domenica 25 dicembre 2022

sabato 24 dicembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Tre formiche per cinque allievi (Massimo Ferrario)

Era un’estate molto calda e afosa. Il Maestro aveva fatto predisporre, davanti alla cella di ogni allievo, un secchio d’acqua fresca, perché chiunque, la mattina presto, potesse usarla per lavarsi e per bere.
Furono ammessi al convento cinque nuovi discepoli e il Maestro era interessato a capire i tratti principali del carattere di ognuno di loro. 
Per questo, una mattina all’alba, inserì tre formiche in ogni secchio davanti alle stanzette dei nuovi venuti. E a mezzogiorno, a tavola, chiese ad ogni giovane se avesse notato qualcosa davanti alla sua porta.

Il primo scosse il capo: non aveva visto nulla. Aveva attinto acqua dal secchio per lavarsi e per bere: era abbondante e piacevolmente fredda. Gli pareva un’ottima idea e aveva gradito molto. 
Il Maestro pensò che l’allievo avrebbe dovuto lavorare molto su di sé: per imparare a essere presente a sé stesso e a osservare ciò che gli stava attorno. Ad esempio per notare tre formiche in un secchio d’acqua.

Il secondo discepolo chiese qualche secondo per ricordare. Poi annuì: sì, ora che faceva mente locale, aveva visto qualche formica nuotare nel secchio. Non sapeva quante fossero: al momento non ci aveva fatto caso. E comunque non aveva attinto acqua per bere. 
Il Maestro pensò che anche questo allievo avrebbe dovuto migliorare: in questo caso era la sua attenzione ad essere un po’ debole, ma soprattutto avrebbe dovuto riconoscere il sentimento dell’indifferenza alle cose del mondo come suo problema cruciale da risolvere. 

Il terzo discepolo non dovette faticare a ricordare. Certo, c’erano tre formiche che nuotavano nell’acqua: le aveva viste subito, appena stava per attingere acqua per lavarsi il viso. Aveva pensato che il mondo è grande e che  anche le formiche avevano diritto di vivere: probabilmente avevano caldo anche loro e una nuotatina poteva rinfrescarle. Del resto, si sarebbe lavato più tardi, senza disturbare quei tre poveri animaletti.
Il Maestro pensò che questo allievo sapeva praticare la tolleranza: che è un sentimento importante per rispettare gli altri esseri senzienti. Però, forse, avrebbe potuto, e dovuto, fare un salto ulteriore.

Il quarto allievo fu molto sbrigativo nel rispondere: certo che aveva visto le tre formiche. “Erano finite nel mio secchio”, disse. “E mi impedivano di bere l’acqua. Le ho prese tra le dita e lo ho gettate fuori, per terra. Non ho guardato se erano ancora vive: so che le mie dita sono grandi ed è difficile essere delicati con animaletti tanto piccoli.” 
Il Maestro pensò che questo allievo era probabilmente poco adatto ad apprendere ciò che a parole aveva detto di voler apprendere. Gli avrebbe parlato, con comprensione e benevolenza, e forse lui stesso si sarebbe reso conto che la strada scelta, almeno per lui, era sbagliata. 

Il quinto allievo rispose in modo appassionato, mostrando tenerezza per le tre formiche. Le aveva notate subito: si era chinato sull’acqua e le avrebbe accarezzate con dolcezza se solo avesse potuto. Era rimasto a osservare le loro nuotate per qualche minuto: aveva pure parlato con loro e gli era parso che addirittura lo ascoltassero. Poi era entrato nella cella e aveva preso una zolletta di zucchero. Anche se non sapeva di cosa si nutrono le formiche, aveva pensato che un po’ di zucchero non poteva far male e così aveva provato a sciogliere qualche grano dolce nel secchio. Gli era sembrato che le formiche gradissero e aveva avuto la fantasia che addirittura lo ringraziassero. Poi aveva deciso di non disturbarle, toccando il secchio, e di andarsi a lavare attingendo l’acqua alla fonte del convento.
Il Maestro pensò che questo allievo aveva espresso il sentimento dell’amore. Che è quello su cui si costruisce una vita buona e un mondo giusto. Come sa ogni saggio, è una via che non si completa mai, ma questo discepolo l’aveva imboccata. E non limitandosi a pronunciare le solite parole che servono per fare retorica frusta e sdolcinata: ma compiendo un atto preciso, di benevolenza affettuosa, nei confronti di tre formiche. Sì, decisamente un buon inizio. 

*** Massimo FERRARIO, Tre formiche per cinque allievi, per ‘Mixtura’ – Libera riscrittura creativa di un breve racconto di autore ignoto di ispirazione zen


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venerdì 23 dicembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / La pasta frolla della vecchia signora (Massimo Ferrario)

Si sarebbe potuta scattare una foto d’altri tempi. 

La signora, anziana, decorosamente vestita, con il cappellino e la retina, si siede al tavolo di un bar: estrae un ventaglio, col quale si fa aria mentre attende. 
Arriva la cameriera: giovane, dai capelli sbarazzini, gentile nei modi, professionale. Le pone davanti il menù.

La signora anziana la ferma subito.
- Le chiedo un favore, gentile signorina: ho dimenticato a casa gli occhiali. Mi può dire quanto costa una torta panna e cioccolato?

La cameriera le sorride, accogliente: 
- 5 euro, signora. - E aggiunge: - E’ appena fatta e le assicuro che è una bontà.
- Non ne dubito. E’ la mia preferita. Però… 
- Però?
La donna tituba: traspare un certo ritegno. 
- Qualcosa che… costi meno?
- Una pasta frolla: 4 euro.
- Grazie. Mi lasci pensare. Se no prendo un caffè.

La cameriera ha altri tavoli da servire e si allontana.
La signora, per ‘pensare’, apre il borsellino: mette con cura tutte le monete sul tavolino e comincia a contarle. Sono pochissime: da 1 euro, 50, 20, 10, addirittura 5 centesimi. Si capisce subito il totale, ma lei conta con attenzione ogni singola moneta, lentamente, strizzando gli occhi, quasi come a volerli infilare dentro il borsellino. 

La ragazza osserva da lontano. “Sì, una signora d’altri tempi. Ma un po’ tirchia, no?” 
Torna al tavolo.
- Allora, cosa gradisce, signora?
- La pasta frolla, grazie, signorina.

La cameriera si rinforza nella valutazione. “Sì, un po’ tirchia”, pensa. 
E le porta una fetta di pasta frolla.

La vecchia signora, mangiando molto lentamente, si gusta anche i frammenti caduti sul piatto dal cucchiaino. Poi, sempre con calma, dopo aver messo ben in vista i soldi sul tavolino accanto allo scontrino, si alza e lascia il locale.

La cameriera non va subito a ripulire il tavolo. Solo quando lo fa, nota le monete: 3 da 1 euro e il resto in centesimi minuti, per un totale di 5 euro. Controlla lo scontrino: regolare, 4 euro. L’euro in più è la mancia per lei.

Si ritrova con un groppo in gola e si vergogna di se stessa: vorrebbe correre fuori a cercare la signora per ringraziarla, magari pure abbracciarla. Ma la donna è sparita. L’aveva giudicata tirchia. E lei aveva rinunciato alla sua torta preferita per poterle lasciare la mancia. 

“Mai giudicare dalle apparenze”, le ripeteva sempre la nonna. Che peraltro sembrava la copia perfetta di quella vecchia signora col cappellino e la retina. 

*** Massimo FERRARIO, La pasta frolla della vecchia signora, per ‘Mixtura’ – Libera riscrittura di un breve racconto di autore ignoto.


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giovedì 22 dicembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / L'insegnamento dello stregone (Massimo Ferrario)

Falce di Luna era giovane, bella e innamorata del marito. Lui aveva una decina di anni in più ed era rimasto vedovo da qualche mese: la moglie, morta all’improvviso per un male incurabile, gli aveva lasciato una splendida bambina di tre anni, che avevano chiamato Occhi Azzurri. Falce di Luna sarebbe stata la più felice delle donne se fosse riuscita a conquistare l’affetto della piccola. Ma Occhi Azzurri voleva la mamma e rifiutava ostinatamente Falce di Luna: ogni volta che lei si avvicinava, la bimba piangeva, scalciava, strillava.

Falce di Luna si rivolse allo Stregone, chiedendogli una pozione da far bere alla bambina perché accettasse il suo amore. Lo Stregone ascoltò con attenzione.

“Mia cara ragazza, il problema non è Occhi Azzurri: sei tu. Io ti aiuterò a trovare la magia per conquistare la bimba. Ma a una condizione.”
“Quale, Stregone? Farò qualunque cosa.”
“Devi portarmi tre peli dei baffi del Leone che abita la foresta.” 
“Tre peli dei baffi del Leone? Ma è impossibile, Stregone! Come potrò avvicinarmi? Mi divorerà appena mi vede”.

Lo Stregone restò impassibile.
“Io ho parlato, Falce di Luna. Decidi tu. Se vuoi la magia, questo è il compito”.

La donna se ne andò in lacrime e non dormì per tre notti. Voleva bene a Occhi Azzurri e avrebbe fatto qualunque cosa perché la piccola le mostrasse affetto: ma ciò che le chiedeva lo Stregone era un suicidio. 

All’alba del quarto giorno, mentre era seduta fuori dalla tenda a guardare il sole nascente, ebbe l’idea. E partì subito verso la foresta, portando sul capo una grande pentola piena di carne fresca. Giunta al limitare della foresta, pose la pentola a terra e se ne tornò al campo. Il giorno dopo fece lo stesso, spostando la pentola di almeno un miglio verso il punto in cui doveva essere la tana del Leone. Fece così ogni mattina: e ogni volta lasciava la pentola di carne più avanti. Il quinto giorno il Leone, che aveva sentito il profumo della carne sin dalla prima volta ma non aveva osato avvicinarsi, si decise: aveva raggiunto la pentola, l’aveva scoperta e aveva divorato in pochi bocconi tutto il contenuto. 

Trascorse un mese. Il trentunesimo giorno Falce di Luna era arrivata davanti alla tana: aveva depositato la pentola a terra, come sempre, ma per la prima volta non se n’era andata. Stava ritta in piedi, ferma: osservava il Leone senza mostrare paura. L’animale, guardandola, a passi lenti avanzò verso la pentola: la rovesciò e si avventò sulla carne. Poi, fissando Falce di Luna con sguardo che addirittura sembrava riconoscente, ritornò nella tana. 

Passò un’altra settimana. 
Ogni mattina il Leone trovava Falce di Luna e la sua carne davanti alla tana: mangiava mentre la ragazza lo fissava e addirittura gli parlava, sorridendogli.
Il giorno decisivo il Leone finì di mangiare e si leccò i baffi. Fu in quel momento che la ragazza si avvicinò e, sempre sorridendogli, riuscì a strappargli tre peli dei baffi. Il Leone probabilmente se ne accorse, ma lasciò fare. E fu a quel punto che Falce di Luna corse a perdifiato dallo Stregone, mostrandogli i tre peli che aveva appena conquistato. 

“Ecco, Stregone: ce l’ho fatta, ce l’ho fatta! Ho i tre peli dei baffi del Leone! Adesso puoi fare la magia perché Occhi Azzurri mi voglia bene.”
Lo Stregone non fu stupito: era sicuro che la ragazza avrebbe assolto il compito, tanto era l’amore che aveva per la piccola. 
“Mi chiedi la magia, Falce di Luna? L’hai appena fatta tu. Hai i tre peli dei baffi del Leone. Io non servo”.
“Come non servi, Stregone? Mi avevi fatto una promessa precisa: allora mi hai ingannata. Ho rischiato la vita per nulla: sei un impostore, Stregone”.

Lo Stregone attese che Falce di Luna esaurisse le sue lacrime e la sua rabbia.
“Non ti ho ingannato, Falce di Luna. Non ti posso fare la magia perché l’hai già fatta tu: hai fatto ciò che ritenevi impossibile e questo solo per amore di Occhi Azzurri. Se hai saputo rischiare la vita con il Leone della foresta, puoi fare lo stesso, senza rischiare la vita, con la piccola Occhi Azzurri. E’ semplice: hai mostrato pazienza e costanza, avvicinandoti progressivamente al Leone. Se hai conquistato l’amicizia del re delle belve, conquisterai pure l’affetto di Occhi Azzurri. Ricorda: piccoli passi continui e occhi caldi di chi ama. E ti farai amare.” 

*** Massimo FERRARIO, L’insegnamento dello stregone, per ‘Mixtura’ – Libera riscrittura di una antica favola, probabilmente etiope, diffusa in più siti online.

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domenica 18 dicembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / L'Albero Magico (Massimo Ferrario)

C'erano una volta due fratelli che vivevano ai margini della foresta. 

Il fratello maggiore non amava il fratello minore. Avrebbero dovuto condividere tutto in armonia, perché ambedue erano sani, forti e vigorosi, e con il lavoro di taglialegna che entrambi facevano guadagnavano quanto bastava per vivere senza che mancasse loro nulla. Ma il fratello maggiore, un po’ perché era disordinato e molto perché pensava solo a sé stesso, era abituato a prendersi sempre sempre tutto il cibo che c’era in casa. E non solo: quando riteneva che i vestiti del fratello fossero più belli dei suoi, li indossava senza alcuna remora, approfittando della pazienza e del buon cuore del fratellino che faceva finta di nulla, accettando le sue prepotenze per quieto vivere.

Un giorno il fratello maggiore si recò nella foresta in cerca di legna da ardere: a fine settimana si sarebbe tenuto mercato al villaggio vicino e lui voleva essere uno dei venditori con la legna più abbondante e migliore. 
Procedeva per il sentiero ai margini del bosco e quando vedeva un albero che prometteva legna di qualità, si fermava, tagliava i rami più pregiati e caricava tutto sul carro. 

Ad un certo punto vide un albero che non aveva mai notato. Era alto, imponente, superbo. Afferrò l’ascia e stava per abbatterla sui primi rami quando fece un salto indietro. 
“Oh, gentile signore”, sentì una voce. “Risparmiami. Io non sono un albero qualunque: sono l’Albero Magico. Se mi risparmi, ti regalerò una delle mie mele d’oro”. 

Il taglialegna si pulì le orecchie. Forse aveva avuto un’allucinazione: un albero parlante? Impossibile. 
Il melo tranquillizzò il giovane. 
“Hai sentito bene. Sono io che ti ho parlato, non hai sognato. E la mela che ti regalerò, se mi risparmierai, è vera come questa che vedi sul mio ramo”.
Così dicendo, la pianta chinò un suo ramo verso il giovane. Vi era appesa, in bella vista, una grossa mela d’oro.
“E’ tua, mio giovane. Se lascerai intatti tutti i miei rami.”

Il fratello afferrò la mela d’oro: la osservò con attenzione. Aveva dimensioni superiori ad una mela comune ed era di oro purissimo. Guardò meglio l’albero. E vide che su ogni ramo erano appese decine di mele d’oro, di diverse dimensioni, alcune ancora più grandi di quella che aveva in mano.

Sopraffatto dall’avidità, il giovane minacciò l’Albero Magico di tagliare ogni ramo se ogni ramo non si fosse chinato verso di lui e gli avesse offerto tutte le mele d’oro che portava appese. 

Fu un attimo. Il melo avvolse stretto, con tutti i suoi rami, il giovane. Le mele d’oro erano sparite e le foglie, che pure accompagnavano con il loro verde tenero l’oro luccicante delle mele, si erano trasformate di colpo in una infinità di minuscoli aculei, duri come l’acciaio e pungenti come il vetro. 
Il taglialegna fu trafitto da mille aghi che gli si conficcarono nella carne, dopo aver bucato i panni del vestito. Il giovane cadde a terra, divincolandosi e piangendo per il dolore. Ma più si rotolava e più gli aghi gli entravano nella pelle. 

E intanto il sole tramontava.
Il fratello minore era rientrato a casa, stanco perché anche lui aveva raccolto una grande quantità di legna. 
Dopo cena, si preoccupò: il fratello maggiore non era ancora giunto a casa. Evidentemente doveva essergli accaduto qualcosa. 
E andò a cercarlo. 

La luna piena inondava di luce il bosco e lui sapeva in quale zona in genere andava il fratello a fare legna. 
Quando lo trovò e lo vide, accasciato a terra dolorante, con tutti quegli aghi ficcati nel corpo, si precipitò a toglierglieli uno ad uno. Ci riuscì, dopo almeno un’ora e usando una pazienza infinita. 
Il fratello maggiore raccontò la sua disavventura. 

Ammise di essere stato avido con l’Albero Magico e riconobbe di avere spesso comportamenti cattivi con il fratello minore. Chiese perdono sia all’albero, inchinandosi,  che al fratello, abbracciandolo. 
Stavano incamminandosi verso casa, quando ambedue, prima di lasciare l’Albero Magico, sentirono due colpi secchi e precisi sulle spalle: ad ognuno era caduta una mela d’oro. 
Il melo li salutava così, anche facendo capire di aver apprezzato la confessione e le scuse del taglialegna.

*** Massimo FERRARIO, L’Albero Magico, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura creativa di un breve racconto tratto da Shannon Serpette, scrittrice ed editor statunitense, The Needle Tree, da 20 Good Short Moral Storie for Kids, in ‘momlovesbest.com’, 1 febbraio 2021


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#SGUARDI POIETICI / La bimba fiorita (Vivian Lamarque)

Nuovi inquilini nella casa di fronte:
invece di visi seri voci luminose
e una squillante: è una bimbetta
cingalese,
saltella con grazia reggendo
due lembi della fiorita vestina nuova
come per una danza a corte, è invece
solo un bilocale a pianterreno
con esiguo balcone. Nonno e padre
hanno imbiancato muri fino a ieri
grigi, una mamma e una zia tentato
la rianimazione di piantine da tempo senz’acqua.
Forse ne spunteranno fuori
fiori come quelli della fiorita vestina
di questa nuova bambina.

*** Vivian LAMARQUE, 1946, giornalista, scrittrice e poetessa, La bimba fiorita, inedito per 'Corriere della Sera', in Un libro per Natale: racconti, graphic-novel e saggi. Perché leggere è un regalo, di A. Carioti,L. Mastrantonio, D. Monti, C. Taglietti, 'Sette', 17 dicembre 2022, qui

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sabato 17 dicembre 2022

#INEDITI / Si può solo scriverne (Massimiliano Caccamo)

Si può solo scriverne.
 
Questo era il pensiero che mi era venuto uscendo dal CUP dell’Ospedale di Rho, dove mi ero recato a prenotare le analisi del sangue. All’interno dello stanzone affollato e insolita-mente caldo (visto che tutti gli ambienti pubblici e privati avrebbero dovuto subire la riduzione delle temperature causa razionamenti nelle forniture del gas) tutto sembrava un flusso disordinato di facce e di storie. La maggior parte di queste facce entravano senza mascherina e dovevano essere riportate all’ordine dall’infermiera di turno, molti non si raccapezzavano col display delle accettazioni (“Questo è nuovo, l’han fatto più piccolo così non si vede niente”). I più fragili, supportati da altri meno fragili ma pur sempre fragili anch’essi, dovevano alzarsi per controllare ogni qualvolta si sentiva il segnale sonoro di una chiamata. E poi, disillusi, riprecipitavano sulle loro sedie sperando nella chiamata successiva. 
All’accettazione la giovane multitasker sorridente prendeva i documenti, parlava di figlie con la collega di fianco (“a dodici anni sono giù adulte, devi rapportarti con loro come a un adulto…”) e rispondeva in simultanea a un flusso continuo di messaggi whatsapp. Poi, mentre le mani viaggiavano alla velocità della luce sulla tastiera del pc, alzava un attimo lo sguardo e sembrava accorgersi dell’utente per la prima volta. 

“Stasera danno Superman in tv, il mio film preferito da bambina”. “Io preferivo Batman” risponde la collega di fianco e poi entrambe mi guardano all’unisono negli occhi con fare interrogativo. “In quegli anni io leggevo Tex Willer”. Un attimo di incredulità e poi si distendono in un sorriso quasi sincronizzato. “Mio marito leggeva Tex Willer”. “Un grande suo marito” avevo replicato. 

Nel frattempo era arrivata la documentazione che attendevo con impazienza. Con quella potevo finalmente andarmene da quella specie di caverna platonica del nuovo millennio fendendo la massa di persone indistinta in attesa. Oltre a tutto il resto (l’attesa, il caldo, l’affollamento, la mascherina…) anche il frastuono cominciava ad essere insopportabile. 

Poco prima che guadagnassi l’uscita mi era caduto l’occhio su un’anziana donna ben vestita, in piedi in un angolo. La sua presenza era come un pugno nello stomaco. In lei tutto sembrava al suo posto, le mani, il volto, la borsa, la sciarpa. Solo gli occhi raccontavano la sua sofferenza. All’improvviso si portò la mano alla bocca ed emise tre colpi di tosse. Si fece un attimo di silenzio in sala. O almeno così parve a me. Era come se i tre colpi di tosse avessero riportato l’ordine. Di più, era come se avessero rievocato, dalle viscere della storia, l’origine di un bisogno profondo, archetipico. Mentre uscivo ebbi la sensazione di capire tante cose insieme. Ma l’unica che mi è rimasta veramente impressa è che quei colpi di tosse non potevano che essere tre. Non uno di più, non uno di meno. 

Come dicevo all’inizio: si può solo scriverne. 

*** Massimiliano CACCAMO, 1954, consulente di sviluppo organizzativo, formatore, saggista, scrittore, Si può solo scriverne   


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giovedì 15 dicembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Benvenuto tra i guerrieri (Massimo Ferrario)

Il Grande Capo Alba Rossa e il Consiglio dei Saggi avevano deciso: i sette giovani indiani della tribù avrebbero dovuto trovare, rigorosamente nel tempo di una mattinata, la penna dell’Aquila Nera nascosta sulla montagna al di là del Lago d’Argento. Era la prova che quell’anno gli Anziani avevano individuato per segnare il passaggio allo stato di adulti dei sette giovani del campo. All’alba della mattina seguente i ragazzi sarebbero partiti con quattro canoe: avrebbero attraversato il lago e avrebbero perlustrato la montagna in lungo e in largo, seguendo i numerosi segnali disseminati nei boschi. La conquista della penna dell’Aquila Nera era indispensabile per essere ammessi tra i guerrieri della tribù. 

I sette giovani, per l’eccitazione, non dormono la notte. E alla mattina sono pronti ai remi delle canoe. 

E’ in quel momento che arriva Cavallo Zoppo, del villaggio dei Giovani Bisonti: è vecchio, fatica a reggersi sulle gambe e trascina uno zaino di pelli.

Vede i ragazzi che stanno per avviare le canoe e li supplica: “Ragazzi, è il dio dei vecchi che vi manda. Ho bisogno del vostro aiuto. Ho cacciato tutto ieri e devo raggiungere il villaggio là a est, dall’altra parte del Lago d’Argento. A piedi dovrei fare ancora parecchie miglia, costeggiando il lago. Ma se qualcuno di voi mi desse un passaggio in canoa, eviterei il cammino di una giornata.” 

I sette giovani si guardano in faccia. La loro educazione li ha abituati a rispettare gli anziani, ma accontentare Cavallo Zoppo significa ritardare la prova. E sanno che il Consiglio dei Saggi non ammette scuse: al culmine del sole i giovani dovevano presentarsi al campo con o senza la penna dell’Aquila Nera. Uno dopo l’altro, quindi, sia pure usando le parole più cortesi, rifiutano, spiegando che hanno un compito importante da assolvere: certo, anche loro dovevano attraversare il lago, ma il villaggio di Cavallo Zoppo non si trovava davanti a loro e la deviazione a est avrebbe impedito di portare a termine la prova nei tempi previsti. 

Il vecchio indiano mostra delusione, ma non osa insistere e si incammina lentamente con il suo zaino, lungo il sentiero che costeggia il lago. 

Nuvola Bianca però non è convinto della decisione dei compagni e decide di dissociarsi dal gruppo.

“Vieni, Cavallo Zoppo: ti porto io. I miei sei compagni hanno tre canoe, sufficienti per loro. Io, con la mia, allungherò la strada, ma la prova può attendere. Se non sarò io a trovare la penna dell’Aquila Nera, la troverà qualcun altro. Rispondere a chi ha bisogno è più importante”.

Il vecchio indiano sale sulla canoa di Nuvola Bianca e il ragazzo inizia a vogare con forza e regolarità, in direzione del villaggio di Cavallo Zoppo, che lo guardava di sottecchi, felice. Trascorrono almeno due ore, durante le quali più volte Nuvola Bianca, ripensando ai compagni che già avevano raggiunto il bosco e iniziavano la caccia alla penna dell’Aquila Nera, si chiedeva se davvero avesse fatto bene a soddisfare il bisogno del vecchio. Ma poi scrollava le spalle, cacciava i dubbi e riconfermava, tutto contento, la scelta. 

La canoa arriva al villaggio di Cavallo Zoppo. Ed è qui che il vecchio, prima di scendere, chiede a Nuvola Bianca di aprire la mano: ha da consegnargli una cosa preziosa, con la quale avrebbe dovuto subito far ritorno al campo, presentandosi al Consiglio dei Saggi.

Nuvola Bianca si guarda il palmo della mano: e ovviamente vede la penna dell’Aquila Nera. Subito fissa in faccia Cavallo Zoppo, con gli occhi che sono insieme due punti interrogativi e due punti esclamativi. 

“Ieri sera,” spiega il vecchio “Alba Rossa, il capo del tuo villaggio, mi ha chiesto se stamattina presto avrei potuto trovarmi sulla riva del Lago d’Argento per chiedere a voi sette di portarmi al mio campo sull’altra sponda. A chi l’avesse fatto, avrei dovuto consegnare la penna dell’Aquila Nera. Tutto qui”.

La sera davanti al Consiglio dei Saggi è festa grande. 

Nuvola Bianca è pubblicamente elogiato: tutti applaudono. 

“Meriti la penna d’oro – dice il grande Capo Alba Rossa - perché hai mostrato generosità. Era questa la vera prova e tu l’hai superata. Il guerriero sa combattere in battaglia, ma la battaglia più dura è quella che si vince con se stessi: quando si sa contenere il proprio io, che mira ad affermarsi sempre e comunque, e si sa privilegiare la solidarietà, la disponibilità all’aiuto e la benevolenza verso gli altri. Non sono parole: sono fatti. E tu questo hai fatto, Nuvola Bianca: benvenuto tra i guerrieri.”

*** Massimo FERRARIO, Benvenuto tra i guerrieri, per ‘Mixtura’ – Libera riscrittura di un breve racconto di autore ignoto.


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mercoledì 14 dicembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Un divorzio che faccia male (Massimo Ferrario)

Non si contavano più i litigi, le cattive parole, le minacce. Nessuna violenza fisica, per fortuna. Ma la violenza verbale aveva raggiunto il massimo. Da ambo le parti, peraltro: lei contro lui e lui contro lei. 
Pensare che solo cinque anni prima erano convinti di aver conquistato, insieme, il paradiso. Guardavano le altre coppie, con i loro alti e bassi. E non capivano: avevano solo alti, loro, e nessun basso… Invece: altro che paradiso: ormai erano precipitati all’inferno. E c’era un’unica uscita. Dolorosa, ma sempre migliore dello stato attuale. Chiudere il rapporto.

“Ricordati, cara: fallo civilmente”, dicevano a lei le amiche. “L’odio si paga: anche senza ricorrere alla credenza del karma, che sostiene che l’odio torna indietro a chi odia, mantenere buone relazioni anche quando si decide di romperle è cosa utile a tutti.”

Lei, sorrideva: fingeva di ascoltare, ma aveva già deciso. 
Lo disse all’avvocato: 
“Voglio divorziare, avvocato. Ma non solo: voglio fare tutto il male possibile a mio marito. Voglio ridurlo sul lastrico. Lei scelga il comportamento giuridico che più garantisca questo trattamento. E mi suggerisca cosa fare, nei rapporti con lui, prima del divorzio: come mi debbo relazionare finché non riusciremo a sbatterlo fuori di casa”.

L’avvocato capì che non c’erano modi per ricomporre una relazione ormai incandescente: la signora grondava odio da ogni parola. E i suoi occhi, inequivocabilmente, fiammeggiavano, come impersonasse la dea vendetta in persona. 
“Davvero vuole rompere il rapporto facendo a suo marito un male che non potrà mai dimenticare?” 
La donna annuì, decisa: “In questo caso le assicuro una parcella maggiorata”.

L’avvocato lasciò trascorrere alcuni secondi, come per dare maggior peso a quanto si accingeva a consigliare. Poi sentenziò:
“D’accordo. Segua esattamente quanto le dico. Ora torni a casa e cominci a subissare suo marito di lodi. Gli confessi tutto il suo amore: sussurrandogli emozioni e sentimenti che mai gli aveva sussurrato. Esibisca una passione incontenibile. Si dica disponibile a fare sesso ogni notte più volte, come mai aveva fatto in passato. Nei momenti di massimo trasporto, si inginocchi davanti a suo marito e gli ripeta che lei vuole essere sua e solo sua per sempre. 

La signora strabuzzò gli occhi.
“Cosa devo fare? Ma sta scherzando? Dopo tutto quello che gli ho detto in questi ultimi mesi? E poi, perché questa sceneggiata?”
“Quando suo marito si sarà convinto del suo amore irresistibile e lei sarà diventata indispensabile per lui, daremo inizio all’azione legale. Lei gli avrà fatto toccare il paradiso, superando addirittura lo stato di felicità che avevate raggiunto i primi anni di vita in comune. Poi, di colpo, gli toglierà tutto: con un calcio lo getterà nell’inferno più profondo. E’ il modo sicuro per provocargli il maggior dolore possibile.” 

La donna assentì: le brillavano gli occhi pensando al finale. 

Passarono alcuni mesi. 
Un giorno, l’avvocato, riguardando in agenda i contatti con i clienti, notò per caso il nome della signora: non si era fatta più viva. Incuriosito, le telefonò: giusto per sapere se i consigli avevano avuto effetto.
“Buon giorno, signora, mi è capitato sotto gli occhi il suo nome in agenda. Non l’ho più sentita. Quando vuole, se le cose sono andate come prevedevamo, possiamo dare inizio alle pratiche per il divorzio”.
“Divorzio?”
“Già. Mi pare fosse questo che lei voleva. E’ cambiato qualcosa?”
La signora scoppiò in una risata cristallina.
“Mi ha preceduto: l’avrei chiamata io in settimana. Mi mandi la parcella per l’appuntamento di tre mesi fa: i suoi consigli sono stati preziosi. Ma, per la verità, non per il divorzio. Io e mio marito ci siamo innamorati di nuovo, come due piccioncini: le dirò, se potessimo, riandremmo dal sindaco per risposarci un’altra volta”.

*** Massimo FERRARIO, Un divorzio che faccia male, per ‘Mixtura’ – Libera riscrittura di un breve racconto di autore ignoto.


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martedì 13 dicembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Natale, non c'è amore lì dentro (Massimo Ferrario)

Pomeriggio. Nevischia. E’ la vigilia di Natale. 
Il vecchio signore spera che passino presto sia la vigilia che il Natale. 

E’ solo. Barricato in salotto, vicino alla stufa. Ha appena mangiato: brodino, una fettina di arrosto, un bicchiere di vino rosso. Domani, si concederà un piatto di tortellini, un po’ di tacchino, una bella fetta di panettone, un bicchiere di spumante. Gli faranno compagnia i libri: pregusta già la lettura di un grosso volume di racconti gialli, tutti ambientati nel periodo delle festività natalizie, che si è tenuto da parte proprio per la giornata del 25 dicembre. 

Ha sempre freddo: come capita a chi naviga verso gli ottanta. Le ossa, dicono. Forse, in questo caso, anche l’anima. Perché legna e carbone non mancano e la stanza ha un dolce tepore che dovrebbe coccolare e stimolare il pisolino. 

Squilla il campanello. 
Il vecchio signore immagina già chi può essere e ha un moto di fastidio. Poggia il giornale che sta leggendo e si trascina fino alla porta. Guarda dallo spioncino. Sì, è lui: come ogni anno. Anche se è un giovane mai visto.
“Sono il postino. C’è un pacco per lei.”

E’ il solito pacco. Magnifico. Carta preziosa, decorazioni che inneggiano alle feste, nastri dorati che cadono dappertutto. Lo accompagna il bigliettino con la firma ben nota.

Il vecchio signore, un po’ irritato, ringrazia, recupera nel portafoglio una mancia abbondante e fa gli auguri al postino.
“Anche a lei, signore. E’ un bel pacco: chissà che cose belle ci sono dentro…!”
Il vecchio signore scuote la testa. 
“Può darsi. Ogni anno è così, ma non so cosa c’è dentro.”
“Be’, lo saprà tra poco: quando lo scarterà.”
“Non accadrà, caro giovane. Sono anni che ricevo questi pacchi: li dono alla parrocchia a condizione di non sapere cosa ci sia dentro. Tanto lo so già: non c’è amore lì dentro.”
“Non c’è amore qui dentro?”
“Già. I pacchi di auguri sono auguri se c’è amore dentro. Se no sono pacchi e basta: nel senso di imbrogli. Lì dentro non c’è amore.”
“Ma come fa a dirlo?”
“So da chi arrivano. Una persona che non si fa viva da anni: mai una telefonata, mai una visita. Si limita a mandare questi pacchi a Natale con un bigliettino copia-e-incolla dell’anno precedente. Non è una persona ‘qualunque’: ha deciso di diventarlo. Rompendo un legame. Forte. Scelta legittima, ben inteso: se è questo ciò che ha sentito di dover fare. Però evidentemente non sa resistere al rito delle feste. Dunque, è forma. Diciamo pure ipocrisia. No, non c’è amore lì dentro. Del resto, siamo a Natale: sia sincero, secondo lei, quanti sono gli auguri che hanno l’amore dentro?”. 

*** Massimo FERRARIO, Natale, non c’è amore lì dentro, per ‘Mixtura’ – Libera riscrittura di un breve testo di autore anonimo.


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lunedì 12 dicembre 2022

#SGUARDI POIETICI / Contro i Buoni Sentimenti (Massimo Ferrario)

All'approssimarsi delle festività di fine anno
si sente l'incessante e immancabile scampanìo 
dei Buoni Sentimenti:
facili e fatui, perché di nessun costo.

Sarebbe ora di contenere
la gratuita e sdolcinata retorica ripetitiva
sull’Amore 
e anche di moderare le promesse rituali 
- apparentemente meno impegnative,
ma altrettanto futili – 
sul Volersi Bene.

Basterebbe, ogni tanto, 
propiziare la grazia di un moto di 
reciproca empatia: 
‘io mi metto nei tuoi panni e tu nei miei’. 

Basterebbe, ogni tanto, 
deporre le distanze e finalmente 
davvero vederci e ‘sentirci’: 
diversi e uguali quali siamo, 
ci scopriremmo 
uguali e diversi quali siamo. 

E sarebbe già miracolo 
‘ritrovarsi’ e ‘com-prendersi’ 
un po' di più. 

Non si tratta di abbracciare il mondo
con mozioni di stucchevole Amore 
e parole di sterile Pace,
disturbando le solite maiuscole che muovono aria inutile: 
servirebbe piuttosto che ci adoperassimo 
per rendere prossimo il prossimo
e vivere più comune il destino che ci diamo. 
Più umano, soprattutto.

*** Massimo Ferrario, Contro i Buoni Sentimenti, per 'Mixtura'


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sabato 10 dicembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Il masso sulla strada (Massimo Ferrario)

Di punto in bianco, la strada principale che portava alla capitale del regno era ostruita da un grande masso.
Cos’era successo? Chi l’aveva bloccata?

Era una grande via sterrata che procedeva in piano: impossibile pensare che il macigno fosse rotolato giù da una montagna. 
No, era stato portato lì apposta. Nella notte. Ma perché?

All’alba, i mercanti che con i loro carri si apprestavano a entrare in città per il mercato, protestarono: era colpa del re, che non esigeva dalla sua amministrazione il controllo del territorio. Le strade andavano tenute pulite. 
Con una petizione tra tutti i sudditi avrebbero minacciato di non pagare più le tasse. 

Al punto di blocco arrivarono due carri, guidati da due contadini della zona. Anche loro dovevano andare al mercato, portando frutta e verdura da vendere. 
I mercanti li attorniarono, cercando di coinvolgerli nella protesta.
Loro assentirono: 
“Avete ragione: il re non fa il suo mestiere. E soprattutto non lo fanno i suoi funzionari. Saremo con voi nel decidere lo sciopero delle tasse.”

I mercanti se ne andarono, furenti. 

I due contadini restarono a osservare il masso che impediva loro di passare. Poi si guardarono in faccia e all’unisono decisero. 
Legarono il masso ai due carri con una corda di grandi dimensioni. E provarono a incitare i cavalli perché tirassero insieme con forza. Provarono più volte. Il masso sembrava resistere. Poi, all’ultimo disperato tentativo, i cavalli ce la fecero: e il grande sasso rotolò nel fosso a fianco della strada.

Sulla strada era rimasta una pergamena: evidentemente era stata nascosta sotto il masso.
I contadini si avvicinarono. Accanto alla pergamena, un sacchetto di velluto verde. 

Quello dei due che sapeva leggere, lesse: 
“Le 100 monete d’oro del sacchetto sono per chi rimuoverà il masso. Firmato: sua Maestà il Re.”
Poi il contadino, sempre più stupito, si chinò e aprì il sacchetto.
“Guarda, è tutto vero! Siamo ricchi. Ma cosa abbiamo fatto per meritarci tutte queste monete?”.

Il contadino analfabeta voltò la pergamena, cercando di capire se c’era altro che spiegasse la cosa. E infatti, nella facciata posteriore, c’era una scritta. 
Diede la pergamena all’amico letterato. 

Che riprese a leggere: 
“Il Re ha voluto mettere alla prova i suoi sudditi. Per vedere, se oltre a protestare, com’è giusto che sia, quando le cose del regno non vanno come dovrebbero andare – e il Re è consapevole che ne è sempre responsabile – c’è anche chi sa e vuole darsi da fare per risolvere i problemi nell’immediato, quando si verificano. Perché è dovere delle Superiori Autorità rimuovere i sassi e ognuno deve impegnarsi, anche con giuste proteste, perché le Superiori Autorità adempiano al loro dovere, ma questo non toglie che ognuno, quando può farlo direttamente, rimuova lui stesso i sassi che incontra sulla strada”. 

*** Massimo FERRARIO, Il masso sulla strada, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura di un testo di spirito orientale di autore anonimo.


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giovedì 8 dicembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Non solo cameriera (Massimo Ferrario)

Mezzogiorno di sabato in un piccolo paese di campagna. Tavolo in angolo di un vecchia trattoria, rinomata per la buona cucina e il servizio accogliente. La mamma e il bambino di 8 anni stanno per ordinare. 
La cameriera si avvicina. Chiede alla madre.
“Ha trovato qualcosa di suo gusto, signora?”
“Per me un brasato con polenta, grazie”. 
Il bambino ha voluto il menù: ha imparato a leggere da più di un anno e vuole far vedere che anche lui sceglie come un grande. Però non ha bisogno di leggere. Sa già ciò che vuole: è il suo piatto preferito. 
“E tu?”, chiede la cameriera.
“Un hamburger. Col ketchup. E tante patatine fritte, grazie.”
La mamma interviene brutalmente: fa capire che non ammette discussioni. 
“No, a lui porti una frittata. Con un contorno di verdure: cotte o crude, ma verdure”. 
La cameriera si blocca. Guarda alternativamente la mamma e il bambino: non sa che fare. 
Il bambino sbuffa: non sembra tipo da capricci e forse la frittata gli piace pure. Come tutti i bambini ama l’hamburger. Ma probabilmente il punto in questo momento non è né la frittata né l’hamburger. 
La mamma non vuole tergiversare. Cerca di essere dolce, ma ribadisce: con nettezza e in modo definitivo. 
“Frittata, signorina. Gli porti la frittata. Per lui decido io.”
La cameriera sorride. Fissa il bambino, con una lacrima che sta per scendergli. Si lascia coinvolgere.
“Posso sapere il tuo nome?”
Lui risponde impettito. 
“Leo.”
“Posso dirti una cosa, Leo?”
“Certo.”
“Sono una mamma anch’io. E tu mi sei simpatico: ti voglio dire quello che penso, perché mi sembri un bambino già grande, maturo, capace di capire e ragionare. Vedi, io credo che i bambini non hanno diritto di scegliere al ristorante ciò che vogliono: perché sono le mamme che conoscono le diete e ciò che fa più bene per loro. Quindi io non posso portarti l’hamburger, se la mamma non vuole. Tu, come ogni bambino, hai però diritto di essere preso in considerazione: i tuoi desideri contano e devono essere discussi. E questo tutte le mamma lo sanno fare. Ritorno tra un attimo: così tu e la mamma decidete con calma.”
Trascorre qualche minuto e la cameriera torna al tavolo. 
“Allora, cosa posso portare a questo bel bambino che si chiama Leo?”
La mamma ha il viso rilassato e fa cenno al ragazzino di ordinare.
“D’accordo per la frittata. La mamma dice che sto mangiando troppa carne e non mi fa bene. Ha ragione, anche se mi spiace rinunciare all’hamburger. Però c’è una cosa che volevo dire.”
La cameriera, incuriosita, guarda la madre: alla quale si è increspato un sorriso sulle labbra. 
“Dice che glielo vuole dire.”
“Dimmi, allora, Leo. È una cosa brutta che mi riguarda?”
“No, affatto, anzi. Volevo dire che tu mi piaci”. 
“Ti piaccio? E posso sapere perché ti piaccio?”
“Perché hai detto che noi bambini abbiamo il diritto di essere presi in considerazione. E l’hai detto a me e alla mamma insieme.” 
La cameriera sposta lo sguardo sulla signora. È un sussurro, ma lei ha un orecchio fine e il suo grazie lo sente benissimo. 
Quel sabato la cameriera sa di non aver fatto solo la cameriera.

*** Massimo FERRARIO, Non solo cameriera, per ‘Mixtura’ – Rielaborazione creativa di un breve racconto di autore ignoto.


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mercoledì 7 dicembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Il pio allevatore di cammelli (Massimo Ferrario)

Un allevatore di cammelli, che era molto pio, chiese e ottenne un appuntamento dal Grande Maestro Sufi, che gli disse di presentarsi da lui il giorno seguente all’alba.

Così avvenne: l’uomo fu puntuale, anche se non capì lo strano orario.

 - Desidero diventare vostro allievo, Maestro. Mi chiamo Amir e sono il più rinomato allevatore di cammelli della città: li curo personalmente e non gli faccio mai mancare nulla. Passo la mia vita con loro. Ma tutti conoscono anche il mio spirito religioso. Se mi accogliete come allievo, imparerò ad essere ancora più fermo nella mia fede e a rendere grazie a Dio.

Il Maestro non rispose. Lo fece sedere in un angolo mentre continuava a svolgere le sue faccende nella stessa stanza.
Passò la mattina e il sole si levò alto nel cielo.
Solo allora l’allevatore, timidamente, tossicchiò, come per segnalare con educazione la sua presenza.

Il Maestro smise di consultare le sue carte.
- Dunque, Amir, siete qui da stamattina alle prime luci dell’alba. Immagino che i vostri cammelli vi attendano.
- Infatti, Maestro. Appena rientro li accudirò come ogni mattina.

Il Maestro lasciò trascorrere qualche secondo di silenzio, sospirando. Poi guardò negli occhi il cammelliere:
- Vi accetto, Amir, ma a una condizione. Che siate capace di individuare un vostro grave difetto e vi impegniate a liberarvene. 

L’allevatore trascorse una settimana a pensare ad un possibile suo grave difetto, ma non arrivò a capo di nulla.
Tornò dal Maestro. Che, anche stavolta, lo ricevette all’alba e lo lasciò seduto in attesa per tutta la mattina. 

Solo a mezzogiorno, il Maestro sollevò il capo dalla lettura dei libri sacri, uscì dal suo studio e si diresse da Amir che attendeva paziente su una sedia.
- Ma voi, la mattina, non avete impegni particolari da assolvere? 
Il pio allevatore, mentre sgranava in silenzio il rosario, rispose con sicurezza. 
- Certo. Ogni mattina devo fare molte cose. Ma ora la cosa più importante è stare qui con voi. E attendere la vostra risposta.

Il Maestro annuì e, senza proferire parola, rientrò nello studio, lasciando l’allevatore da solo per un’altra ora. 
Soltanto alla una il Maestro decise di affrontare il cammelliere.
- Amir, siete qui dalle prime luci del giorno. Credo che forse ora dobbiate andarvene, se non volete far soffrire chi vi attende. Prima però immagino vogliate sapere se vi accolgo come allievo. Avete individuato il vostro difetto principale? 
- No, Maestro. Anche per questo ho bisogno del vostro aiuto.
- Allora vi chiedo: qual è la prima cosa che fate ogni giorno quando vi svegliate?
Il pio allevatore aveva la risposta pronta.
- Sono il primo a entrare in moschea per pregare.
- E poi?
- Poi vado a riempire le vasche d'acqua per i cammelli: do loro da bere e mi preoccupo che abbiano da mangiare, li striglio, li lavo, controllo che stiano bene e se no intervengo con medicamenti e cure amorevoli.

Il Maestro sorrise.
- Ecco: è questo il vostro difetto grave. Prima dovreste pensare ai cammelli e solo dopo, quando loro sono accuditi e in pace, dovreste andare a pregare in moschea. Quando avrete capito cosa è la preghiera, vi rivedrò volentieri. 

*** Massimo FERRARIO, Il pio allevatore di cammelli, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura di un testo di spirito sufi di autore anonimo.


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lunedì 5 dicembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / In modo diverso (Massimo Ferrario)

L’Imperatore si era svegliato urlando. 
«Subito, subito, voglio qui l’Esperto di Sogni: ho bisogno di sapere».

Il primo cameriere passò l’ordine al secondo cameriere. Che corse a cercare l’Esperto in ogni stanza del grande palazzo. 
Poiché non si sapeva dove fosse, l’Imperatore diede in escandescenze, minacciando tutti di morte. 

Finalmente l’Esperto fu trovato e si precipitò al cospetto dell’Imperatore. Era giovane, di poche parole, abituato alla franchezza.
L’Imperatore appariva prostrato: divorato dall’angoscia.
- Un  sogno terribile, ragazzo. Cercavo di mangiare e non ci riuscivo. Avevo perso tutti i denti. Cosa significa?
L’Esperto sospirò. 
- Maestà, temo significhi molte disgrazie in arrivo. Ogni dente caduto è la morte di un familiare a voi caro. 
L’Imperatore rimase attonito. Poi si riebbe. Urlò con tutto il fiato che riuscì a trovare.
- Non è possibile. Mi raccontate fandonie al solo fine di spaventarmi. Siete licenziato: non voglio più vedervi a corte. 

Il Grande Maresciallo di Palazzo fu incaricato di cercare subito un secondo esperto. 
Ma a Palazzo non c’era chi potesse sostituire il giovane appena licenziato.
- Fate sguinzagliare le guardie per tutto il regno. Vadano in ogni città e villaggio: chiedano e scovino. Entro domattina al massimo voglio qui da me chi è in grado di interpretare correttamente il mio sogno.

L’indomani mattina fu presentato all’Imperatore un vecchio: barba bianca e schiena curva, abitava a metà montagna, all’estremo confine del regno. Faceva vita solitaria, ma era conosciuto per la saggezza dei suoi consigli: spesso la gente saliva il sentiero sino alla sua capanna per avere suggerimenti su come risolvere problemi esistenziali.  
 
L’Imperatore gli disse del sogno e il vecchio aprì il volto in un grande sorriso. 
- Maestà, tranquillizzatevi. Il destino vi sarà favorevole: non so se vivrete a lungo. Ma comunque vivrete più a lungo di tutti i familiari a voi più cari.

Il volto dell’Imperatore si distese.
- Vecchio, meriti una ricompensa e ti concedo ciò che mai concedo ad alcuno. Di decidere tu stesso il tuo destino. Cento monete d’oro o l’assunzione a corte? 

Il vecchio accennò un inchino. 
- Grazie, Maestà. Ma credo che il mio destino sia segnato: amo la solitudine, l’aria che scende dalla montagna e la gente che ogni tanto mi fa domande cui cerco di rispondere.

All’uscita dalla stanza imperiale, il primo cameriere, che aveva assistito ai due incontri, riferì al vecchio quanto aveva detto all’Imperatore il giovane esperto che era stato licenziato. 
- Né il giovane né tu gli avete detto cose diverse. 

Il vecchio assunse un’aria sorniona. 
- Le stesse cose si possono dire in modo diverso.

*** Massimo FERRARIO, In  modo diverso, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura di un testo di spirito orientale di autore anonimo.


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sabato 3 dicembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Come piume in volo (Massimo Ferrario)

La donna, profondamente pentita, sentì che doveva chiedere perdono. Aveva detto troppe cose cattive su di lui. E non era giusto: Zhao Ming non se le meritava. 

Le era accaduto perché era finita in uno dei suoi ‘buchi neri’: quando le capitava, non si controllava. Se la prendeva col mondo e soprattutto con le persone cui più era legata o che più stimava. Come Zhao Ming: il monaco del villaggio di cui non si poteva che dire bene, per la sua disponibilità ad aiutare chiunque avesse bisogno. E non solo con consigli, ma con opere concrete. 

Sun Xia lo fece una mattina, all’inizio di primavera.
Attese che Zhao Ming finisse la sua tradizionale ora di meditazione e poi, avuto il cenno di benvenuto alla porta del convento, fece quello che aveva nell’anima da tempo di fare e non la faceva più dormire.
- Ho detto cose brutte sul tuo conto, Zhao Ming. Non le meriti. Ti chiedo perdono.

Zhao Ming non fu sorpreso. Aveva sempre saputo che la donna era d’animo buono e le volte in cui si era lasciata andare a dire cose brutte non le pensava davvero. Avrebbe dovuto imparare a controllare la sua rabbia, ma aveva anche attenuanti: il destino non le era stato favorevole e lui sapeva della sua fatica a sopravvivere.

- Apprezzo il tuo atto, Sun Xia. So che non sei la donna che ogni tanto appari. Ti voglio bene e ti perdono. Ti chiedo solo una cosa. Vieni con me in cima alla torre del convento.
La donna non capì, ma non osò chiedere. 
E seguì Zhao Ming. Il quale, però, prima di salire la scaletta della torre, passò dalla cella e si mise sotto braccio un piccolo cuscino.

Salirono in cima alla torre e vi arrivarono un po’ affannati per il numero dei gradini. 
Zhao Ming prese il cuscino e ne strappò la fodera.
- Ecco. Vorrei che tu spargessi queste piume nell’aria. E’ una splendida giornata: il venticello le farà volare e sarà bello  seguirle…

Sun Xia, sempre più stupita, eseguì: lanciò due manciate di piume fuori dalla torre. 
Le piume, subito sostenute dal venticello, rotearono, leggere, un po’ su e un po’ giù, finché molte si depositarono lontano, sui rami degli alberi, per terra, nei prati. Altre scomparvero alla vista, sempre ondeggiando, per cadere poi lungo i viottoli del villaggio, trasportate dal soffio di quel mite mattino.

Finalmente la donna espresse la sua confusione.
- Non capisco, Zhao Ming.
- Semplice, Sun Xia. Ora scendiamo dalla torre e andiamo a prenderle.
- A prendere, cosa? Le piume che ho lanciato nell’aria?
- Sì. Perché: dici che non ci riusciamo?”
- Certo. E’ impossibile”.

Zhao Ming sorrise.
- Hai ragione, Sun Xia. E’ impossibile. Le piume se ne sono andate ovunque. Come le parole che diciamo. Soprattutto quando sono brutte e cattive. I pettegolezzi, il chiacchiericcio, le maldicenze, le malignità sono piume nell’aria. Una volta che ci scappano dalla bocca, non tornano più indietro. E neppure più sappiamo dove vanno. Nessun recupero è più possibile. Certo, ci possiamo pentire. E chiedere scusa. Un atto giusto e dovuto: all’armonia del mondo che abbiamo infranto. Ma ai fini pratici il pentimento purtroppo non serve. Come le piume, il danno ormai è fatto: e vola e va. A fare altro danno. Un danno che si cumula.

Sun Xia pianse. E Zhao Ming l’abbracciò. 

E pianto e abbraccio furono benefici: servirono alla donna per il futuro.

*** Massimo FERRARIO, Come piume in volo, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura di un testo di spirito orientale di autore anonimo.


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#PIN / Due motti (MasFerrario)


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venerdì 2 dicembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Amico e 'mezzo' amico (Massimo Ferrario)

- Fammici pensare. Li dovrei contare: ma, così, a spanne, direi che ne ho una trentina.
- Una trentina? Ma come è possibile?
- Perché: sono troppo pochi?
- Al contrario: io ne ho uno e mezzo. E credo di essere fortunato.

Il principe girava per il mercato in veste non ufficiale. Gli piaceva ogni tanto curiosare, vestito da suddito, per le strade della città. Era anche un modo per cogliere la vita vera, fuori dalla finzione dei palazzi reali.

La conversazione che aveva rubato davanti a una bancarella era tra un giovane e un vecchio. 
Il vecchio proseguì:
- Ma sei sicuro di quello che dici?
- Sicurissimo.
- Impossibile. Ti auguro di non doverli mai mettere alla prova: saresti deluso. Gli amici veri non sono come le foglie di un albero.

Il principe rimase stupito. Non tanto dal fatto che il ragazzo vantasse una trentina di amici: i giovani, si sa, tendono a confondere le conoscenze di una notte di baldoria con le amicizie che durano una vita. Ma di quel ‘mezzo’ amico del vecchio mercante. Si fissò bene in mente il suo volto: immaginò che l’avrebbe rivisto.

A corte i consiglieri vennero subito incaricati di scoprire il significato nascosto nel termine ‘mezzo’ premesso al sostantivo ‘amico’. Furono sentiti i pareri degli esperti e sondati i libri anche più antichi: il tema dell’amicizia fu affrontato in ogni suo aspetto, ma nessuno sapeva cosa fosse un ‘mezzo amico’. 

Il principe ordinò che il vecchio mercante venisse trovato e convocato.
L’interessato venne accompagnato a corte dalle guardie e non si stupì della domanda.
- Principe, volete sapere il significato di ‘mezzo amico’? Non so spiegarvelo. Ma posso farvelo vedere.
- Vedere? E come?
- Chiedete ai vostri araldi di girare per il regno: che annuncino la mia condanna a morte e la data dell’esecuzione per domenica prossima.
Il principe era sbigottito.
- La tua condanna a morte?
- Sì, principe: fatelo e capirete ciò che volete sapere.

Così fu fatto. 
La domenica la piazza della ghigliottina era gremita. 

A un certo punto un uomo si fece strada urlando. Pregava di poter salire sul palco, allestito per l’occasione, per parlare con il principe. 
Venne lasciato passare.
- Principe, non so se quell’uomo è innocente o colpevole. Ma non importa. Pago qualsiasi somma. Liberatelo. 
Il principe rifiutò: 
- Non posso. La sua colpa non si sana con i soldi. 
- Vi supplico. E’ mio amico. Vi lascio metà del mio patrimonio.
- Neppure il patrimonio intero potrebbe bastare. 
L’uomo scese dal palco, avvilito e visibilmente addolorato, e si avvicinò alla ghigliottina. Si rivolse al condannato. 
- Hai visto, amico, non sono venuto meno alla nostra amicizia. Ero disposto a pagare con metà del mio patrimonio per liberarti. 
Il mercante rispose:
- Sei stato un amico fedele, vai in pace.

Trascorsero pochi minuti: la ghigliottina era stata approntata ed era ormai pronta per fare il suo lavoro.
Si udì un urlo straziante nella piazza. Era una donna, che si faceva il vuoto attorno pur di arrivare dal principe. 
Quando se la trovò davanti, sul palco, era una furia.
- Principe, non potete fare una cosa simile. Ignoro cosa abbia fatto il mercante. Ma in ogni caso la colpevole sono io. Decapitate me. 
Il principe voleva essere sicuro delle parole della donna. 
- Donna, bada: se davvero sei colpevole, giustizieremo te al suo posto suo. 
La donna confermò.
Il mercante, già legato e pronto per essere decapitato, venne scambiato con la donna.
Il principe faticava a credere a quanto stava accadendo. Fece un cenno al boia, perché attendesse prima di procedere.
Mentre il mercante stava per essere liberato e condotto dal principe, la donna lo guardò in viso. 
- Amico, hai visto: non ti ho tradito. Ci conosciamo da una vita e l’affetto, se è vero affetto, bisogno essere disposti a pagarlo. Io ci metto la vita. Ora puoi andare e tornartene alla tua famiglia. 

Il principe, trasecolato, diede ordine che venisse smontata la messa in scena. 
Il suo Grande Consigliere spiegò alla folla cosa era accaduto. 
E anche la folla imparò qualcosa sull’amicizia.

Intanto il mercante, mentre ancora si accarezzava le braccia indolenzite per i legacci con cui era stato assicurato alla ghigliottina, sorrideva, compiaciuto. 
- Principe, non c’è bisogno di parole. Ciò che dovevi vedere, l’hai visto. Chi sacrifica soldi è ‘mezzo’ amico, chi sacrifica la vita è amico. Come vedi: avercene. Di amici. Ma anche di ‘mezzi amici’. Ti auguro di averne.

*** Massimo Ferrario, Amico e ‘mezzo amico’, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura di un testo di autore anonimo, forse origine araba, e diffuso anche online.


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mercoledì 30 novembre 2022

#FAVOLE & RACCONTI / Lupo Bianco e Lupo Nero (Massimo Ferrario)

Il Grande Capo Alba Rossa e il giovane Occhio di Falco erano nella foresta, accovacciati accanto a un albero maestoso.
- Nessuno può insegnarti la vita, Occhio di Falco: la vita si impara vivendo. Ma quel che io posso fare è dirti di me. Di come io l’ho affrontata e tuttora la affronto.

Era stato Occhio di Falco a chiedere al nonno di parlargli: ormai era entrato nell’età adulta e sapeva quanto era fortunato ad essere il nipote prediletto di Alba Rossa, il capo della tribù che tutti ammiravano e rispettavano.

- Eccoci qui, ragazzo. Mi hai chiesto e io ti dico. Del resto, anche a me mio padre, un tempo ormai molto lontano, raccontò le poche cose importanti che ho imparato per vivere al meglio la vita. Fu lui a parlarmi dei due lupi.
- Due lupi?
- Già. Due lupi: uno bianco e uno nero. Lui mi raccontò che li abbiamo dentro di noi. E ne-gli anni io ho potuto verificare quanto questo sia vero. E quanto sia utile tenerlo sempre  presente. Perciò ti svelo il segreto. Che è assai semplice: da dire. Ma, come tutto ciò che appare semplice, difficilissimo da praticare. Vedi, questi due lupi non hanno solo il colore diverso: hanno caratteristiche opposte. Per questo tendono a confliggere. Perché ognuno vuole essere fino in fondo sé stesso, senza farsi condizionare dall’altro. Vuole dare libera espressione alle proprie caratteristiche. Quello bianco tende a essere buono, gentile, tranquillo. E’ di animo docile, ama andare d’accordo con gli altri animali e con il mondo. Non vuole aggredire. E se lo fa è per difendere sé o la sua famiglia, quando questa è attaccata. Intendiamoci: a Lupo Bianco non manca il coraggio, anzi. Solo che lo usa con intelligenza. E spesso ci vuole più coraggio a contenere le proprie pulsioni violente, che anche i lupi bianchi, come tutti, hanno strutturalmente dentro di sé, che a esprimerle, indirizzandole sugli altri o sul mondo. Il Lupo Nero, invece, ha una natura esattamente contraria. E’ aggressivo, violento, avido. Ulula per niente ed è portato a odiare. Basta un nonnulla per farlo arrabbiare e anche per questo non ha amici: si fida solo di se stesso. Ha bisogno di primeggiare: se non vince si deprime e ogni occasione è buona per attaccare briga. Insomma: lui vuole dominare. Ne ha bisogno: altrimenti non è lui.

Occhio di Falco era attento e assorbiva ogni parola.
- Un bel problema, nonno. Con questi due animali in corpo la lotta non può che essere continua e il rischio, per chi li ha nell’anima, è di venire dilaniati dai loro combattimenti. A giudicare i tuoi comportamenti, però, sempre ponderati, equilibrati, saggi, come ti è peraltro riconosciuto da ogni membro della nostra tribù, tu sei riuscito a mandarli via, questi due lupi. Sei stato bravo: ma come hai fatto?

Alba Rossa si trattenne: Occhio di Falco non era più il piccolo nipotino cui si poteva dare una carezza, ora era un adulto. Ma in quel momento avrebbe voluto.
- Mi sopravvaluti, Occhio di Falco. Primo, non ho mandato via nessun lupo. Secondo, non sono così saggio come mi vedi.
- Non capisco, nonno. Tieni i due lupi dentro di te? Ma allora, come fai a essere quello che sei?

Alba Rossa prese quattro bei pezzi di carne dalla bisaccia: due erano arrostiti a puntino e due erano crudi e sanguinolenti. Li depose davanti a loro su una pelle.
- Mangiamo, ora.
Il giovane si stupì.
- Ma nonno, perché hai portato questa carne fresca?
- Per i due lupi.
- Per i due lupi?
- Infatti. Anche loro devono mangiare. E’ il modo che io uso per non far vincere nessuno dei due. Hanno tutti e due diritto di vivere e io questo diritto lo alimento. Nutro ambedue: per due ragioni, almeno. Perché io stesso, come ogni appartenente alla nostra tribù, amo gli animali: tutti. E, come anche tu sai bene, quando siamo costretti a ucciderli, cosa che mai facciamo per diletto, ma solo per placare la nostra fame, chiediamo loro scusa. E poi perché mi conviene. Sì, c’è un fine strumentale che non nego. Io ho bisogno sia di Lupo Bianco che di Lupo Nero. 

Occhio di Falco cercava di capire.
- Ne hai ‘bisogno’?
- Certo. 
- Anche di Lupo Nero?
- Magari non di ‘tutto’ Lupo Nero. Ma in alcune circostanze, sì. Io cerco di fare in modo che ambedue i lupi riescano a convivere: Lupo Nero non deve sopraffare Lupo Bianco e Lupo Bianco deve poter esprimere la sua anima pacifica. Se scegliessi di nutrire solo Lupo Bian-co, Lupo Nero si vendicherebbe: potrebbe approfittare di qualche mio momento di debolezza e prendere il sopravvento nelle mie azioni, spingendomi all’ira, all’odio, alla violenza. Lupo Nero, come ogni essere, uomo o animale, di qualunque specie e colore, vuole comprensione, attenzione, rispetto: per quello che è. E del resto, se gli riconosco la sua potenza e la sua forza, in alcuni momenti queste sue caratteristiche mi potranno tornare utili: io non voglio, né debbo, ‘costruire’ nemici, come giustamente mi insegna Lupo Bianco, ma i nemici esistono: e Lupo Nero può aiutarmi a combatterli, con la sua astuzia e la sua determinazione. Perché è intelligente e capace di mettere in atto strategie vincenti: ad esempio, nel caso in cui la nostra tribù venisse attaccata, Lupo Nero potrebbe aiutarmi più di Lupo Bianco. Almeno all’inizio.
- All’inizio?
- Sì, perché dopo invece potrebbe essere di danno. Dopo potrebbe, e senz’altro dovrebbe, esserci spazio per Lupo Bianco: il suo desiderio di convivere in armonia è quello che può indurre a fare la pace, facendoci ricorrere alle parole della diplomazia e spingendoci a deporre le frecce e i pugnali.

Occhio di Falco stava rimuginando i pensieri, mentre fissava i due pezzi di carne sanguinanti.
- Fammi ricapitolare, nonno. I due lupi devono convivere, nessuno deve vincere. Dando loro da mangiare, presti attenzione a entrambi e loro, non facendosi la guerra, lasciano in pace anche te. E tu, a questo punto, da loro ti assicuri una ‘giusta distanza’: non sei dilaniato, come prima temevo, dai loro conflitti e puoi riflettere con maggiore serenità su quanto ti accade intorno: per capire e agire al meglio. Non solo: ma puoi meglio assorbire, in qualche modo ‘spurgate’, le caratteristiche positive di ognuno dei due animali: non quelle estreme, che polarizzano i loro comportamenti, ma quelle più moderate, che aiutano a mantenere equilibrio.

Stavolta Alba Rossa cedette a un moto di affetto. E abbracciò il nipote, non più nipotino.
- Hai inteso perfettamente, Occhio di Falco. Però bada: non ti ho dato nessuna ricetta. Perché per fortuna la vita si vive senza ricettari: i ricettari sono fatti di carta e la vita è fatta di vita, che va oltre qualunque ricettario. Ciò che ho cercato di trasmetterti con la storia dei due lupi è solo una suggestione: se anch’io riuscissi a praticarla sempre, cosa che purtroppo talvolta non mi accade, avrei la coscienza profonda e vigile, mai distratta e parziale. Davanti a un foglio macchiato, ad esempio, vedrei il bianco e il nero nelle giuste proporzioni: non solo il bianco, dimenticando il nero, o solo il nero, dimenticando il bianco. Forse tu, come evoca il nome che i tuoi ti hanno dato, grazie a due lupi, puoi davvero avere un occhio di falco: sul mondo, ma anche dentro di te. Questo almeno è il mio augurio per il tuo futuro di adulto. E adesso anche noi, come Lupo Bianco e Lupo Nero, ci siamo guadagnati questi due pezzi di carne: e tu dimmi se li ho cotti e insaporiti come vuole la tradizione. 

*** Massimo Ferrario, Lupo Bianco e Lupo Nero, per ‘Mixtura’. Libera riscrittura di un testo di autore anonimo, attribuito ai nativi americani, e diffuso anche online in più siti.


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