Già in altre occasioni mi sono espresso: ma l'insistenza con cui registro il fenomeno è tale che reintervengo.
L'immagine qui sopra è l'ennesimo esempio di semplicismo deteriore, imperversante sul web, sull'onda delle peggiori amerikanate che piacciono tanto a certo beotismo mentale crescente.
Un po' di frecce qui e là, sì-no-sì, e oplà, se non sei felice, puoi diventarlo.
E (implicito) se non lo diventi, ti colpevolizzo perché non sei capace di diventarlo.
Infatti lo schemino è a prova di stupido: basta una mossa e anche un topolino, nella gabbietta di laboratorio, riuscirebbe a imbroccare il percorso.
E basta volerla, naturalmente, la felicità: se no (sottinteso), sei proprio più cretino di un topolino.
Carl Gustav Jung ha scritto: «Il motto 'volere è potere' è la superstizione dell’uomo moderno».
Lo so, vista l'ignoranza dei troppi professionisti della felicità, molti potrebbero ripetere la domandina sprezzante che piace anche ai politicanti alla moda: 'Jung, chi'?
Ma si può anche fare a meno di conoscere Jung per capire che 'volere è potere' si chiama onnipotenza.
E una minima infarinatura psicologica (ma basterebbe il 'buon senso', se ancora lo conoscessimo) dovrebbe farci capire che il circuito onnipotenza-impotenza è un classico che non ha nulla a che fare con la realtà (in psicologese, entrambe le 'posizioni' sono dette de-realistiche).
Non solo. E' pure un circolo pericoloso: perché, se si instaura, come tutti i circoli viziosi, è poi assai difficile da rompere.
Non possiamo mai tutto.
Anche se possiamo (quasi sempre, eppure non sempre) qualcosa.
Ecco, in due proposizioni in grassetto, una sintesi che mi parrebbe meglio rispecchiare i dati 'oggettivi' del mondo in cui siamo stati 'gettati'.
Due righe che ci assegnano la 'giusta' porzione di responsabilità, senza che ci spingano a colludere con la nostra voglia (titillata anche per ragioni di business) di farci credere capaci di (poter/dover) controllare ogni cosa: magari per meglio predisporci a pagare l'obolo per il solito libro di auto-aiuto che risolve tutto in dieci mosse o per l'ennesimo percorso di self-empowerment consolatorio che ci renderà il sorriso beotamente sempre fisso sulle labbra.
E sempre a proposito dello schemino fuorviante di cui in immagine, aggiungo due note veloci:
(1) - La felicità va nominata con rispetto, perché è una parola 'grossa': non è uno stato (stabile, continuo) ed è una 'grazia' che ti accade quando si ha la fortuna di toccarla, per un attimo, in un equilibrio quasi magico. Una grazia terrena, non divina. Ma che se mai ha la divinità intrinseca al tutto in cui abitiamo: quel tutto che ci sovrasta e che possiamo sperimentare come limite se solo riusciamo a far tacere la nostra hybris. Ed è una grazia che in parte possiamo 'propiziare', non certo progettare né programmare.
Perché 'lei', se è vera felicità, forse viene, certo va.
E non esiste formula para-amerikana di nessun sedicente coach che te la assicura.
(2) - La realtà non è fatta solo di dimensioni in nostro potere e non basta cambiare prospettiva o pensiero per cambiare la 'durezza' di ciò che sta fuori di noi. Anche se qualche volta il cambio di occhi è utile per disporsi diversamente rispetto al contesto, ciò che muta, in questo caso, è la relazione, non il contesto. E per cambiare il contesto dobbiamo agire 'sul' contesto (talvolta, se possibile, anche 'col' contesto, specie se costituito da persone). Perché 'noi' non siamo il contesto, ma ne siamo semplicemente una (piccolissima) parte.
Banalità.
Ma lo psicologismo (che mima la psicologia, prendendo il suo posto: e la mima perché riduce ad una unica e malintesa psicologia tutti i problemi complessi del mondo, pure quelli che esigono 'tutte le altre' chiavi di lettura) piace di più della psicologia.
Forse perché (un po') siamo masochisti (godiamo nell'essere colpevolizzati) e (un po' troppo) aspiriamo all'onnipotenza (vogliamo credere di potere anche ciò che non possiamo e di avere sempre il controllo su tutto).
E poi (ultimo ma non ultimo) ci siamo convinti, per una malintesa propaganda che viene da oltre oceano, che abbiamo il diritto alla felicità perché (si dice) sempre là, oltreoceano, «è scritto in Costituzione».
E' tanto un diritto che è diventato un dovere.
E guai se non riusciamo a 'impossessarci' della felicità.
Ma in Costituzione Usa, all'art. 1, è scritto: «A tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità».
Cioè: la vita e la libertà sono un diritto di per sé. Invece, per quanto riguarda la felicità, il diritto è al suo perseguimento.
Mi pare chiara la distinzione: diritto a perseguire è cosa diversa dal diritto ad avere.
Lo capirebbe anche un topolino.
*** Massimo Ferrario, Amerikanate, la felicità in tre mosse, per Mixtura
In Mixtura ark #Spilli di Massimo Ferrario qui
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Sempre in questo blog, altri miei contributi sul tema:* Felicità coatta e pensiero positivo, 18 gennaio 2015, qui
* Pensiero positivo e pensiero cretino, 14 febbraio 2015, qui
* Leadership, 8 marzo 2015, qui
* Ormai siamo al non-pensiero, 11 aprile 2015, qui
Inoltre, sempre nel blog, 1 contributo di Pier Aldo Rovatti
* Pensiero positivo e pensiero critico, 8 aprile 2015, qui
E 1 contributo di Carla Fiorentini
* Ancora sul pensiero positivo, 24 aprile 2015, qui
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