sabato 27 giugno 2015

#FAVOLE & RACCONTI / La partita della vita (M. Ferrario)

Grande Vecchio aveva fatto di tutto per evitare l’incontro. 
Dalle poche cose che gli erano state anticipate, sapeva che, se avesse accettato, avrebbe dovuto assumersi una grande e terribile responsabilità nei confronti di almeno due persone. Per questo, aveva più volte fatto giungere il messaggio al Marchese della Valle che non se la sentiva, che era meglio se suo figlio si rivolgeva ad altri, «che lui non era il saggio che tutti dicevano, era soltanto un vecchio che cercava di vivere tra le montagne, in pace con la vita, con il cielo e con la terra, in attesa di ricongiungersi, quando il destino avesse voluto, ma ormai sempre più a breve, con lo spirito del tutto… »

Ma il Marchese della Valle aveva insistito, incurante delle sue resistenze. 

Ed ecco, ora era lì, davanti a Grande Vecchio: il suo volto si era rigato di lacrime mentre raccontava prima della dissolutezza del figlio e poi della sua volontà di redimersi. 
«Soltanto voi, Grande Vecchio, potete aiutarlo. La vostra fama oltrepassa mari e monti, tutti sanno che avete raggiunto l’essenza della vita, tutti riconoscono che il vostro equilibrio attinge alla pienezza dell’essere. Se parlate a mio figlio, lui non potrà restarvi indifferente. Seguirà i vostri consigli: finalmente diverrà uomo». 

Grande Vecchio, allora, era stato chiaro, e anche un po’ duro.
 «Temo ci sia un equivoco, signor Marchese. Io non ho consigli da dare. Io non so aiutare nessuno. Fatico ad aiutare me stesso: non ho lumi da regalare. E se pure li avessi, non li darei. Non servirebbero. Chi ha bisogno di aiuto ha soprattutto bisogno di sapere di doversi aiutare da sé. Nessuno può obbligare un cavallo a bere. Tutt’al più si può portare il cavallo alla fontana. Ma è il cavallo a decidere. L’uomo non è diverso. I consigli, quando si danno, servono a chi li dà. Per calmare il nostro bisogno di aiutare: un bisogno non sempre buono e che comunque spesso produce cose cattive. Come i danni che fa l’amore». 

Il Marchese della Valle finse di capire. Insisteva. 
«Da voi possono venire solo parole giuste e le parole giuste portano azioni buone. Basterà che lui vi ascolti, Grande Vecchio, e troverà finalmente la strada. Scoprirà ciò che conta. Vi prego…»

Grande Vecchio si era sentito tirare il giaccone da dietro: un tocco leggero ma preciso, che voleva passare inosservato. Piccolo Uomo, il ragazzino che per il terzo anno passava le estati con lui e al quale lui era affezionato come a un figlio, era stato finora in disparte, fingendo di rassettare la grotta e di preparare la cena. Ma aveva ascoltato tutto e un po’ si era commosso e un po’ si era incuriosito. Ma chi era questo Giovane Ricco, figlio del Marchese, che il padre voleva a tutti i costi far incontrare a Grande Vecchio?

Finì come era logico. 
Grande Vecchio cedette. 
«Io non prometto nulla, signor Marchese. Per adesso accetto solo di incontrare vostro figlio, come mi chiedete. Poi lascerò a lui decidere».

Il Marchese della Valle manifestò la sua felicità. Si inchinò per ringraziare: cercava le mani di Grande Vecchio, come per baciargliele. Ma Grande Vecchio le ritirò con un gesto brusco, irritato, quasi scortese.
Poi, cercò di recuperare, usando un tono di voce più bonario: 
«Non confondiamo l’uomo con dio, signor Marchese. A dio dobbiamo reverenza: agli uomini rispetto, ma a nessun uomo alcuna sottomissione è dovuta. Anche i re, come i  loro servi, sono fatti di terra e alla terra tornano».

Giunse subito il giorno seguente, il Giovane Ricco. 

Era davvero un ragazzo molto bello. Alto, robusto, abbronzato, gli occhi verde-acqua e uno sguardo penetrante. 
Confermò il racconto del padre. Aveva finora dissipato la sua giovinezza in una vita futile e dispendiosa: relazioni superficiali, viaggi, divertimenti, gioco, anche droga. Aveva profuso una quantità enorme di energie in attività esteriori, frivole, materiali. Si era circondato di gente, soprattutto donne, attratte dalla sua bellezza e dal suo denaro. Si sentiva ora come ubriaco: gli mancava una barra. Non sapeva che direzione dare al suo futuro. Era scontento. Spesso depresso. Non aveva ragioni forti capaci di finalizzare la sua azione. 

«Mi sembra di essere in balia degli eventi, Grande Vecchio. Galleggio. Non riesco a concentrarmi su nulla. Appena credo di essere riuscito ad investire su qualcosa che mi interessa, abbandono. Non ho tenacia: forse perché manco di motivazioni e non ho ancora scoperto la mia vocazione. Sono ricco, certo. Dovrei possedere tutte le condizioni per essere felice. Ma non lo sono. E anche questa mia infelicità mi infastidisce. Sono un ingrato, nei confronti della vita. Mi sono illuso di avere amici, invece ho avuto solo gente interessata che ha sfruttato le mie ricchezze. Del resto anch’io le ho usate: il mio unico merito è di averle avute, non di essermele guadagnate. Non lo nascondo: sempre più spesso brutte idee mi passano per la testa». 

Grande Vecchio ascoltava, un po’ guardandolo negli occhi e un po’ volgendo lo sguardo a terra, come per non turbare il magico clima di intimità che si era creato. 
Lo sentiva sincero. Notava il contrasto tra la sua bellezza esteriore, così solare, e la cupezza del suo animo. 
Il ragazzo esprimeva liberamente il suo disagio, confidando i suoi sentimenti: si raccontava, sfiorando la mancanza di pudore. Si sentiva ‘accolto’ da Grande Vecchio, il quale come sempre riusciva con naturalezza a comunicare attenzione, interesse, empatia. 
Verso la fine del racconto, ci fu un’ammissione pesante: uscì come un fiotto di dolore. 
«Non riesco a provare compassione per gli altri. Sono un egoista». 
Il ragazzo si era preso il capo tra le mani: non c’era affettazione in quel gesto, era davvero affranto.
Poi aveva concluso, e la voce gli era salita dal profondo: «Voglio smetterla. Ma non so come fare. Aiutatemi».

Grande Vecchio accese la pipa. Con molta lentezza. Si era concentrato sul tabacco, il ferretto, i fiammiferi. Non rispondeva. Sembrava distratto. Quindi aspirò una boccata, gettando gli occhi fissi dentro gli occhi del Giovane Ricco. Continuava a non parlare.

Fu ancora il ragazzo a rompere il silenzio. Era come una supplica: «Mi aiuterete, Grande Vecchio?» 
Grande Vecchio sembrò non aver ascoltato.
«Sai giocare a scacchi?», chiese. 
«E’ il mio gioco preferito, Grande Vecchio. Ho partecipato anche a qualche torneo. Non sono un campione, ma me la cavo».

Grande Vecchio si alzò. 
Si toccò le braccia: l’aria si era raffreddata. Mise alcuni legni nel camino e accese.
Poi tornò a sedersi davanti al Giovane Ricco: lo osservava con attenzione, il viso pensoso. Il ragazzo attendeva una risposta che non arrivava, ma cercava di contenere la sua impazienza. 
Alla fine, timidamente, richiese: «Mi aiuterete, Grande Vecchio?».

Grande Vecchio lasciò trascorrere qualche secondo. 
Poi ribaltò la domanda: 
«Tu piuttosto, ragazzo, ti vuoi aiutare?»
Il Giovane Ricco stava per aprire bocca, ma Grande Vecchio gli fece cenno di aspettare. 
«Non devi rispondere a me. Ma a te. Pensaci e poi dai la risposta a te stesso. Ma pensaci molto: perché, se dirai di sì, avrai da superare la prova della tua vita».
Il giovane corrugò la fronte. 
«La prova della mia vita?»
«Nessuno ti può aiutare, ragazzo. Solo tu hai in mano la soluzione. Ma non è gratis. E, naturalmente, non è con il denaro che si compra. Nelle cose della vita, il denaro, per quanto costi, costa sempre niente.»
Il Giovane Ricco non capiva dove lo volesse condurre Grande Vecchio. 
«Hai detto che sai giocare a scacchi… Che te la cavi». 
«Sì, Grande Vecchio».
«Ne avrai bisogno».
Il ragazzo tentava di afferrare il senso delle parole. 
«Gli scacchi saranno la prova», aggiunse Grande Vecchio.
«Gli scacchi?». 
«Sì, ti propongo una partita. Anzi, sarà la tua partita. Perché la posta sarà massima». 

Il Giovane Ricco rimase interdetto. 
«Mi giocherò le ricchezze?». 
Grande Vecchio annuì. «Tutte». 
Poi, dopo qualche secondo, aggiunse: 
«Però non basteranno. Le ricchezze non sono mai il massimo». 

Il ragazzo rifletteva. Temeva di avere capito. Non osava pronunciare la domanda. 
Come tra sé, sospirò: «E allora cosa mi giocherò?». 
Grande Vecchio era serio in volto. Non rispondeva. 
Il Giovane Ricco completò il suo pensiero: 
«Mi giocherò… la vita?». 
Grande Vecchio tirò una boccata profonda dalla pipa. 
«Devi assumerti un impegno, ragazzo. E non potrai disattenderlo». 
Il Giovane Ricco accennò una domanda, ansioso: credeva di intuire la risposta. 
«In cosa consiste quest’impegno…?». 

Grande Vecchio pronunciò le parole che non avrebbe voluto sentirsi dire. 
«Se perderai, io ti accompagnerò a mezz’ora di cammino da qui, nel punto più alto della montagna. Salirai sulla Rupe della Morte. Ti affaccerai sullo strapiombo. Nessuno ha mai resistito al fascino di quell’abisso: anche tu cederai».

Il tempo si era sospeso. Sembravano essere finiti i pensieri del mondo. Crepitava il fuoco nel camino. 
Piccolo Uomo era sullo spiazzo, davanti alla grotta: guardava il cielo che cominciava a tingersi del rosso del tramonto. Non voleva aver capito, ma sapeva di aver sentito benissimo. 

«Non devi decidere ora». 
Grande Vecchio si era alzato. 
«E’ tardi, ragazzo: devi affrettarti. Il sole cala e ti conviene evitare il buio. Tra non molto, per orientarti lungo il sentiero, avrai soltanto il chiarore della falce di luna».
Il Giovane Ricco si scosse: indossò lo zainetto. 
«E’ una prova necessaria, vero Grande Vecchio?» 
«Forse. Spesso le cose sono indispensabili, ma non è detto siano sufficienti.». 
«Dunque, se vinco, non è detto che avrò guadagnato la vita…» 
Grande Vecchio allargò le braccia. 
«Senz’altro avrai evitato la morte. E forse sarai sulla buona strada per conquistarti la vita».

Il ragazzo uscì dalla grotta. Congiunse le mani sul petto per salutare. 
Grande Vecchio, rispondendo al saluto, gli ricordò: 
«Hai un mese per meditare la tua decisione, ragazzo. Avrai il tuo sfidante seduto qui, a questo tavolo, tra trenta giorni esatti. Se decidi di venire, allenati con accuratezza. Il tuo avversario ti impegnerà cervello e cuore. Se non verrai, ti auguro comunque di trovare la tua via».

* * *
Piccolo Uomo era stato inviato da Grande Vecchio a rintracciare il Trovatello del Monastero. 
«Non dovrai spiegargli nulla. Gli dirai solo che ti ho mandato io. E che lo aspetto qui, tra trenta giorni, con la scacchiera. Lui capirà». 

A Piccolo Uomo non tornavano i conti. Un trovatello? Dunque un bambino? Sarebbe stato un bambino lo sfidante? 
Grande Vecchio era stato abbastanza misterioso. 
«Tu vai e torna», gli aveva detto. 
E lui ora era al Monastero.

Un monaco, gentilissimo, indicò a Piccolo Uomo una casa all’angolo. Il Trovatello non era un bambino, ma un adulto di almeno quarant’anni: il viso incavato, la carnagione sciupata, un corpo sofferto. 
Piccolo Uomo eseguì alla lettera l’ordine ricevuto: riferì al Trovatello che «era giunto il momento» e che Grande Vecchio lo attendeva in cima alla montagna. 
Sentì il Trovatello che ripeteva tra sé in un sussurro: «La Rupe della Morte… la Rupe della Morte…» e vide come passargli sul viso tutte le nuvole più scure del cielo.

* * *
Trovatello era stato abbandonato sulla porta del Monastero appena nato: i monaci lo avevano accudito e allevato, ma poi, da ragazzino, aveva preteso la sua libertà. Se ne era andato in giro per il mondo facendo i lavori più vari, spesso pesanti e pericolosi, quelli rifiutati da chi aveva avuto la fortuna di studiare. Poi, un certo giorno si era stancato di viaggiare ed era tornato. Girava la valle, prestando i servizi alle gente dei vari paesini come artigiano tuttofare: un po’ muratore, un po’ fabbro, un po’ falegname, un po’ idraulico. Durante la settimana non si fermava mai, ma la domenica si riposava dai suoi amici monaci, sempre più vecchi e bisognosi di cure. 
Trovatello aveva una intelligenza fuori dal comune. 
Grande Vecchio se n’era accorto subito, appena lo aveva conosciuto, nel periodo in cui, prima di salire in montagna, frequentava il Monastero. Ed è così che gli aveva insegnato a giocare a scacchi. Quante partite insieme… Trovatello era bravissimo e Grande Vecchio, che pure non mancava di abilità, faticava a tenergli testa. 

Poi ci fu quella sera. 
Nella taverna, vicino al monastero, era terminata una partita tra Trovatello e un forestiero. Nacque una rissa. Il forestiero, probabilmente un po’ alticcio, protestava, non voleva accettare la sconfitta. Trovatello si trovò un coltello puntato alla gola. Il forestiero gli dava cinque secondi perché dichiarasse a voce alta, di fronte a tutti gli avventori, di aver perso: altrimenti lo avrebbe sgozzato. Ma Trovatello, orgoglioso e testardo, non voleva obbedire: la vittoria spettava a lui. 
Proprio all’ultimo, quando era chiaro che il forestiero stava per premere il coltello, senza che nessuno osasse fare nulla, intervenne Grande Vecchio, che si materializzò all’improvviso nella saletta: con una mossa di karate, sbilanciò il forestiero, che perse il coltello e cadde a terra. 
Quando il giorno dopo Grande Vecchio andò a salutare Trovatello, annunciandogli che lasciava il Monastero e saliva in Montagna, si sentì dire: 
«Ti devo la vita, Grande Vecchio. Richiedimela quando vuoi.»

* * *
Il Giovane Ricco arrivò puntuale. 
Era serio in volto, concentrato. 
Disse che era pronto: che avrebbe accettato di giocare la partita e avrebbe onorato l’impegno. 
Grande Vecchio aveva voluto che gli sfidanti avessero qualche elemento di conoscenza reciproca e così, in un breve colloquio separato, prima dell’inizio della partita, aveva riassunto ad ognuno i passi salienti della vita dell’altro. 

Ora erano uno di fronte all’altro. La scacchiera era sul tavolo. Lo spiazzo, davanti alla grotta, su nell’alta Montagna, era illuminato da un pallido sole. I giocatori si strinsero la mano. 
Grande Vecchio ricordò gli impegni. In caso di vittoria del Giovane Ricco, lui avrebbe accompagnato alla Rupe della Morte il Trovatello. In caso di vittoria del Trovatello, sarebbe salito alla Rupe della Morte il Giovane Ricco: oltre alla vita, il ragazzo avrebbe perso tutte le sue ricchezze, che sarebbero andate al Trovatello. 

La sfida iniziò. 
Il silenzio era rotto dallo stormire delle foglie e da qualche uccellino che cinguettava. 
Le mosse erano attentamente studiate. Tra l’una e l’altra trascorrevano ogni volta lunghi minuti. Il Trovatello sembrava essersi avvantaggiato. Il Giovane Ricco subiva gli attacchi, ma appariva impassibile. Era concentrato. Fissava i pezzi. I suoi, quelli dell’avversario. Il mondo esterno era scomparso. Esisteva solo quel tavolo. Solo quella scacchiera. Grande Vecchio aveva avuto ragione: l’avversario era temibile. Batterlo non sarebbe stato facile. 
Il Trovatello era seduto in posizione eretta, immobile. Aveva le ciglia aggrottate, il cervello come un computer: ragionava, ipotizzava, calcolava, immaginava, anticipava. 
La partita era ancora agli inizi, difficile prevedere come sarebbe finita, il Giovane Ricco si stava rivelando un buon giocatore. Ma forse… 
Le forze in campo apparivano comunque equilibrate: qualche punto all’uno, qualche punto all’altro.  Il Giovane Ricco aveva recuperato. Ora sembrava in difficoltà il Trovatello. Ma poi era ritornata una situazione di parità.
Trascorse così buona parte del pomeriggio. Intelligenza e concentrazione erano state le risorse spese senza risparmio da entrambi gli sfidanti.

Poi, ci fu la rottura dell’equilibrio. 
Trovatello infilò due mosse sbagliate. 
Il Giovane Ricco approfittò per sferrare l’attacco. La partita si era nettamente sbilanciata. 
Trovatello ne era consapevole, ma non riusciva a reagire. Cominciò a sudare. A toccarsi la fronte, come a scacciare delle ombre. A passarsi la mano in faccia, come per trovare una lucidità che sentiva sfuggire. Infine gli scappò un sospiro pesante. Decise una mossa che avrebbe dovuto rivelarsi vincente. Ma il Giovane Ricco l’aveva prevista e la rintuzzò. Lui allora, senza accorgersene, emise un gemito, sconsolato.

Il Giovane Ricco, per la prima volta, alzò lo sguardo dalla scacchiera, mentre l’avversario, per pensare la mossa successiva, aveva gli occhi fissi sullo schema di gioco. E lo guardò in faccia. Lungamente. 
Grande Vecchio gli aveva accennato: l’origine di orfano, i lavori faticosi, la vita povera. Trovatello era magro, ossuto: e non era solo costituzione fisica. Pensò a se stesso: divertimenti, lusso, spese a volontà; nessun limite, ogni desiderio soddisfatto, sempre vincente. “Come adesso”, pensò. “La partita sta volgendo a mio favore”. Che contrasto! Nel viso di Trovatello, invece, leggeva frustrazione, avvilimento, sconforto, disperazione, dolore. Non riusciva a staccare lo sguardo. Ma non ‘vedeva’ soltanto: ‘sentiva’. Sentì che il suo sfidante stava perdendo concentrazione, che la confusione lo stava invadendo. Sentì la sua angoscia. Sentì la sua paura. 
E si trovò a provare affetto. Pietà. Compassione. 
Fu invaso da un sentimento dolcissimo, anche se dolente: che gli scioglieva la pancia, gli apriva l’animo, lo liberava dalla fredda prigione entro cui era stato recluso finora. 
Per la prima volta si lasciò andare ad emozioni che avvertiva genuine. Profonde. Cedevano le sbarre, e anche lui cedeva: ora poteva uscire, accogliere il mondo, gli altri. Gli stava entrando in corpo la vita.

Decise di commettere un errore. Poi un secondo. Infine un terzo. 
Ecco, Trovatello stava recuperando. Avrebbe vinto. E lui avrebbe perso. Sarebbe salito alla Rupe della Morte e avrebbe onorato il suo impegno. Ma questa certezza non lo terrorizzava. Anzi. Stava sperimentando una nuova serenità. 
Era in pace, finalmente. 

Grande Vecchio, che aveva osservato a distanza la partita dall’inizio, si avvicinò al tavolo. 
Con un gesto brusco, sollevò la scacchiera e fece saltare tutti i pezzi, che ricaddero sparsi in terra.

I due giocatori lo guardarono allibiti. 
«Che succede, Grande Vecchio?». 
«La partita è finita. Non c’è vincitore e non c’è perdente. Nessuno salirà alla Rupe della Morte. Le vostre vite sono salve». 

Restarono seduti, bloccati: gli occhi fissi, interrogativi.
«Ma perché, Grande Vecchio? La partita non era finita».

Grande Vecchio sorrise al Giovane Ricco. Gli diede un buffetto affettuoso sulla guancia. 
«E’ vero, questa partita non era finita. Però l’altra partita, quella della vita, hai cominciato a vincerla. Oggi hai imparato concentrazione e pietà».

Trovatello era ancora sconvolto: per la sconfitta che immaginava ormai sicura e per il finale a sorpresa. Guardava la scacchiera finita per terra. Grande Vecchio lo fece alzare dal tavolo con impazienza e lo abbracciò forte e intensamente. 
«Mi avevi detto che mi dovevi la vita. Io sapevo che non mi dovevi nulla e che la tua, per quanto inconsapevole, era una bestemmia. Adesso comunque non puoi avere più dubbi: ti sei disobbligato. Mentre sono io, ora, che ti sono debitore. Per il gesto estremo di disponibilità e affetto: io ti ho chiamato e tu hai risposto. Hai testimoniato il dovere della riconoscenza».

Il Giovane Ricco era commosso. 
Si inchinò a Grande Vecchio, riunendo le mani in preghiera sul petto. 
«Il mio grazie non vi ringrazierà mai abbastanza, Grande Vecchio». 
Poi lanciò un sorriso complice a Trovatello, mentre gli cercava la mano per stringergliela. 
Sottovoce, gli disse:
«Ora so cosa fare delle mie ricchezze». 

*** Massimo Ferrario, La partita della vita, 2009-2015, per Mixtura - Rielaborazione creativa di una favola famosa, riportata anche da Jean-Claude Carrière, Il circolo dei cantastorie. Storie, storielle e leggende filosofiche del mondo intero, 1998, Garzanti, Milano, 1998. 
conto antico, di autore anonimo.

da Il settimo sigillo, di Ingmar Bergman, 1956

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