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sabato 17 dicembre 2022

#INEDITI / Si può solo scriverne (Massimiliano Caccamo)

Si può solo scriverne.
 
Questo era il pensiero che mi era venuto uscendo dal CUP dell’Ospedale di Rho, dove mi ero recato a prenotare le analisi del sangue. All’interno dello stanzone affollato e insolita-mente caldo (visto che tutti gli ambienti pubblici e privati avrebbero dovuto subire la riduzione delle temperature causa razionamenti nelle forniture del gas) tutto sembrava un flusso disordinato di facce e di storie. La maggior parte di queste facce entravano senza mascherina e dovevano essere riportate all’ordine dall’infermiera di turno, molti non si raccapezzavano col display delle accettazioni (“Questo è nuovo, l’han fatto più piccolo così non si vede niente”). I più fragili, supportati da altri meno fragili ma pur sempre fragili anch’essi, dovevano alzarsi per controllare ogni qualvolta si sentiva il segnale sonoro di una chiamata. E poi, disillusi, riprecipitavano sulle loro sedie sperando nella chiamata successiva. 
All’accettazione la giovane multitasker sorridente prendeva i documenti, parlava di figlie con la collega di fianco (“a dodici anni sono giù adulte, devi rapportarti con loro come a un adulto…”) e rispondeva in simultanea a un flusso continuo di messaggi whatsapp. Poi, mentre le mani viaggiavano alla velocità della luce sulla tastiera del pc, alzava un attimo lo sguardo e sembrava accorgersi dell’utente per la prima volta. 

“Stasera danno Superman in tv, il mio film preferito da bambina”. “Io preferivo Batman” risponde la collega di fianco e poi entrambe mi guardano all’unisono negli occhi con fare interrogativo. “In quegli anni io leggevo Tex Willer”. Un attimo di incredulità e poi si distendono in un sorriso quasi sincronizzato. “Mio marito leggeva Tex Willer”. “Un grande suo marito” avevo replicato. 

Nel frattempo era arrivata la documentazione che attendevo con impazienza. Con quella potevo finalmente andarmene da quella specie di caverna platonica del nuovo millennio fendendo la massa di persone indistinta in attesa. Oltre a tutto il resto (l’attesa, il caldo, l’affollamento, la mascherina…) anche il frastuono cominciava ad essere insopportabile. 

Poco prima che guadagnassi l’uscita mi era caduto l’occhio su un’anziana donna ben vestita, in piedi in un angolo. La sua presenza era come un pugno nello stomaco. In lei tutto sembrava al suo posto, le mani, il volto, la borsa, la sciarpa. Solo gli occhi raccontavano la sua sofferenza. All’improvviso si portò la mano alla bocca ed emise tre colpi di tosse. Si fece un attimo di silenzio in sala. O almeno così parve a me. Era come se i tre colpi di tosse avessero riportato l’ordine. Di più, era come se avessero rievocato, dalle viscere della storia, l’origine di un bisogno profondo, archetipico. Mentre uscivo ebbi la sensazione di capire tante cose insieme. Ma l’unica che mi è rimasta veramente impressa è che quei colpi di tosse non potevano che essere tre. Non uno di più, non uno di meno. 

Come dicevo all’inizio: si può solo scriverne. 

*** Massimiliano CACCAMO, 1954, consulente di sviluppo organizzativo, formatore, saggista, scrittore, Si può solo scriverne   


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venerdì 3 settembre 2021

#INEDITI / L'ape regina, l'ape ancella e il paziente (Massimiliano Caccamo)

Mentre trascinava le gambe per i corridoi dell’ospedale continuava a chiedersi come si era stratificata nel tempo questa schizofrenia di ambienti sciatti, disordinati, illuminati da pallori al tungsteno evocativo di rifugi antiatomici e la presenza occasionale di esseri umani all’apparenza competenti e assai compresi dal ruolo di specialista di questo o quel ramo della medicina. Questa figura somigliava a una specie di ape regina alimentata da fuori da un reticolo di api operaie, incapaci di andare oltre a un “di qui, di là, in fondo al corridoio”. Piccole derivate  che aprivano in altre conversazioni telefoniche (col marito? con i figli?) giusto il tempo strettamente necessario per rispondere svogliatamente alla domanda d’orientamento del malcapitato di turno, confuso e sofferente per le patologie che si portava in corpo. Non dobbiamo poi dimenticare che questo malcapitato in particolare con l’orientamento aveva dei conti in sospeso fin da quando all’esame di terza media, non era riuscito ad indicare il Nilo sulla cartina muta dell’Egitto. 

L’ape regina che invece aveva da tempo superato la fase del grugnito primordiale appannaggio dei portatori di nutrimento, spendeva tre quarti del suo tempo a riscrivere i referti delle sorelle che l’avevano preceduta e l’ultimo quarto era equamente diviso fra le punzecchiature a queste (“eh…non c’è più la terapia del dolore di una volta”) e quelle (come si faceva a darle torto?) al sistema politico che risospinge il flusso dei malati verso la medicina privata.

Operazione peraltro che si apprestava a fare anche lei. 

Infatti gli ultimi minuti venivano dedicati alla terapia, naturalmente a pagamento, perché quella gratuita prevedeva anni di lista d’attesa.

E quindi il malcapitato già sofferente di suo per i dolori che lo avevano portato fin lì, aggiungeva adesso anche il problema dei soldi che faceva retrocedere in terza posizione quello dell’incuria dei luoghi. E alla fine metteva comunque mano al portafoglio convinto da un’osservazione che aveva comunque il suo senso “…almeno se lei fa i trattamenti qui ho un collegamento diretto con i fisioterapisti e posso seguire da vicino i progressi “. 

Successivamente era stato smistato a una segretaria che a sua volta (interrompendo dialoghi al cellulare sulle ferie da poco concluse) l’aveva smistato a una “coordinatrice” (l’ape ancella di secondo livello , anello di congiunzione fra la regina e le api operaie), la quale, già stremata da un colloquio col paziente precedente esordiva con un “la settimana prossima sono in ferie” più rivolto a se stessa che a chiunque altro. 

“Io l’aspetterò, stia tranquilla “. 

E nel suo sguardo riconoscente Lui finalmente capì qual era il vero ruolo del paziente all’interno del sistema: alleviare il peso di chi avrebbe dovuto curarlo.

*** Massimiliano CACCAMO, formatore e consulente di sviluppo organizzativo, saggista, scrittore, L'ape regina, l'ape ancella e il paziente, per Mixtura



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mercoledì 26 febbraio 2020

#INEDITI / A ognuno secondo i suoi meriti? (Ezio Nardini)

Un quadro generale
Recentemente, sul 'Corriere della Sera' è uscito un bell’articolo di Stefano Zamagni sulla meritocrazia (Il Merito? E’ frutto di talento e di impegno profuso, 4 febbraio 2020). Altri contributi interessanti sul tema sono quelli di Luigino Bruni (La meritocrazia e i suoi limiti, 'Corriere buone notizie', 19/12/2019) e Aldo Schiavone, Eguaglianza, una nuova visione sul filo della storia, Einaudi 2019).

Vorrei fare qualche considerazione sui temi sollevati, e partirei da una frase di Marx
"Da ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!" (K. Marx, Critica del programma di Gotha). Una frase, quella di Marx, che scalda il cuore e ispira alti ideali!
Ben diversa quella di Smith: “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del panettiere che ci aspettiamo la nostra cena, ma dalla loro considerazione del loro stesso interesse.” Questa non scalda il cuore. Anzi, se penso a quel macellaio, lo immagino gretto, di cultura ristretta e privo di slanci ideali: una persona, per i miei gusti, assai poco attraente. Ma se il cuore sceglie di slancio la frase di Marx, la ragione, però, non può sottacere il neo che in quella pur nobile frase si cela: il sistema, basato su quei principi, non funziona!

Non funziona perché viene a mancare quella mano invisibile (il sistema dei prezzi) che connette la domanda (bisogni) con l’offerta e consente allocazioni delle risorse (quasi) (1) efficienti, e manca altresì la molla che stimola i concorrenti all’impegno e all’innovazione. Benché mossa prevalentemente da interessi gretti (2), la molla in questione svolge egregiamente un ruolo sociale nel promuovere gli operatori più efficienti, nel rimuovere quelli inefficienti e nel produrre, quindi, nuova ricchezza da ripartire; è il motore dell’economia. (3)
È opportuno però non caricare la vittoria nel mercato di significati impropri, per esempio pensando che il sistema premi il merito. Il successo sul mercato può derivare infatti da un insieme di fattori che possono generare svariate combinazioni. Ne schematizzo alcuni.


Le componenti, come si vede, sono molte (4) e il merito è solo una tra le tante (la casellina in nero) e, nella combinazione vincente, il merito potrebbe anche essere del tutto secondario se non, addirittura, assente! 
Il successo di mercato poi, come la selezione naturale, premia il breve termine: se un operatore ha progetti anche straordinari ma non supera il test di breve termine, sparisce e non potremo mai godere dei benefici del suo grande progetto. (5)

Insomma, un sistema molto imperfetto …. che però ha i suoi pregi:
•   Premiando il successo sul mercato, gratifica con una fetta più grossa chi risulta (comunque, merito o non merito) aver contribuito di più a far crescere la torta, e questo è assolutamente sensato.
•   Funziona senza bisogno di qualcuno che tiri le fila, risolva equazioni o impartisca istruzioni.
•   Stimola l’impegno e aguzza l’ingegno
•   Elimina le imprese incapaci (quelle che non aggiungono valore o, addirittura, lo sottraggono)
•   Non guarda in faccia a nessuno: non fa preferenze.
•   Non ha bisogno di nessuno che stabilisca quali sono i bisogni delle persone (non serve quindi il “piccolo padre” di staliniana memoria). Anche qui, lo fa in modo grossolano (6), ma comunque meglio di qualunque altro sistema a me noto.

Però, sia chiaro, non valuta il merito: quello vero, non lo coglieremo mai (7) perché il mercato, per sua natura, non lo può cogliere. E del resto non è nemmeno sbagliato che il mercato premi il successo del prodotto e non il merito di chi lo produce. Un impegno, anche profuso allo spasimo, che però non si sostanzia in un prodotto di successo, non crea valore e non può ricevere premi se non a scapito di chi il valore, magari con meno merito, lo ha però comunque prodotto. 

Facciamo, in proposito, un piccolo esperimento mentale. Immaginiamo che in un paese ci siano solo due ortolani. Il primo lavora alacremente, è mosso da grandi ideali (verdura fresca per la salute dei clienti e dell’umanità) ed è persona di nobili sentimenti che devolve parte dei suoi ricavi ad opere umanitarie ma, per una serie di ragioni (eventi atmosferici imprevedibili, parassiti, orto posizionato male) ha dell’insalata pessima, stenta, giallastra e tutta bucherellata, mentre l’altro, di grette ambizioni, poco amante della fatica e dedito alla crapula, non avendo subito l’aggressione di parassiti, avendo goduto di eventi atmosferici molto favorevoli e avendo ereditato un orto solatìo e ferace, ha un’insalata bella, rigogliosa e di un verde smagliante.

Voi, anche dopo aver letto gli scritti citati in apertura, da chi comprereste l’insalata? 
Io immagino che, pur riservando lodi e apprezzamenti al primo, comprereste l’insalata dal secondo; se è così, questo sistema lo state sostenendo voi che pure, dopo aver letto quegli articoli, avete iniziato a considerarlo piuttosto deprecabile (8). Voi, così, senza pensarci, istintivamente, comprando una piantina d’insalata, avete scelto il sistema capitalista. Ma non sentitevi in colpa: credo abbiate fatto un’ottima scelta. Ricordo in proposito l’arguto motto di Churchill "Il vizio del capitalismo è la divisione ineguale della ricchezza; la virtù del socialismo è l'uguale condivisione della miseria".

Certo, e in questo concordo appieno con Bruni e Zamagni, è improprio parlare di merito per quell’ortolano. Se il successo sul mercato lo definiamo merito, sbagliamo e questo sbaglio può comportare conseguenze ideologiche mistificanti (9), come, ad esempio, cito la più grave, l’idea che” i ricchi sono meritevoli e i poveri sono colpevoli” venendosi così a formare la convinzione che “l’aumento indecente delle ingiustizie sociali … sono qualcosa di connaturato alla condizione umana… un male necessario per consentire di progredire” (10); conseguenza pratica: il Welfare? Un’ingiustizia nei confronti dei meritevoli!!!

Un problema di lungo termine
L’approssimazione migliore (fatti i distinguo di cui sopra) a una distribuzione del reddito che tenga conto in qualche modo anche del merito, è la concorrenza pura e perfetta. Si tratta però di un concetto ideale, ben diverso dalla realtà vera, nella quale monopoli, monopsoni, oligopoli, concorrenze monopolistiche, aziende sostenute dallo stato (con i soldi, quindi dei contribuenti (11))  intervengono a complicare il quadro e ad allontanarlo ulteriormente dal “premio al merito” di cui si parlava. 

Ma qui stiamo ancora parlando di breve termine; guardiamo invece al lungo.
Qui si affaccia un problema gravissimo: la concorrenza può uccidere la concorrenza. Ad ogni passaggio nel meccanismo del mercato chi è stato premiato riparte un metro più avanti degli altri (12). Questo piccolo vantaggio, in un mondo globalizzato e a forte tecnologia digitale come il nostro (13), può accumularsi creando progressivamente un gap difficile da colmare: il successo tende a generare successo. La concorrenza, quindi, potrebbe uccidere se stessa: si potrebbero creare divari economici immensi (che è quello che sta avvenendo), potrebbe franare la classe media e queste differenze di potere finirebbero per generare non solo la fine della concorrenza ma, addirittura, la crisi della democrazia.
Cito Zamagni: “nell’accettazione acritica della meritocrazia è lo scivolamento – come Aristotele aveva chiaramente intravisto – verso forme più o meno velate di tecnocrazia oli-garchica”.
Continua Zamagni: “è certo giusto che chi merita di più ottenga di più. Ma non tanto di più da porlo in grado di influenzare le regole del gioco”. 

Cosa fare allora?
Io penso che il meccanismo concorrenziale vada preservato, per lo meno finché non se ne trovi uno migliore (che però finora, su un arco di migliaia di anni, non è stato trovato). Bisogna preservarlo dalle minacce esterne e, soprattutto, preservarlo dalle sue tendenze autodistruttive.
In quest’ottica credo che una politica economica orientata (coi limiti detti) al merito dovrebbe articolarsi su alcuni capisaldi (14):
1.   Tassazione progressiva su redditi/profitti (e con una base dati efficace!); altro che flat tax!
2.  Tassazione progressiva sulle successioni (già gli economisti classici (tra questi, mi pare J. S. Mill) sostenevano questa misura per preservare omogeneità di basi di partenza).
3. Politica antimonopolistica e norme (e controlli) stringenti per la conservazione della concorrenza. 
4.   Stroncare l’economia del malaffare, che fra tutti i fattori distorsivi è, a mio avviso, il peggiore.
5.   Lasciar fallire le aziende decotte (l’agonia prolungata di Alitalia (a nostre spese) mette i brividi)
6.   Semplificare la burocrazia per facilitare entrate e uscite dal mercato (il fallimento, (quando non presenta dolo) in un sistema in concorrenza, succede ed ha, giustamente, le sue conseguenze; ma non deve essere un marchio infamante che impedisca a chi ha fallito di ricominciare).
7.  Creare efficienza delle infrastrutture per mettere le imprese e il mercato nelle condizioni di funzionamento migliori.
8.   Combattere la povertà, creando un livello minimo di reddito di cittadinanza (15) in modo che chi viene espulso dal mercato, o per demerito o per sfortuna o altro, abbia una rete di protezione  (16) che gli consenta la ripresa. 
9.    Favorire la riqualificazione/flessibilità professionale.
E, infine, lasciar fare al mercato che non sarà capace di gestire perfettamente la giustizia sociale ma, tra tutti i meccanismi che mi possono tornare alla mente, mi pare quello che ci si avvicina di più.

Il merito nelle organizzazioni
Parlando di merito, un tema spesso citato è anche quello della meritocrazia in azienda.
Ne parla anche Bruni quando parla della Business Community e dice: “lì i meriti erano quantificabili, misurabili, ordinabili in una scala, in modo che a ciascuno andasse il suo, né più né meno”.  
È opinione corrente, ma sbagliata. 
Che nei convegni la Business Community, con toni trionfalistici, affermi questo, è vero, ma che nei fatti questo avvenga è ben lontano dalla realtà.
E opinione corrente è anche che la pubblica amministrazione dovrebbe copiare dalle aziende private le metodologie per la gestione del merito. E qualcosa, in questo senso, è anche stato fatto (ministro il prof. Brunetta), introducendo una sorta di Management By Objectives (MBO) nella pubblica amministrazione. Risultato: un bagno di sangue!!!

Ad evitare equivoci specificherò subito che il MBO, così come è stato interpretato nelle aziende italiane (e non solo) (17), è un pessimo sistema che con il premio al merito ha solo vaghe assonanze; un sistema che però, alle solite, è pur meglio delle routine burocratiche tradizionali (premio all’anzianità) o delle pratiche pseudofeudali (ti premio perché sei membro fedele della mia cordata!) che ancor oggi si trovano in qualche azienda. 
È comunque un sistema assolutamente imperfetto che può sostenersi solo nelle aziende private perché, se il Top Management ci crede, mette in gioco soldi privati e quindi, le persone, anche se ritengono che il meccanismo sia sbagliato e i soldi, quindi, mal spesi, non hanno scuse per non allinearsi. Se però un meccanismo così approssimativo lo inseriamo in un’organizzazione pubblica, dove i soldi investiti nel MBO sono pubblici, le reazioni di rigetto (in larga parte giustificate) sono tali e tante da creare grossi imbarazzi al management o da produrre (per quieto vivere) mostri organizzativi, come quando, pochi giorni dopo l’alluvione di Genova, due dirigenti del servizio idrogeologico genovese hanno ricevuto premi per aver raggiunto i loro obiettivi (ci sarebbe da ridere ma, visto il contesto, non è il caso).

Questo per dire che, anche nelle aziende, l’aspirazione a un sistema che premi i meriti c’è, ma anche lì, nel piccolo, siamo comunque ben lontani dall’ottenere una metodologia soddisfacente. 
Non posso, per ragioni di spazio, dilungarmi oltre, ma non resisto al gusto di citare, nel mio piccolo, un mio contributo in materia: “MBO, tragedia semiseria in due puntate”, pubblicato su 'Direzione del personale', settembre 2010 (18).

Per concludere 
Dice Aldo Schiavone “il capitale, come il mercato, non è una forma né naturale né eterna …quando non sarà più in grado di padroneggiare la potenza produttiva e trasformatrice che esso stesso ha mobilitato ed espresso, diventerà un modo obsoleto di organizzare la creazione di ricchezza e la sua distribuzione”.
Sono del tutto d’accordo (19) ma, da un lato, dichiaro (a titolo puramente personale) di esser ben lieto di vivere in un tempo in cui è il mercato in concorrenza (sia pur non perfetta) ad orchestrare il sistema economico e nel quale, quindi, non ci sono né servi della gleba né nobili feudatari come in passato. 
Quanto al futuro, non so cosa attendermi. Il mercato, oggi, in qualche modo, senza riuscirci troppo bene, cerca comunque di combinare l’uguaglianza con la libertà, ma per il futuro, che dire? Temo possano prospettarsi sistemi che, il problema di combinare i due opposti, lo risolveranno alla radice: niente uguaglianza e niente libertà! Solo tanta efficienza. Auguri ai posteri!!!

*** Ezio NARDINI, consulente, A ognuno secondo i suoi meriti?, inedito, per Mixtura. 

Note: (1) 'Quasi' perché la concorrenza pura e perfetta si trova solo sui testi di scuola. - (2) Non sempre; si pensi a Adriano Olivetti o a Konosuke Matsushita. - (3) Che, come tutti i motori, presenta un difetto: inquina! Ma qui si aprono spazi per altri dibattiti. - (4) Ho tralasciato la componente malaffare, per non aprire nuovi ed impegnativi capitoli, ma è evidente che può esserci e può giocare un ruolo rilevantissimo. (5) A.C. Pigou, in The economics of welfare, parla di sistema privo di “facoltà telescopica”. - (6) Conta solo la domanda effettiva, quella che può essere pagata, non quella potenziale; non tiene conto, inoltre delle manipolazioni che possono orientare la domanda. - (7) 'Mai' è parola grossa. Non è da escludere che in futuro, con individui connessi tramite elettrodi a sistemi che misurano onde cerebrali e quant’altro, l’impegno e la dedizione possano essere misurati. Ma poi, è questo quello che serve davvero? - (8) Il che ci dice che il sistema ha radici solide e profonde. - (9) Le parole sono importanti! - (10) Stefano Zamagni, 'Corriere della Sera', 4 febbraio 2020. - (11) E anche l’economia del malaffare da il suo notevole contributo a distorcere il mercato con i suoi ingenti vantaggi competitivi. - (12) Per tante ragioni. Ha più capitale, ha accumulato competenze, ha creato relazioni …. - (13) Ricordo sempre la cosa che più mi ha colpito dell’economia digitale: i costi marginali sono decrescenti e, quindi, vi è assenza di limiti dimensionali; la globalizzazione fa il resto. Un mercato, quindi, nel quale uno vince e tutti gli altri perdono. - (14) Mi è ben chiaro che il passaggio da un mondo idealizzato al mondo reale, non è semplice e che alcuni principi che qui descrivo, potranno, nelle applicazioni concrete, trovare grosse difficoltà di applicazione. Basti pensare che, in un mondo globale, non sono del tutto libero di orientare la mia politica fiscale prescindendo da quello che fanno altri paesi. Io qui non voglio dare ricette pronte per l’uso, ma semplicemente descrivere una bussola utile per orientare la politica economica. - (15) Meglio sarebbe,  a mio avviso, usare forme di tassazione negativa. E comunque, mi astengo dal giudizio sul reddito di cittadinanza realizzato qui da noi. - (16) Su questo, tengo a specificare, la misura deve essere a sostegno della vita e non dello stile di vita! Quindi: salario di sopravvivenza e uguale per tutti. - (17) Un’applicazione che è ben diversa da quella ideata da Peter Druker e George Odiorne nel 1954. - (18) Le tesi, fortemente critiche nei confronti del MBO, da me sostenute nell’articolo citato, frutto di esperienze sia come lavoratore dipendente e sia come consulente, hanno trovato autorevoli punti di sostegno nella letteratura internazionale. Cito in proposito Daniel Pink, Drive, Riverhead books,2009 e  A.V. “Goals gone wild: the systematic side effects of over-prescribing goal setting”, Harvard business school 2009. - (19 La pensavano così anche gli economisti classici (per esempio, Davide Ricardo e John Stuart Mill) e l’opinione, sia pur per ragioni diverse, era condivisa anche da John Maynard Keynes.


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martedì 19 novembre 2019

#INEDITI / Marchionne, brutti ricordi (Enrico Finzi)

Pubblico con piacere un inedito di Enrico Finzi, fondatore di Sòno, una società lanciata quattro anni fa e specializzata in servizi per le persone in tema di autorealizzazione (vedi E. Finzi, Racconti di sé. Il metodo Sòno per l'autorealizzazione, edizioni e-comunicare, 2019). 
I ricordi di cui parla Enrico Finzi riguardano la sua esperienza di lavoro, diretta e non fugace, con Sergio Marchionne, anche in qualità, allora, di presidente di Astraricerche: una società che ha fornito, pure a Fiat, indagini e consulenze di marketing.
Il suo intervento è duro e (finalmente) fuori dal coro.
Nella mia attività ultra-trentennale di consulenza e formazione nell'area dello sviluppo organizzativo ho lavorato con decine di multinazionali, ma ho sempre cercato di evitare i contatti con Fiat: anche prima dell'arrivo di Sergio Marchionne.
Ho sempre pensato infatti che per poter esercitare un minimo di efficacia in un'attività sfuggente e di labile 'consistenza' (anche se fondamentale per il successo di un'impresa) come quella che ruota attorno al binomio 'Persone&Organizzazione', ci volesse (e ancor più ci voglia oggi) una precondizione assoluta: condividere con il committente una forte e sincera visione rispettosa della dignità delle Persone (che sono ben altro e ben più delle cosiddette 'Risorse Umane'), senza retropensieri manipolativi e comodi autoinganni favoriti dalla retorica delle convention alla moda.
Ho sempre creduto che Fiat, soprattutto nella sua espressione di vertice, facesse fatica a soddisfare questa banale esigenza.
Ritengo che il tanto osannato 'marchionnismo' (che nel mio piccolo ho criticato da subito, fin dalla nascita del caso Pomigliano, anche prendendo posizione pubblica, ad esempio su linkedin, e ovviamente in solitudine rispetto al 'mio' mondo professionale) abbia rivelato (e lasciato in eredità) una cultura 'perversa', almeno per le persone che lavorano, e positiva soltanto per top management (forse) e azionisti (sicuramente). 
L'intervento di Enrico Finzi, pur nella stringatezza dei fatti ricordati, lo conferma. (MasFerrario)
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Lo avrete notato: quando qualcuno muore, il 'de cuius' tende, per chi resta, ad ascendere in cielo, precedendo l'eventuale giudizio divino. Al di là dell'umano dolore dei suoi cari, il defunto viene descritto come un santo, un martire, un supereroe. Una conferma viene dai necrologi, nei quali emergono solo le virtù e mai i difetti, gli errori, le miserie, i crimini. 

Questa premessa vale per molti che ho conosciuto e in particolare per Sergio Marchionne, del quale pressoché nessuno ha messo in luce il suo esser stato un manager assai discutibile (alla lettera: che può essere discusso). Proverò io a fare il Pierino sulla base di qualche ricordo personale.

Un primo aspetto, a mio parere negativo, riguarda la sua responsabilità nel sottrarre all'Italia il governo del cruciale settore automotive, aggiungendolo al lungo elenco dei comparti e delle imprese emigrati all'estero (ricordo in proposito un aureo libretto di Luciano Gallino, aggiornato a una decina di anni fa). 

Marchionne partì rivendicando l'italianità della Fiat sull'orlo del fallimento, tentò poi più volte di venderla alla General Motors, indi passò alla Chrisler, che salvò coi soldi dei contribuenti americani (ah, il liberismo a chiacchiere!), portando infine la sede del controllo effettivo a Detroit e di quello legale in Olanda (naturalmente parlando di ottimizzazione, paroletta magica dei disastri finanziari). Niente di straordinario: è la logica apolide del capitale, acuita dalla storica tendenza degli Agnelli a non finanziare adeguatamente la loro impresa (vero esempio del capitalismo senza capitali 'italian style'). Ma almeno avrebbe potuto risparmiarci la retorica nazional-popolare degli spot pubblicitari scritti di sua mano, che conobbi bene avendoli 'testati' come ricercatore di marketing. Oggi siamo passati alla vendita a PSA, fatta passare per partnership paritetica. E il bello è che nessuno ha fiatato, a partire dai nostri sedicenti sovranisti senza cultura e senza sovrano.

Poi rimembro l'atteggiamento verso i lavoratori e i sindacati: all'inizio rispettati e persino esaltati dal Marchionne 'socialista', poi odiati quando osarono opporsi a talune sue scelte di sfruttamento (se il termine vi turba, usate il più elegante 'exploitment', che pare evoluto in quanto inglese). 

Ricordo il passaggio improvviso dalla (presunta) simpatia all'odio verso la FIOM, colpevole di fare il suo mestiere. Il Nostro, autoritario e paranoicamente instabile, cercò in ogni modo di 'far fuori' il nemico di classe, anche con azioni sanzionate dalla magistratura; uscì dalla Confindustria; cercò di affermare un nuovo modello di relazioni industriali, all'insegna del prepotere degli imprenditori; mirò a mobilitare senza successo l'equivalente della 'marcia dei 40mila'; ottenne l'ovvio consenso della destra da sempre 'serva dei padroni' e di Matteo Renzi; riuscì a ridurre alla metà le dimensioni italiane del Gruppo; perse quote di mercato in tutt'Europa; semi-uccise l'Alfa Romeo (mai più davvero ripresasi) e la Lancia (ridotta alla Y10). Un trionfo!

Nel contempo - ne fui testimone - impose scelte folli. Due esempi. Rinviò per anni il lancio della nuova 500, suggerita da Lapo Elkann, forse non un genio ma trattato volgarmente a pesci in faccia nel comitato del marketing, a cui partecipavo ogni settimana; indi indebolì tale lancio, dimezzando la produzione suggeritagli dai tecnici interni, solo perché non sentiva suo il progetto (salvo rivendicarlo due anni dopo come propria creatura). Preso dal complesso di Crono, costrinse ad andarsene Luca de Meo, il suo giovane manager più brillante, prima adorato e poi ostacolato solo perché divenne geloso della crescita di notorietà dell'ex-pupillo. Così divorò altri 'suoi' dirigenti, sottoponendo tutti gli altri a un super-sfruttamento feudale, di chi voleva affermarsi ogni ora del giorno e della notte come il Re Sole.

Nel frattempo continuava a lavorare per altre imprese non del settore; manteneva la residenza nel miglior cantone svizzero (migliore per la cosiddetta ottimizzazione fiscale); percepiva redditi da lavoro e da stock option maggiori dei salari dei suoi operai nell'ordine delle migliaia di volte.

Lo ricordo così: umanamente sgradevole, talora sadico, sempre feroce, durissimo (e perciò ammirato dai corifei del potere), certo più capace della gran parte dei manager nostrani. I media, inchinati, ne esaltavano i maglioncini scuri.

Non ho pianto quando è morto. Non lo faccio ora. Ho sofferto per i lavoratori morti nelle 'sue' fabbriche, per i 'suoi' cassintegrati alla fame, per i suicidi da lavoro (quel lavoro!). Resto un vecchio 'leftist', come il regista Ken Loach: preferisco il rosso delle bandiere a quello della Ferrari (che con Marchionne non ha più vinto).

*** Enrico FINZI, 1946sociologo, fondatore e responsabile di Sòno Human Tuning, Marchionne, brutti ricordi, inedito per Mixtura


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mercoledì 30 ottobre 2019

#INEDITI / Voto in Umbria, una provocazione, due sospetti (Renzo Modiano)

Sul voto in Umbria del 27 ottobre 2019.
E’ solo una teoria che non potrà mai essere provata, ma io sospetto che a determinare il trionfo della destra non sia stata l’incompatibilità genetica di PD e Cinque stelle, ma sia stato il fatto che il governo in carica sembra voler combattere seriamente l’evasione fiscale. Per la prima volta nella storia d’Italia.
Nessun sondaggio lo preconizzava? Certo, perché neppure ad un sondaggista qualcuno risponderebbe rivelando quell’intenzione disonesta.

E poi, mi viene il sospetto che il successo della Meloni coincida con i voti dei renziani. Più 5%,  esattamente il peso che viene stimato avrebbe Italia Viva se si votasse alle Politiche.

*** Renzo MODIANO, 1936, scrittore, già direttore di Personale e Organizzazione in una grande azienda, Una provocazione, due sospetti, per Mixtura
http://mimesisedizioni.it/renzo-modiano/


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(MasFerrario) - Per valorizzare la provocazione di Renzo Modiano qui sopra riportata mi permetto una breve annotazione. 
Il suo secondo sospetto (riguardante la crescita di FdI della Meloni nella misura dei voti stimati oggi dai sondaggi per il neo-partito renziano di ItaliaViva), è ardito nelle dimensioni numeriche evocate (5%), ma forse non così fantasioso nella sostanza: almeno se si legge lo studio sui flussi dell'Istituto Carlo Cattaneo (vedi commento a cura di Rinaldo Vignati, Elezioni regionali Umbria 2019. I flussi a Perugia, Istituto Carlo Cattaneo, 28 ottobre 2019, qui).
Nell'analisi, infatti, pur con mille cautele, si stima che possano essersi verificate perdite non trascurabili del Pd verso il centrodestra ("ma, significativamente, non verso la Lega"): quindi verso le liste civiche e, in parte, anche verso FdI (nella misura dell'1%). Questi flussi, si legge nel breve rapporto, potrebbero essere «il segnale che una parte degli elettori che nel 2018 votò centrosinistra ha trovato “innaturale” l’alleanza col M5s ed ha quindi preferito dirigersi altrove (l’assenza dalla coalizione di ItaliaViva, ossia della componente renziana, potrebbe in qualche misura aver inciso su questa dinamica)».

giovedì 7 giugno 2018

#INEDITI / Noi elettori, la conversione a U (Renzo Modiano)

Tutti hanno rilevato che le elezioni del 4 Marzo hanno segnato una svolta drastica rispetto al passato. Nessuna elezione clona le precedenti, qualcosa cambia sempre, ma questa volta il cambiamento è stato epocale. L’evidente novità è la nascita del tripolarismo, ma altri aspetti – causa, o conseguenti al fenomeno - sono apparsi. Gli osservatori li hanno evidenziati, tanti e veri tutti, eppure, in me restava una sensazione di insufficienza, di incompletezza, nel tentativo di spiegare il fenomeno verificato. Mi mancava qualcosa di più ampio, che li comprendesse tutti e persino ne contenesse la genesi. Ora penso di aver trovato ciò che cercavo: è una nuova, drastica, regressione degli elettori nella capacità di comprensione della realtà Politica che vivono. Questa volta i tradizionali meccanismi valutativi adottati dall’elettorato non hanno funzionato come in passato. A mio avviso, ciò spiega, in buona parte, l’accaduto.

Gli italiani, come tutti i popoli del mondo, non sono – e non potranno mai essere - in grado di motivare il proprio voto in base ad approfondite conoscenze storiche, psicologiche, di Politica Economica, ecc., ecc.. Per esempio, intorno alla metà del secolo scorso due Fedi Religiose hanno condizionato fortemente il voto degli italiani: la Chiesa Cattolica e il Partito Comunista. Solo pochi laici decidevano come votare in base a loro libere e autonome valutazioni. Gli italiani erano fortemente influenzati, eterodiretti, dai due Credo, ma grazie al fresco ricordo del fascismo in quei credenti persisteva l’aspirazione alla ricerca di Verità e il desiderio di compiere un’analisi critica della Politica. Quell’aspirazione faceva sentire anche alla massa il dovere di conoscere i fatti cui assisteva e di vagliare attentamente gli attori della Politica. Grazie a quella dose di autonomia di pensiero e di ricerca di onestà, gli italiani hanno espresso per un po’ un voto non totalmente pedissequo, ottuso ed eterodiretto.

Oggi le religioni non ci sono più, ma la conoscenza di ciò che accade avviene sempre più per implosione da fonti poco chiare e superficiali, incontrollabili ed evanescenti. Le sorgenti informative sono del tutto diverse dalla vecchia stampa e dai vecchi media. Oggi si assumono allo stesso modo notizie, vere e false, in quanto apparse per qualche istante in un terminale web. Si digeriscono giudizi viziati, sparati da chi “reinterpreta” i fatti e si assorbono acriticamente persino messaggi suggestivi, subliminali, sapientemente sputati da esperti manipolatori di menti disattente. Si assume per vero ciò che distrattamente si assume. Nessuno invita a verificare e non è più concesso il tempo per pensare con la propria testa. Il predominio della rete ultra veloce, il bombardamento di input faziosi, estremi come frecce, con cui si avvelena l’informazione - quella politica sopra tutto - tolgono ossigeno al ragionamento, negano la verifica e la riflessione. Un articolo di un giornale - anche del Popolo, o dell’Unità - concedeva al lettore di quei giornali partigiani un filo di spazio al contraddittorio, un attimo di ascolto della voce contraria. Oggi si beve tutto alla velocità della luce e ci si allontana sempre più da un vero contraddittorio. I dibattiti televisivi evocano più i combattimenti nel Colosseo di Neroniana memoria che un confronto di idee. Non scorre il sangue, certo, ma neppure vive più il desiderio di confrontarsi seriamente per far capire a chi ascolta come realmente stanno le cose. Insomma, il pensiero è asfittico, e di conseguenza, lo è anche la possibilità di comprendere ciò che accade…. e di trarre le debite conseguenze dai fatti. La telegenia pesa molto di più del senso delle parole che un candidato pronuncia. L’apparenza surclassa la sostanza.

Fino a ieri tutti avrebbero riso di un leader che muta di 180 gradi affermazioni appena espresse, e non una volta per un lapsus, sistematicamente. Chiunque avrebbe irriso chi avesse fatto promesse del tutto irrealizzabili perché fuori della realtà. Il popolo avrebbe reagito risentito contro chi l’avesse incitato a scendere in piazza contro il Presidente della Repubblica per chiederne l’impeachement senza che vi fosse il ben che minimo fondamento all’accusa di tradimento della Patria, che è l’unico motivo per il quale si può richiedere quel drastico provvedimento. Quel leader analfabeta, o in assoluta malafede, e il suo movimento, sarebbero stati spazzati via dalla politica. Invece, ieri, quei personaggi indecenti sono stati ricevuti dal Presidente della Repubblica e hanno avuto l’incarico di formare il Governo. Fino a ieri nessun movimento politico avrebbe candidato al Governo figure del tutto inattendibili e incompetenti, come coloro che hanno dichiarato l’intenzione di chiedere all’Europa la “restituzione” di 250 miliardi di Euro dovuti, ignorando che siffatta richiesta avrebbe significato la dichiarazione di insolvenza del nostro Paese.

Oggi, basta premere il tasto reset e nulla resta delle cazzate che si sono appena dette e fatte. E i politici possono andare a giurare al Quirinale la loro fedeltà ad una Costituzione che non hanno nemmeno fatto la fatica di leggere, o di cui non hanno compreso il significato. 

Io faccio parte dell’esigua minoranza di “laici” che si teneva lontano dalle due Religioni dominanti. Non avrei mai pensato che avrei rimpianto quella cultura invasiva. Invece, ora lo devo fare. Perché il problema ormai non è la vittoria di un partito e la sconfitta di un altro, il problema è la presenza, in Italia, come in tutto il mondo, di un’umanità che non sa più far di conto, ne usare il congiuntivo, modo verbale che esprime il dubbio, le ipotesi e perciò presuppone il pensiero.  L’uomo, oggi, tuttalpiù pensa in binario: Si o NO, come i computer e si fa guidare da immagini e parole volanti, spruzzate sugli innumerevoli strumenti da cui nessuno stacca più gli occhi. E i giovani sono i primi ad annegarvisi, solitari. Ciò fa regredire la capacità di ragionare, di comprendere la realtà e rende ancor più vulnerabili di ieri a ogni forma di fascismo.  Tutto ciò ha pesato nelle elezioni del 4 Marzo. Ciò spiega, a mio avviso, l’indifferenza dell’elettorato italiano verso tutti gli episodi impensabili cui si è assistito, verso la prassi di mala politica che si è vista. Eppure erano fatti evidenti, macroscopici, che un tempo avrebbero generato pesanti reazioni. Questa è un’allarmante situazione, sopra tutto perché il nostro Paese non è il solo a vivere il fenomeno involutivo. La Brexit, l’elezione di Trump negli USA, i regimi para fascisti al potere nell’Europa centrale e persino settentrionale, la crescita dell’estrema destra quasi ovunque evidenziano il processo di regressione che ho detto. Sembra che ovunque prevalga  la stupidità.

*** Renzo MODIANO, 1936, scrittore, già direttore di Personale e Organizzazione in una grande azienda, Noi elettori, la conversione a U, per Mixtura
   

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sabato 10 dicembre 2016

#INEDITI / Politici, quanto pesa il vissuto storico (Renzo Modiano)

Io credo che i politici italiani – nella quasi totalità – soffrano di due mali atavici. 
Il primo è la carenza del senso dello Stato, della legalità, della comunità, delle regole, quali che siano.
Il secondo, è l’abitudine a fare politica per tutta la vita. Prassi più unica che rara nelle democrazie sostanziali.
Rubando una bruttissima espressione agli azzeccagarbugli che  abbondano nel nostro Paese, direi che il combinato disposto di queste due condizioni sia la causa principale della miserevole qualità della nostra classe politica. Causa della mancanza di un’effettiva selezione qualitativa.

Chi dedica tutta la propria esistenza, tutte le proprie aspirazioni, alla politica, escludendo tutto il resto, non può che essere parossisticamente proteso al suo fine. Comincia da giovane il suo percorso infinito intrufolandosi, uno dopo l’altro, in tutti i suoi Palazzi: dal consiglio comunale della propria cittadina, alla Regione, alla Camera, a Palazzo Madama… a Palazzo Chigi e... E privo, com’è il politico odierno, di una qualsiasi spinta ideale, adotta ogni mezzo, compromesso, inganno ecc.  che gli sembra funzioni, o lo illuda che funzioni.

C’è un perché per queste peculiari sfregi sul ritratto dei nostri uomini pubblici. E’ stata la nostra Storia a procurarli.

E’ per come, per secoli e secoli, si è materializzato lo Stato agli italiani. Lo Stato era lo straniero che esige gabelle per mandarle in Spagna, Francia, Austria o chissà dove! Non migliore la Chiesa, che ignora persino l’idea di Stato! Per Essa, esistono solo l’Inferno e il Paradiso (magari via Purgatorio) e null’altro. No, dimenticavo, in questa terra, d’altro c’è l’esazione delle tasse e l’esecuzione di qualche eretico, o ladruncolo. Nello Stato della Chiesa non c’erano scuole pubbliche, pubbliche Istituzioni, c’erano solo carceri, dove finivano sì, alcuni mariuoli, ma anche qualche povero diavolo colpevole di aver pensato. o dubitato. 
Insomma, in Italia, lo Stato è sempre stato un nemico esoso, prepotente, ingiusto ed alieno. Parlava persino un’altra lingua  (il latino presto lo è diventato).  Cos’è cambiato?

Se questo è lo Stato che hanno conosciuto gli italiani per mille anni, come possiamo aspettarci che ne coltivino un’ immagine diversa da quella che oggi alberga nella loro mente e nel loro cuore? Se riuscirò a farne parte, (oggi è possibile) sarò legittimato a riprendermi tutto quello che potrò arraffare. Sarà un risarcimento postumo. Fa comodo vederlo così, un alibi non si butta mai via.

Queste sono le gambe con le quali procedono nel loro percorso i nostri politici. Il risorgimento, durato un attimo, non ha scalfito l’eredita della Storia.

Renzi non è peggio degli altri, è il prodotto del nostro 'humus'. Appena due o tre decenni dopo la fine della guerra, chi ha democraticamente mandato al Potere il popolo Italiano? Andreotti, Craxi, Berlusconi, Renzi …

E oggi, per reazione alla delusione della seconda Repubblica, esalta Grillo, revisione tecnicizzata e up-to-date del Fascismo. Un duce via Web,  non meno spaventoso!

Per questo l’integrità della nostra Costituzione è essenziale. L’Italia non può permettersi di disancorarsi da lei. 
L’Inghilterra non ha neppure una Costituzione, gli USA ne hanno una piena di lacune, ma hanno Società più ricche di anticorpi, che consentono di compensare certe lacune della Legge basilare (fino a Trump?). La Russia, che quegli anticorpi non li ha, è in mano a Putin. Eppure, una Camera ce l’hanno anche loro. I russi, ancora più indietro di noi nel cammino della presa di coscienza democratica, appena caduta l’URSS hanno mandato a casa Gorbaciov e hanno eletto l’ex capo della G.P.U. 
Ecco quanto pesa il vissuto secolare.

*** Renzo MODIANO, scrittore, già direttore di Personale e Organizzazione in una grande azienda, Politici, quanto pesa il vissuto storico, per Mixtura


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domenica 27 marzo 2016

#INEDITI / Concretezza, il paradosso in organizzazione e formazione - 2^ parte (Massimiliano Caccamo)

TRE
Ci siamo dunque sbarazzati del mantra della concretezza in ambito organizzativo?
Naturalmente no. Durante un laboratorio formativo  tenutosi una diecina d’anni fa abbiamo “provocato” una vera e propria competizione sulla Leadership fra persone provenienti da diverse aziende.  Alla fine i vincitori (votati come tali da tutti gli altri partecipanti) furono due. E alla domanda cosa li rendeva così apprezzabili le risposte furono sempre due (una la chiave di successo dell’uno e l’altra la chiave di successo dell’altro): La Concretezza e la Passione. Dunque la Concretezza continua a far parlare di se, anche nella leadership.  Ma almeno ci siamo resi conto che da sola non basta.
E, secondo chi scrive, non basta neanche la passione (in combinazione con la concretezza o in essenza singola) per risolvere i problemi di lungo termine delle nostre aziende.
In ogni caso questa necessità di poter toccare con mano, di stare con i piedi ben piantati per terra, di poter dimostrare risultati tangibili fa parte della ordinary life organizzativa. 
Dura la vita per gli “intangibili”. Ovvero quegli elementi “soft” e, almeno all’apparenza, così poco concreti di cui andremo a parlare ora.

QUATTRO
La teoria che stiamo per associare (con un’evidente scatto di megalomania) alle onde gravitazionali einsteniane è quella secondo cui l’ARTE potrebbe essere “l’ultima Thule” per rigenerare il sistema economico-produttivo del nostro paese.
Ma andiamo con ordine. 

Non credo sia necessario spendere molte parole per dimostrare che le nostre aziende, piccole e grandi, pubbliche e private, fanno una maledetta fatica ad andare avanti.
Si dirà “la crisi internazionale…Lehman& Brothers…la globalizzazione…l’instabilità sociale e politica…”
D’accordo. E, all’interno di questo scenario c’è chi galleggia, chi affonda e chi prospera.
Quante aziende italiane nel 2007 (annus horribilis per l’imprenditoria mondiale) hanno venduto più di 100 milioni di nuovi prodotti entrando per la prima volta in mercati a loro sconosciuti, assumendo migliaia di nuovi lavoratori, aprendo negozi fisici (cioè non virtuali) in tutto il mondo e sono ancora qui nel 2016 senza segni di arretramento?
Ve lo dico io: neanche una.

E prima ancora, quando la crisi non erano gli impiegati di Lehman & Brothers che si allontanavano mesti dai loro uffici con gli scatoloni  in mano, ma era ancor più tangibile nelle macerie fisiche dell’immediato periodo post-bellico… Quanti ebbero il coraggio di investire sulla loro azienda andando ad assumere centinaia di nuovi lavoratori contro il parere della dirigenza (che veniva d’amblè sostituita…) ? Quanti si sarebbero affidati allora all’inventiva di un ingegnere cinese (ora si direbbe un extracomunitario) per immaginare il futuro mercato dell’informatica globale? Quanti avrebbero detto (e praticato) che la fabbrica doveva essere anche “bella” e che l’azienda doveva occuparsi anche di architettura, urbanistica, assistenza sociale, arte, cultura?

I due esempi cui ho fatto riferimento erano, per chi non lo avesse già intuito, la Apple di Steve Jobs e l’Olivetti di Adriano Olivetti. Periodi storici diversi ma diverse analogie.
Due perle rare che andrebbero (e in parte già lo sono) studiate attentamente.
Ne parleremo più tardi. 

Torniamo alle aziende non guidate dagli Olivetti e dai Jobs, ovvero la quasi totalità.
All’accendersi dei semafori rossi della crisi costoro hanno scelto tutt’altra strategia .Hanno lanciato programmi di “efficientamento”, avviato piani di ridimensionamento degli organici, tagliato quasi a zero gli investimenti in ricerca e formazione.
Risultato: solo negli ultimi 6 anni (fonte il Sole 24 ore) oltre 75.000 fallimenti fra cui marchi storici come Richard Ginori, Mariella Burani, Moto Morini. Nel 2015 più di 50 imprese fallite ogni giorno. Italia al top tra i paesi Ocse: +66% rispetto al 2009.

Insomma l’applicazione del pensiero intuitivo (c’è la crisi dunque taglio dei costi, taglio degli organici, esternalizzazione attività non “core”, “lean organization” and so on) non solo non ha consentito di “tenere le posizioni”. Sembra quasi abbia accelerato le procedure fallimentari.
Invece, un po’ di anni fa,  a chi segnalava “Non c'è una sola ragione per la quale qualcuno dovrebbe volere un computer in casa propria (Ken Olsen, fondatore di Digital Equipment Corporation, 1977) qualcuno si apprestava pochi anni dopo a dimostrare il contrario.

Vogliamo chiamarlo intanto (in assenza di una definizione migliore) pensiero controintuitivo?
Il pensiero controintuitivo ci interessa da vicino in questa dissertazione, non perché ci azzecchi sempre. Ma perché sfugge agli automatismi del pensiero tradizionale.
Perché segnala un’interruzione rispetto agli schematismi cui siamo abituati. Insomma “think different” avrebbe detto il vecchio Steve. E qual è quella disciplina, (e non soltanto, si badi bene, quella singola persona particolarmente dotata…) che pratica abitualmente questa interruzione o perlomeno la coltiva, ci prova? E che si segnala al mondo quando questa interruzione diventa improvvisamente visibile? 
L’Arte, signori miei, l’Arte.

CINQUE


I tagli sulla tela di Fontana non piacciono a tutti. Ma qui noi non vogliamo parlare esclusivamente di bellezza in senso classico (ammesso che sulla Gioconda si sia proprio tutti d’accordo…).
Qui si sta parlando di “…aprire una porta dove prima c’era un muro” come direbbe Chuck Close (un pittore iperrealista americano paralizzato dalla vita in giù).
L’arte, in particolare quella che comunemente definiamo “arte contemporanea”, fa esattamente questo. Spiazza l’interlocutore, crea un’interruzione, lavora con l’inaspettato.
Ci interessa questo approccio alla realtà? Interessa alle aziende?
Per intanto accontentiamoci di un’altra saggia citazione del grande Einstein “Non possiamo risolvere i problemi con lo stesso tipo di pensiero che abbiamo usato quando li abbiamo creati”.
E andiamo avanti.

Per inciso, sempre in omaggio a questo bisogno di concretezza che ci affligge, val la pena di ricordare che la storia dell’Olivetti di Adriano e della Apple di  Jobs hanno concretamente in comune proprio l’incrocio col mondo dell’Arte.
Olivetti decise di andare per le spicce: assunse direttamente dentro un’azienda che faceva macchine da scrivere letterati come Giudici, Fortini, Volponi, Sinisgalli, Pampaloni.
Jobs si è “accontentato” di ispirare i suoi ingegneri facendo studiare loro la Testa di Toro di Picasso come modello di minimalismo ed essenzialità progettuale.


Gli incroci possibili col mondo dell’Arte sono in realtà molti di più. Ma almeno questi hanno funzionato e ne possiamo parlare per la gioia dei “concretisti”. Ma agli inizi? Quanti ci avrebbero scommesso un soldo bucato?

SEI

Suggerisco di ascoltare con attenzione la Piano Sonata n.32 in C minor, Op.111:2.Arietta
(1822) di Ludwig Van Beethoven. A metà della composizione c’è un prepotente cambio di registro (un’interruzione…) che a un orecchio musicale preparato segnala il passaggio dalla musica classica al jazz (più precisamente al ragtime).
E il jazz avrebbe visto la luce solo agli albori del 900. 70 anni circa di anticipo. 
Il grande compositore ci suggerisce che il futuro è già disponibile nel presente. Si tratta solo di andare a scovarlo. Facile solo se ti chiami Beethoven, direte voi. No, non fu facile neanche per lui se considerate che era completamente sordo dal 1815.
Un’altra interruzione.
Ma è importante sapere che il futuro possiamo individuarlo già oggi. Resta solo da capire quale e  come. E da accettare il prezzo che dovremo pagare. Tentativi, prove, fallimenti, dubbi, incertezze e i contemporanei che pretendono concretezza subito.
“E’ la ricerca, bellezza” se mi consentite di parafrasare Humprey Bogart.
 “ Se sapessimo (esattamente) quel che stiamo facendo, non si chiamerebbe ricerca” (sempre Einstein)

SETTE
Dunque ci resta ancora di capire “come fare”, attraverso l’arte, ad esplorare in anticipo il futuro (o almeno uno dei tanti possibili futuri…) dell’Organizzazione.
Abbiamo già visto due strade diverse. Una, quella di Adriano, porta a mescolare artisti e tecnici facendoli lavorare in contiguità. E forse non è un caso che la Lettera 22 sia tutt’ora esposta al Moma di New York come icona del design industriale italiano.
L’altra (quella di Jobs) prende ispirazione dall’arte.


Come avrebbe fatto più tardi qui da noi (e facciamo volutamente un salto di settore) Gualtiero Marchesi con il piatto rappresentato qui sopra deliberatamente ispirato a Jackson Pollock.
A chi non l’avesse ancora provato dirò subito che è squisito. E parlandone con Marchesi ho scoperto la sua seconda fonte di ispirazione (dopo Pollock) è poetica :

“Il poeta esiste realmente proprio in quanto ha una sua direzione, segue una sua traiettoria come l’unica via possibile, disperato perché costretto ad appropriarsi del mondo intero, colpevole per l’arroganza del volerlo definire”(Ingeborg Bachmann)

C’è una terza strada, tentata da alcuni, che consiste nel tentativo di trasformare managers e professionals in artisti. Ad esempio facendo loro prendere in mano una matita o un pennello. Oppure facendo riscoprire la manualità necessaria per plasmare una scultura.

Non mi sento di escludere a priori nessuna delle strade suggerite.
Ma il mio percorso (che è diverso da tutti quelli fino ad ora indicati) si  inserisce nel filone della cosiddetta “Arte Relazionale” e si riassume nel modello de “L’Impresa come Opera d’Arte": un laboratorio formativo ormai più volte sperimentato.
Più che di un concetto qui si sta parlando di un costrutto. Prima bisogna farne esperienza. E poi parlare delle possibili applicazioni in ambito aziendale.
Che saranno più d’una anche in funzione delle diverse culture organizzative incontrate.
Vi lascio sempre col vecchio Einstein: "Se i fatti e la teoria non concordano, cambia i fatti."

*** Massimiliano CACCAMO, consulente e formatore, responsabile di ComeNetwork, Il paradosso della concretezza in ambito organizzativo e formativo - parte 2^, per Mixtura

La prima parte di questo articolo, sempre in Mixtura, la trovate qui
Per una spiegazione del modello de L'Impresa come Opera d'Are, vedi in Mixtura qui

mercoledì 9 marzo 2016

#INEDITI / Aiuto ai profughi, e i 'fratelli delle vittime'? (Renzo Modiano)

Aiutare chi fugge da guerre, persecuzioni e stragi è un dovere a cui i popoli civili non devono sottrarsi. 
Questo è un principio morale, finalmente enunciato e in qualche misura rispettato. Oggi, sono le popolazioni del Medio Oriente ad essere investite da una tragedia epocale dovuta all’orrenda coazione a ripetere  che spinge gli uomini a perpetrare stragi, genocidi e mostruosità imperdonabili. 
Oggi, quella porzione del mondo vicina a noi è sconvolta dalla barbarie, perciò è doveroso per l’Europa accogliere gli infelici che tentano di sopravvivere.  

Però, com’è che osservando questo scenario di morte e di disperazione nessuno rilevi la mancanza di una qualsiasi forma di aiuto da parte dei "fratelli delle vittime£? 
Che domanda! Sono proprio i fratelli delle vittime gli artefici della tragedia. Si uccidono tra Sunniti, Sciiti, Salafiti, ecc…. E non si dica che tutto ciò accade per motivi religiosi e spolverati odi risalenti all’epoca del Profeta. No! E’ per prosaici motivi economici e di potere che tutto ciò accade. 

Laggiù non colpisce la mano destra, nessuno lo fa a volto scoperto, sono ancora mani nascoste e volti intabarrati a uccidere. Volti di chi? Chi c’è dietro il Califfato criminale dell’ISIS? Sparano armi provenienti non si sa da dove, pagate chissà da chi. A monte ci sono sempre manovre doppie, triple e quadruple, persino. Non c’è l’esercito dell’Iran da una parte, né dell’Arabia Saudita, dall’altra. Chi arma il Califfato? 

Forse la mano sinistra di chi lo sostiene con la destra, o con il piede di un altro. Di sicuro paga l’oro nero di chissà chi. Chi compra quello proveniente dal Califfato? Chi è con Assad, che col veleno fa strage del suo stesso popolo? L’aviazione russa quale ISIS bombarda? Questo si sa: nessun ISIS bombarda, bensì i fratelli siriani che tentano di opporsi al tiranno. E l’Iraq con chi sta? Un pezzo  di qua, un pezzo di là…  e i Curdi? Tutti li vogliono far fuori, Turchia per prima, membro della NATO e aspirante ad entrare in Europa. Chi li difende? Ovviamente nessuno, non hanno nemmeno il petrolio!

Osservando un covo di serpenti si assisterebbe ad uno esempio di linearità straordinaria rispetto allo scenario mediorientale che si prospetta ai nostri occhi! 
Va bene, è il modo di agire di quella gente, ma la tortuosità può giustificare Stati, straricchi che nulla versano a chi accoglie le loro vittime? Non sono i loro fratelli a soffrire? Perché nessuno pretende che Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Iran ecc. rinuncino a qualche rubinetto d’oro, a far piste di sci nel deserto, a riprodurre Venezia nel Golfo Persico, o a tirar su l’ennesimo grattacielo e insistano in simili idiozie e non aiutino i disgraziati che loro stessi hanno ridotto in quelle condizioni? 

Venendo a noi. Non dovremmo chiedere una sorta di pagamento di danni di guerra. In punta di Diritto non c’è alcun colpevole. Non è il Diritto a giustificare la pretesa di attenuazione del danno materiale arrecato: è la Ragione a suggerirlo. 
Non si tratta di punire, ma è pur vero che non è all’esterno che si è generata la tragedia. Non è da Ovest, o da Est, da Nord o da Sud, che è partito il primo colpo di cannone, allora perché i protagonisti non debbono farsi carico, in qualche misura, dell’incommensurabile costo materiale – e politico - che le loro guerre stanno scaricando sull’Europa?

Se anche un solo filo di logica esistesse, l’Islam dovrebbe arrestare la strage nata nel proprio ventre, ma al momento ciò è impensabile. Ormai all’apprendista stregone è sfuggito di mano il fenomeno e nessuno trova più il bandolo della micidiale matassa.

Noi europei abbiamo il diritto di volgere lo sguardo in casa nostra: il costo del caos attuale non è insopportabile per la sua entità economica, lo è per il risveglio che provoca in casa nostra di devastanti ideologie nazionaliste e razziste. 
Questo è il vero costo insopportabile che abbiamo già cominciato a pagare. Fuori di metafora, l’estrema destra, che sta risorgendo in tutta Europa, quasi non esisteva prima che il flusso di immigrati la invadesse. Se l’Europa non può intervenire in guerra conservi il suo diritto di opporsi alla rinascita in casa propria del razzismo, del fascismo, del nazismo, persino. Deve combattere i germi che hanno già fatto rivivere. Germi che, incolpevoli, portano con sé i profughi. L’accoglienza, si sa, non è mai stata una pratica facile e naturale, meno che mai in momenti difficili quali sono quelli che viviamo. Per noi europei non è in gioco qualche punto del PIL, sono in gioco i principi politici e morali, conquistati nel secolo scorso a prezzo indicibile.

Perché nessuno osa dire l’ovvietà che ho appena detto io?... 
Temo sia per non infastidire i satrapi arabi, già padroni dell’Inghilterra, che spendono i loro spiccioli per comprare ciò che di meglio c’è ancora in Europa.

*** Renzo MODIANO, scrittore, già direttore di Personale e Organizzazione in una grande azienda, L'aiuto ai profughi, per Mixtura


* In Mixtura altri 2 contributi di Renzo Modiano qui (compresa una mia recensione al suo ultimo libro "La verità è una bugia non scoperta", Mimesis, 2015).
* Sempre in Mixtura un'altra mia recensione al suo libro "Di razza ebraica", Mimesis, 2014, qui)

lunedì 15 febbraio 2016

#INEDITI / Concretezza, il paradosso in organizzazione e formazione (Massimiliano Caccamo)

UNO
Trentacinque anni fa quando ho cominciato ad occuparmi di formazione all’interno della mia prima azienda (Pirelli) mi sono imbattuto quasi subito nella “domanda di concretezza”.

Il pubblico interno, sia di staff che di line voleva “concretezza”, esigeva iniziative di formazione che fossero concrete ovvero “aderenti alla realtà “(cit. Dizionario Garzanti) o, per dirla in altri termini,  “utili”.

La critica degli utenti partiva all’istante in alcune situazioni-tipo. 
Ne citerò un paio che mi sembrano emblematiche

(1) - Quando veniva invitato ad esporre, su un determinato tema, un professore universitario. Se era della vecchia scuola “trasmissiva” questo richiamava una doppia critica: una sul “cosa” (teorie distanti dalla realtà di tutti i giorni) e una sul “come” (parole, parole parole…)
In più le esemplificazioni (specie in campo innovativo) facevano riferimento a realtà lontane chilometricamente e culturalmente (gli USA) ed era dunque facile sbeffeggiarle.
Per finire i capi aspettavano solo il pretesto giusto per segnalare ”che c’era da fare” e “non c’era tempo da perdere” con teorie inapplicabili.

(2) - Quando si metteva in discussione una determinata strumentazione di lavoro, per sostituirla con una nuova. Molte persone a cui era richiesto di cambiare le macchine da scrivere coi pc andavano in crisi e obiettavano che “erano lenti e inaffidabili”. Più avanti non si riusciva a capire perché sostituire i mainframe con l’informatica distribuita. Più avanti ancora,  agli albori del multimedialismo, mi sono sentito dire che non si potevano sostituire le circolari interne con le mail o un sistema televisivo perché “così si svilisce la circolare”. Tutti esempi di identificazione di una professione o di un ruolo con lo strumento che ha fatto da corredo al percorso iniziale di apprendimento del mestiere. Infine ho lavorato con un capo che aveva liquidato l’avvento di internet come “una bolla di sapone”.

Di recente abbiamo la verifica sperimentale delle onde gravitazionali intuite da Einstein 100 anni fa. C’è ancora qualcuno che pensa “cosa me ne faccio delle onde gravitazionali?”
In realtà come ci ricorda Luca Perri “quella teoria ci ha portato ai satelliti, ai cellulari, ai laser e a qualche fonte di energia (pure a una bomba, ma quella è mica colpa di Albert...)”

DUE
C’erano solo un paio di posti in azienda in cui si parlava poco di concretezza. Anzi, se ti presentavi con l’idea di far adottare a loro strumenti di misurazione dell’efficacia, ti guardavano come un matto. Erano il reparto Ricerca e Sviluppo e quello di Marketing Strategico. Non a caso per loro natura votati ad esplorare futuri possibili ma non ancora, appunto, concretizzati
E forse è il caso di ricordare che è proprio da lì che sono uscite quelle due o tre idee che hanno aumentato a dismisura il valore economico dell’azienda, garantendone la permanenza sul mercato per alcuni decenni. 

Trentacinque anni dopo siamo qui ancora a discutere  (e a finanziare) idee caratterizzate  da una percezione di concretezza e di utilità a breve.
Abbiamo dimenticato in fretta che se avessimo prese per buone le istanze di concretezza  delle segretarie di allora oggi saremmo ancora in giro col bianchetto per fare le correzioni.
Trentacinque anni dopo abbiamo sacrificato sull’altare della concretezza gli investimenti in formazione e ricerca. La ricerca dev’essere applicata, la formazione addestrativa.

Ma guardatevi un po’ in giro, se vi sta a cuore il futuro. Cercate le mosche bianche che autofinanziano (a prezzo di grossi sacrifici)  programmi che non contengono, per definizione, la tanto auspicata concretezza, le istruzioni per l’uso, le ricettine della nonna Mariuccia. 
La formazione deve fare ricerca. E se queste iniziative sono rare, non ci va quasi nessuno, se l’azienda non le paga volentieri siete sulla strada giusta. Se non rispondono a bisogni diffusi è un buon segno. Perché, come ha scritto il saggio scopritore delle onde gravitazionali  “non c’è niente di più pratico di una buona teoria”.

*** Massimiliano CACCAMO, consulente e formatore, responsabile di ComeNetwork, Il paradosso della concretezza in ambito organizzativo e formativo, per Mixtura


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sabato 30 gennaio 2016

#INEDITI / 'Dress Code', l'insostenibile pesantezza del conformismo (Valerio Bianchi)


Domenica scorsa ho pranzato con un mio carissimo amico, col quale ci conosciamo dall’infanzia. Ci siamo laureati insieme in Economia, frequentando la stessa Università. Poi i nostri percorsi si sono divaricati: io ho lavorato sempre e solo nel settore pubblico, lui sempre e solo in quello privato.

Ci è capitato spesso di confrontare le rispettive esperienze di lavoro (ormai quasi ventennali per entrambi!) e nel farlo abbiamo sorriso delle differenze tra i nostri due mondi: diversi modi di entrarne a far parte, di fare carriera; diversità di valori di riferimento, di orari di lavoro e così via. Domenica la discussione si è soffermata sul dress code, cioè sull’abbigliamento richiesto in ufficio e sui relativi gradi di prescrittività.


E stavolta (mi perdonerà il mio amico) un senso di disagio si è impadronito di me. Francesco (nome di fantasia) ha preso spunto dalla mia abitudine – deprecabile a suo dire – di indossare dei sandali semichiusi nei mesi estivi, assolutamente inadeguati ad un posto di lavoro secondo il suo giudizio. Pungolato dalla “provocazione”, gli ho spiegato fra il serio e il faceto che per me è molto importante tenere i piedi al fresco nei torridi mesi estivi romani e che di questa frescura ne beneficia anche la mia capacità di concentrazione, dunque in ultima analisi la produttività. A sostegno della tesi ho aggiunto che vestendoci in maniera più leggera (anziché in giacca, cravatta e mocassini) c’è un minor consumo energetico d’estate. E che tale beneficio dovrebbe far passare in secondo piano tante vuote considerazioni “stilistiche”.

La sua controreplica però è stata oltremodo ficcante e ha passato in rassegna tutte le prescrizioni che il suo impiego gli impone, ma che lui giudica del tutto normali. Anzi di più: comprensibili e raccomandabili. Eccone alcuni esempi: 1) i completi da uomo possono essere solo grigio scuri o blu. Al limite lievi variazioni su queste tonalità. Le altre colorazioni sono bandite; 2) le camicie non possono avere il taschino né il colletto “botton down”, ma rigorosamente alla francese; 3) i pantaloni da abbinare a uno spezzato devono comunque essere di sartoria e di taglio classico (no jeans o similari). 

E così via in un agghiacciante crescendo di questo repertorio del conformismo. L’apice è stato raggiunto quando Francesco mi ha detto che sono proibiti anche le camicie a maniche corte e i calzini bianchi. “Su questo concordo anch’io”, gli ho risposto, “ma semplicemente perché sono molto brutti entrambi”.

Più tardi ho cercato di capire quale fosse il senso, l’utilità ricavata da questa rigorosa elencazione. Sul cui controllo peraltro pare si soffermi a lungo e con grande acume l’attento occhio degli addetti alle Risorse Umane. 
Lui mi ha risposto con una metafora o almeno credo che lo fosse: “Se sei un professionista o lavori presso un cliente, devi essere ESTERNO (sic!) al loro contesto”. 
“E lo sei grazie al colore dell’abito?”, replico io. 
“Sì, perché sottolinea il tuo senso di neutralità”.

Ora non so a voi l’effetto che fa questa roba, ma a me suscita uno spontaneo e irrefrenabile senso di comica repulsione. Perché tanto raggelante conformismo? A cosa serve mimetizzarsi in questi codici e imporne il rigoroso rispetto? Soprattutto come fanno certe organizzazioni a garantirsi una così ampia ed acritica adesione da parte dei loro dipendenti? Perché il senso della discussione era che tutto ciò fosse non solo lecito, ma persino ovvio, scontato e ben accetto nella cultura organizzativa di riferimento.

Concludo con una domanda: sono davvero queste le organizzazioni più virtuose ed efficienti del nostro Paese? Sono proprio loro il paradigma cui dovremmo uniformare i nostri stili manageriali e i codici comportamentali? Sono soltanto questi i “valori” che il mondo produttivo riesce a promuovere e a diffondere?

Al termine della chiacchierata col mio amico mi sono guardato i miei abiti (maglione rosso fuoco, jeans scoloriti, scarpe da ginnastica) e gli ho detto: “Io domani sarei potuto andare così in ufficio. Da te non andrebbe bene?”. Lui mi ha guardato con perplessità e mi ha risposto: “Mah…tendenzialmente no, ma se fosse stato venerdì…”. 

Era una chiara allusione al “casual Friday”, cioè all’attenuazione (anch’essa prescritta!) del rigore conformistico che queste organizzazioni consigliano o tollerano nell’ultimo giorno lavorativo della settimana.
Dentro di me ho pensato che per fortuna l’indomani, almeno nel mio mondo, sarebbe stato un semplice, banalissimo e normale lunedì.

*** Valerio BIANCHI, L'insostenibile pesantezza del dress code, inedito, per Mixtura.


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