 1263, chi giuridici, 1305 (ma quest’ultimo dato è poco rilevante: un avvocato o un magistrato inizia davvero la sua carriera quasi due anni dopo la laurea ma poi progredisce molto in fretta nel reddito). Per le donne le differenze sono simili, ma guadagnano sempre circa 200 euro in meno dei maschi.

Più interessante il tasso di disoccupazione, numeri che i tanti che qui nei commenti dicono ai loro ragazzi di studiare solo “quello per cui si sentono portati” dovrebbero tenere bene a mente, magari con qualche senso di colpa. A cinque anni dalla laurea il tasso disoccupazione tra chi ha studiato medicina è 1,5 per cento, tra gli ingegneri il 2,9 per cento ma schizza al 17,3 tra chi ha studiato materie letterarie, al 14,6 per le materie giuridiche (che, di nuovo, meriterebbero una categoria a parte), 13,6 per cento per “geo-biologia”, 12,9 per psicologia, 12,5 per scienze della formazione. Chi studia materie letterarie, quindi ha un tasso di disoccupazione che è quasi il doppio della media, pari a 9,2 per cento. E non stiamo parlando di una disoccupazione immediata, fisiologica, di assestamento, ma a cinque anni dalla laurea. (...)

Nessuno dice che le materie che si studiano nelle facoltà che garantiscono redditi bassi e disoccupazione siano da disprezzare (con qualche eccezione, magari, ma di corsi inutili se ne trovano ovunque). Anzi, spesso sono interessantissime e cruciali per la nostra formazione come individui. Ma quello che forma l’individuo non necessariamente è utile anche a formare un lavoratore.
E’ un diritto – costoso, per la collettività – poter studiare quello che ci piace. Ma nessuno ha il dovere di pagarci per il resto della vita uno stipendio se quello che piace a noi a lui non interessa.

*** Stefano FELTRI, giornalista, Università, studiate quello che vi pare, ma poi sono fatti vostri, blog 'ilfattoquotidiano.it', 14 agosto 2015

LINK, articolo integrale qui