Non ogni donna ha un'attitudine alla maternità. Che esista un “istinto materno” in ogni singola donna è un arbitrio sociale. Per quasi tutti i popoli antichi la maternità era l'obbligo di pressoché ogni donna, di solito facilitato da modelli sacri, le dee madri. Rifiutare la maternità era dunque una colpa “civica” e al limite “religiosa”. Oggi, anche nell'Occidente moderno, da quando i valori del cristianesimo e in particolare del cattolicesimo sono stati “naturalizzati” (cioè interpretati come “naturali”), si ritiene che l'impulso psicologico alla maternità risponda ad una norma biologica, cioè che sia un “istinto”. Di conseguenza, le donne che non sentono questo presunto istinto vengono percepite come psichicamente “anormali”, cioè affette da una “perversione” morale o affettiva.
Se la maternità fosse un istinto biologico universale, tutte le donne sentirebbero un identico impulso a restare incinte, a partorire e ad accudire con amore il proprio bambino. Ma non è così. Mentre ogni bambino, per istinto, gira il viso verso il seno o il biberon per nutrirsi, non ogni donna desidera restare incinta, partorire e accudire un figlio. Con ogni evidenza, esiste una quantità di donne che non desiderano avere figli né vogliono accudirli, anche se percependo questo desiderio negativo e questa incapacità spesso si vergognano e si sentono in colpa.
Ogni donna nasce con una personalità distinta, e come tale ha la facoltà di scegliere, secondo la sua natura psicologica (caratteriale), se avere un figlio oppure no. Alla specie homo sapiens non interessa che ogni essere umano si riproduca, ma che a farlo sia il gruppo etnico (che è la sua unità biologica minima), e che ognuno, all'interno dell'etnia, svolga una sua funzione, più o meno utile. Questa inconscia “intelligenza di specie” agisce nel senso di generare un numero indefinito di donne dotate di eccellenze affettive e intellettuali che non si sentono affatto “destinate” alla maternità, ma che, se lasciate libere, troverebbero altri scopi, non meno degni, alla loro vita (come dimostrano le tante scienziate, artiste, intellettuali, religiose, patriote, donne impegnate negli affetti e nei valori che non hanno avuto figli e non ne hanno sofferto).
Purtroppo, le culture religiose (perlopiù eredi delle società patriarcali arcaiche) insistono che la natura della donna sia di generare figli e non per esempio affetti, amori, ambienti, oggetti, idee, opere d'arte, sistemi sociali e di valori. La gran parte delle culture religiose e purtroppo anche tante teorie psicologiche colpevolizzano l'impulso di tante donne a vivere secondo scopi personali che non includono la maternità. Questa insistenza, interiorizzata come codice psichico normativo, diventa in molte donne una vera e propria ossessione, portatrice di incertezza, ambiguità e patologia. Quelle che esitano a lungo e superano la fatidica soglia biologica (40/50 anni) senza avere figli, spesso si colpevolizzano per la loro scelta, che talvolta negano, come se fosse stata provocata da fattori casuali e indesiderati, talaltra riconoscono come propria ma ripudiano su un piano morale. In entrambi i casi l'esito è una depressione. Altre donne, prima della soglia fatidica, si ostinano nel tentare approcci sentimentali fallimentari o percorsi medici costosi e devastanti pur di sentirsi “normali”. Altre ancora, impongono ai loro compagni, anche non amati, una una vera e propria “estorsione biologica”, e questi diventano padri a loro volta non volendolo. Naturalmente anche in questi casi l'esito è la depressione, il conflitto, l'occultamento di una bassa autostima e di una identità interna percepita come negativa.
Non di rado, l'immagine interna negativa genera in queste donne gelosie ossessive, persino paranoiche: l'idea che il compagno desideri una donna più giovane, più fertile, più femminile, più materna. Altre volte, se il compagno non c'è, l'idea di essere destinate al ripudio da parte di qualunque uomo e di chiunque, parenti e amici, quindi di essere condannate ad una solitudine senza scampo.
Lo psicoterapeuta dialettico dovrebbe essere in grado di leggere in queste drammatiche esperienze femminili il conflitto di valori che le sommuove. La teoria psicologica dovrebbe mettersi in grado di cogliere dati di semplice e immediata realtà culturale e sociale oltre che psicologica, per restituire alla paziente il diritto alla propria innata dignità e quindi a rivendicare come scelta ciò che i valori esterni (interiorizzati ma parassitari) le hanno imposto. Se la cultura corrente (interiorizzata nel Super-io) risponde al suo rifiuto di maternità con un giudizio ottuso e impietoso di “anormalità psichica” e di “difetto morale”, lo psicoterapeuta dovrebbe essere in grado di funzionare come "specchio dell'interiorità", cogliendo il valore intrinseco della persona che ha di fronte e la necessità di ripristinare la sua libertà morale nei confronti della coercizione ambientale.
Naturalmente, quanto detto fino ad ora non nega affatto che molte donne che diventano madri pur non volendolo possano scoprire inattese capacità materne e essere adeguate al ruolo più di altre che fanno della maternità più uno status simbol che una complessa esperienza esistenziale.
*** Nicola GHEZZANI, psicoterapeuta e saggista, L'ossessione della maternità, facebook, 23 gennaio 2016, qui
Nessun commento:
Posta un commento