Ancora un episodio di “Stranasanità”.
Siamo sempre a Roma, stavolta presso il Centro cefalee di un importante ospedale pubblico della Capitale. Sono in cura qui da alcuni mesi per cercare di capire le cause dei miei ricorrenti mal di testa e, soprattutto, per cercare una cura efficace.
Ho una visita di controllo fissata da diversi mesi e, nonostante sia una caldissima e piovigginosa mattina lavorativa di giugno, mi reco con puntualità all’appuntamento. Anzi, per la verità sono in anticipo di mezz’ora rispetto all’orario prefissato (ore 9:00) perché vorrei fare presto e correre a lavoro.
Quando arrivo trovo la prima sorpresa: le ore 9:00 sono un orario generico valevole per tutti, prime visite o controlli non fa differenza. In sala d’attesa infatti c’è già parecchia gente. Ritiro comunque il numero dal distributore automatico e poi scendo in cassa a pagare il ticket, tanto farò in tempo prima che mi chiamino.
Questo ospedale ha una peculiarità: il ticket per ogni prestazione medica si può pagare solo allo sportello dinanzi all’operatore. Niente bonifico, niente pagamento Sisal dal tabaccaio, niente addebito tramite smartphone. Solo il vecchio e usurato contante.
E qui trovo la seconda sorpresa: c’è una fila ciclopica ai due (soli) sportelli del grande ospedale, pare dovuta a un malfunzionamento del loro sistema operativo. Mi rassegno ad aspettare e mi siedo in attesa. 5 minuti. 10 minuti. 20. 30. La fila proprio non cammina, avranno fatto due numeri da quando sono qui. 40 minuti e la cassa ancora non va.
All’improvviso dal piano di sopra, dove si fanno le visite, scende una signora tutta trafelata: “Stanno chiamando anche senza il pagamento!”.
La signora ci mette al corrente che i medici stanno visitando anche senza il preventivo pagamento del ticket, dato lo stallo della procedura.
Forte delle mie lunghe gambe, peraltro allenate dall’inseguimento quotidiano dei miei figli, in pochi balzi torno su, tiro fuori il numeretto stropicciato che avevo preso appena giunto e finalmente entro per la visita.
Come la prima volta, anche in questa occasione i due medici siedono dietro una piccola scrivania: uno mi guarda appena, l’altro parla al telefono. Il primo mi fa cenno di sedermi su una sedia posta di fronte a loro. Per un attimo torno con la memoria agli esami universitari di vent’anni fa, ma scaccio con foga quell’immagine assurda.
«Allora come va?», mi domanda il primo medico.
«Non molto bene», faccio io. E proseguo: «Ho avuto diversi episodi, come vede dal diario delle cefalee, l’ultimo dei quali particolarmente debilitante e…».
«Ma sono solo quattro episodi da gennaio ad oggi, meno di uno al mese!», replica il dottore.
«Sì, ma…», cerco di aggiungere io.
«Ha comprato poi gli occhiali da sole? Lo sa che la sua cefalea è dovuta al riverbero della luce, no?», domanda il medico.
«Sì, li ho comprati», rispondo allibito.
«Bene. Allora direi che ci vediamo fra altri tre-quattro mesi per un altro controllo», conclude il dottore. E poi aggiunge: «Non dimentichi il pagamento in cassa. Quando l’avrà fatto torni su a portarci copia della ricevuta!».
Esco dalla stanza. L’aria è ancora più afosa. Un leggero mal di testa comincia ad affacciarsi all’orizzonte. Sudo, ho molto caldo. Scendo di nuovo in cassa e vedo che manca solo un numero rispetto al mio.
Dopo pochi (altri) minuti mi chiamano.
Ennesima sorpresa: l’operatore allo sportello mi dice che la mia impegnativa non va bene: la dicitura 'Visita neurologica di controllo per cefalea' non è corretta.
«Avrebbe dovuto far scrivere soltanto 'Visita di medicina interna per cefalea', ma dato che ormai è qui il mio collega accanto le regolarizzerà il tutto», mi spiega l’addetto.
«Ma perché non può farlo lei?», domandò incredulo.
«Solo lui è abilitato», conclude con aria distaccata.
A quel punto divento furibondo. Al secondo operatore chiedo spiegazioni sulla presunta scorrettezza della mia impegnativa:
«Chi mi ha visitato non era forse un neurologo? Era magari un salumiere?», dico provocatoriamente alzando la voce.
«Lo vede che lei parla senza sapere le cose!», replica stizzito l’altro dietro il vetro. «La visita che lei ha fatto è presso il reparto di Medicina interna, non di neurologia! E ringrazi che gliela accettiamo comunque la sua impegnativa».
Pago il ticket e torno su. Il mal di testa monta pericolosamente, ma devo ancora consegnare la ricevuta che comprova il pagamento.
L’infermiera apre la porta e a quel punto mi intrometto:
«Devo consegnare la ricevuta. Ah, voglio anche dire ai dottori che non intendo tornare al prossimo controllo».
«Non serve che faccia perdere tempo ai dottori per questa cosa», replica l’infermiera, «li informo io».
«No, voglio farlo personalmente», ed entro in stanza.
A quel punto la rabbia è sbollita. Riesco a mantenere la voce bassa e a non insultarli. Esprimo tutte le mie doglianze per l’andamento del servizio pubblico da loro erogato e per lo stile medico di tipo ottocentesco. Stavolta mi stanno a sentire. Buona parte delle mie lamentele se le prendono senza battere ciglio. Sugli aspetti più strettamente medici obiettano qualcosa. Ma ormai sono io che non ascolto più.
Quando esco sono quasi le 10:00. So che non arriverò più in orario al lavoro, è inutile correre. Decido che mi posso concedere un cappuccino con tutta calma, in quel bar dove lo fanno buono.
Mi accorgo anche che il mal di testa è scomparso.
Allora di colpo capisco il loro segreto: si comportano così perché sanno che una botta di adrenalina guarisce i loro pazienti!
Guardo il foglio con la data del prossimo controllo e dentro di me penso che tutto sommato a settembre potrei anche ritornarci.
*** Valerio BIANCHI, per Mixtura
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