È un brutto segno per tutti, in fondo.
Dico: in generale, se si scende in piazza per parlare di famiglia, è un brutto segno.
Perché vuol dire che lì ci ha riportato, come in una grande risacca, la tempesta globale di questi anni: alla famiglia. Cioè alla struttura sociale e affettiva più basilare. Quella fondamentale, la prima di cui ciascuno è circondato.
Quella oltre la quale si costruiscono le altre reti sociali e affettive: come le amicizie autentiche e profonde, ad esempio, che vengono subito dopo; e poi, l'essere compagni di comuni ideali politici o credo spirituali; quindi lo stare insieme per un obiettivo magari sindacale, lavorativo, creativo o anche più piccolo e magari solo di quartiere; via via verso le forme meno intense ma comunque appaganti, chessò, la festa di un pomeriggio e perfino i colori comuni di una squadra sportiva.
La socialità - l'essere società, anziché solo individui atomizzati - è fatta di tanti strati diversi. Da quelli più profondi a quelli più superficiali. Da quelli più indispensabili a quelli più voluttuari.
Noi oggi stiamo qui a litigare sul primo guscio, quello familiare.
Non è un buon segno, dunque: almeno per chi crede nell'essere umano come sociale. Per chi crede, al contrario di Thatcher, che oltre l'individuo esista la società, anzi che questa sia fondamentale proprio per la persona. Per chi crede che l'interrelazione sia molto, se non tutto, per ciascuno e ciascuna di noi: che sia importante almeno quanto i punti tra i quali si crea, proprio come le sinapsi sono importanti almeno quanto le cellule che mettono in contatto.
Insomma, per chi crede che nessuno possa essere felice da solo.
Questo nostro concentrarci sulla famiglia forse rivela che tutte le altre relazioni sono a pezzi. Quelle sociali, politiche, ideali, spirituali, lavorative, ludiche, locali.
Ci urla la solitudine del cittadino globale, atomizzato e perduto nel grande nulla del neocapitalismo.
Che quindi si aggrappa al suo guscio più vicino e indispensabile, la famiglia.
I cattolici fondamentalisti, i più impauriti di tutti, convinti che negare una famiglia agli altri dia più forza e solidità alla loro: e che illusione sciocca, mamma mia.
Ma un po' anche noi ci aggrappiamo all'unico guscio che ci hanno lasciato: noi che saremo nelle piazze oggi per difendere una banale ed evidente uguaglianza di diritti.
Anche noi, dicevo, in fondo siamo lì perché non c'è più altro legame sociale della famiglia - e almeno quello vogliamo che a tutti e tutte sia riconosciuto, visto che a tutte e tutti sono stati strappati tutti i legami sociali successivi, tutti quelli che l'individualismo ha progressivamente disgregato e reciso.
Ci hanno lasciato solo la famiglia, almeno che tutti ne abbiano diritto, diremo noi oggi in piazza.
Ci hanno lasciato solo la famiglia e la vogliamo solo per noi, diranno in piazza quegli altri sabato prossimo.
Ovvio chi sta messa peggio, delle due compagini, ma è un segno brutto per tutti. Perché la famiglia sta ai bisogni sociali come il pane sta a quelli alimentari. E sul diritto al pane ormai siamo qui a litigare.
Punto a un giorno in cui nessuno scenda in piazza per nessuna famiglia: perché ciascuno avrà la sua, come gli pare, e gli obiettivi di interazione sociali potranno essere dunque meno difensivi, meno fondamentali - e perfino più voluttuari, più lussuosi.
Il pane ma anche le rose, nella vita sociale e affettiva così come in quella economica.
*** Alessandro GILIOLI, giornalista e saggista, La famiglia, il pane di noi atomi, blog 'piovono rane, 23 gennaio 2016, qui
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