Friedrich DÜRRENMATT, "Il giudice e il suo boia", 1952, Adelphi, 2015
traduzione di Donata Berra
pagine 121, € 15,00, eboook € 10,49
Diabolico
Asciutto, cupo, inquietante. Sono i tre aggettivi che subito mi vengono in mente per sintetizzare il sentimento che mi ha trasmesso questo libro di Friedrich Dürrenmatt. Ma ce n'è un quarto, ancora più appropriato: diabolico. E la ragione si scoprirà nel finale.
L'autore non ha certo bisogno di presentazioni. Questo è il suo primo romanzo poliziesco, scritto nel 1952. Ed è magistrale. Per trama, avvincente nella sua essenzialità; e scrittura, nello stesso tempo secca ed elaborata
Poco più di un centinaio di pagine che si leggono di corsa, ma con un certo turbamento: anche per l'atmosfera pesante, fosca, 'incavata', che pare restare in bianco e nero pure nelle pochissime descrizioni di paesaggio illuminate dal sole.
La storia è semplice e parte da una scommessa perversa pattuita in gioventù, tra una bevuta e l'altra in una bettola sul Bosforo, tra l'allora giovane poliziotto Bärlach, oggi commissario vecchio e malato, e un giovane privo di scrupoli, Gastman, oggi ricco avventuriero e con una visione amorale della vita mai mutata.
Quella volta Gastman si era detto sicuro di riuscire a commettere qualunque delitto sfuggendo ad ogni possibile incriminazione. Aveva fornito la prova il giorno seguente: sotto gli occhi di Bärlach, aveva gettato dal ponte uno sconosciuto, riuscendo a far credere a tutti che il malcapitato si fosse suicidato.
I due si ritrovano a distanza di oltre quarant'anni in occasione dell'assassinio di un funzionario di polizia: Schmied, trovato misteriosamente ucciso. Con loro, altro personaggio chiave della vicenda è Tschanz, un giovane poliziotto in carriera cui Bärlach si appoggia per dare la caccia a chi ha ammazzato Schmied.
Come in ogni poliziesco, si aspetta la conclusione con trepidazione: ma qui l'abilità particolare dello scrittore sta nel centellinare la tensione restando rigorosamente all'essenziale per poi calare, alla fine, quello che appare davvero l'asso della sorpresa.
Il gioco degli incastri è perfetto e si chiudono le pagine con una certa ambivalenza: ammirazione per l'autore, e la sua conduzione raffinata della storia, e desolazione per i personaggi, tristi e disperati nella loro solitudine e pochezza morale.
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
«
Bärlach e Lutz rimasero fermi presso la tomba. Il vecchio sentì qualcuno piangere. Era la signora Schönler, grassa e informe nella pioggia incessante, vicino a lei Tschanz, senza ombrello, con l’impermeabile dal bavero rialzato e la cintura penzoloni, in testa un cappello rigido e nero. Di fianco a lui una ragazza, pallida, a capo scoperto, i capelli biondi sparsi a ciocche fradice sulle spalle, è Anna, si sorprese a pensare Bärlach. Tschanz fece un inchino, Lutz solo un cenno, il commissario rimase impassibile. Guardò gli altri intorno alla fossa, tutti poliziotti, tutti in borghese, tutti con lo stesso impermeabile, lo stesso cappello rigido e nero, gli ombrelli impugnati a mo’ di sciabole – stravagante scorta funebre, radunata lì da chissà dove, irreale nel suo aspetto contegnoso. E alle sue spalle, a ranghi scaglionati, la banda municipale, racimolata in fretta e furia, musicanti dalle uniformi rosse e nere che cercavano disperatamente di proteggere sotto il cappotto i loro strumenti dorati. Stavano tutti intorno alla bara deposta lì: una cassa di legno, senza corone, senza fiori, eppure l’unico ricetto caldo e protettivo in quella pioggia battente che scendeva uniforme, scrosciante, sempre di più, sempre più implacabile. Da un po’ il pastore aveva smesso di parlare. Nessuno se n’era accorto. C’era solo la pioggia, si sentiva solo la pioggia. Il pastore tossì. Una volta. Poi più volte. Allora i bassi, i tromboni, i corni da caccia, le cornette, i fagotti presero a mugghiare, fieri e solenni, lampi dorati nelle fiumane della pioggia; poi anch’essi vennero sommersi, spazzati via, si arresero. Tutti si rintanarono sotto gli ombrelli, sotto i cappotti. Pioveva sempre più forte. Le scarpe affondavano nella melma, l’acqua scendeva a ruscelli nella fossa vuota. Lutz fece un inchino e qualche passo avanti. Guardò la bara grondante, s’inchinò di nuovo.
«Uomini» disse da qualche parte nella pioggia, con tono quasi impercettibile attraverso le cortine d’acqua: «Uomini, il nostro collega Schmied non è più». (Friedrich Dürrenmatt, Il giudice e il suo boia, 1952, Adelphi, 2015)
«Non la smetterò mai di braccarti. Prima o poi riuscirò a dare le prove dei tuoi delitti».
«Devi sbrigarti, Bärlach» rispose l’altro. «Non ti rimane molto tempo. I medici ti danno ancora un anno di vita, se ti fai operare subito».
«È vero» disse il vecchio. «Ancora un anno. E ora non posso farmi operare, ora devo battermi. È la mia ultima occasione».
«L’ultima» confermò l’altro, e poi tacquero di nuovo, per un tempo infinito; rimasero seduti lì a tacere.
«Sono passati più di quarant’anni» riprese Gastmann «dal nostro primo incontro in una scalcinata bettola ebraica sul Bosforo. Allora la luna, un tocco di emmental informe e giallo appeso fra le nuvole, ci rischiarava la testa attraverso le assi marce, me lo ricordo bene. A quel tempo, Bärlach, tu eri un giovane specialista della polizia svizzera chiamato al servizio dei turchi per raddrizzare non so più che cosa, e io – be’, io ero un avventuriero, allora come oggi, un giramondo con la sete di conoscere questa mia unica vita, e questo altrettanto unico, enigmatico pianeta. Provammo immediata simpatia l’uno per l’altro, seduti faccia a faccia tra ebrei in caffettano e sordidi greci. Ma non appena tutti quei diabolici intrugli che allora ci scolammo, quei succhi fermentati di chissà quali datteri e quei mari di fuoco distillati da un grano esotico coltivato dalle parti di Odessa, e tracannati a garganella, s’impadronirono di noi, i nostri occhi si misero a dardeggiare nella notte turca come carboni ardenti, e il nostro dialogo s’infiammò. Oh, adoro ripensare a quell’ora, che ha deciso della tua vita e della mia».
Rise.
Il vecchio stava seduto in silenzio, e lo guardava. (Friedrich Dürrenmatt, Il giudice e il suo boia, 1952, Adelphi, 2015)
«Forse Gastmann ha fatto del bene più di noi tre, seduti in questa stanza sbilenca» continuò lo scrittore. «Se lo definisco malvagio è perché opera il bene per capriccio, per un estro improvviso, e allo stesso modo opera il male, di cui lo ritengo senz’altro capace. Il male non lo farà mai per ottenere qualcosa – al contrario di chi delinque per arraffare denaro, per conquistare una donna o il potere –, lo compirà invece quando non ha alcun senso farlo, perché in lui vi sono sempre in potenza due cose: il bene e il male, e a decidere è il caso».
«Lei lo deduce come se fosse matematica» ribatté il vecchio.
«È anche matematica» rispose lo scrittore. «Se ne potrebbe costruire il rovescio nel male, allo stesso modo in cui si costruisce una figura geometrica come immagine speculare di un’altra, e io sono sicuro che un uomo simile esiste – chissà dove –, forse lei lo incontrerà. Quando si incontra l’uno, si incontra l’altro». (Friedrich Dürrenmatt, Il giudice e il suo boia, 1952, Adelphi, 2015)
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