Domenico DE MASI, "Tag. Le parole del tempo", Rizzoli, 2015
pagine 765, € 20,00, ebook € 9,99
Ventisei parole chiave per segnare il tempo di oggi: tante quante le lettere dell'alfabeto. Ventisei 'tag' (come dice il titolo del volume) che costituiscono altrettanti saggi: ampi, rotondi, densi e leggeri insieme, sempre felicemente divaganti e che ti catturano per contenuto e modalità di esposizione. Saggi non necessariamente da leggere in sequenza, ma da scegliere nell'ordine che più piace, anche secondo l'estro del momento. Autonomi e tuttavia tenuti insieme dalla riflessione costante cui ci ha abituato l'autore in questi anni: il postindustriale, l'ozio creativo, la bellezza, la creatività.
Ritroviamo il linguaggio consueto: piano, accattivante, divulgativo, in più punti ironico, spesso provocante, talvolta urticante, ma sempre all'insegna di una cultura 'alta', che sa spaziare dalla sociologia alla filosofia, alla musica, alla letteratura, all'architettura.
Una lettura indispensabile, anche e soprattutto se non sempre si è d'accordo con alcune prese di posizione o con l'enfasi, decisamente ottimistica, messa sul postindustriale.
Anche chi conosce l'autore per la sua abilità sapiente nel costruire affreschi capaci di creare orientamento (il precedente, Mappa Mundi, ne è un poderoso ed emblematico esempio), non può non restare colpito dal suo approccio largo e profondo insieme, che sa cogliere le ibridazioni della complessità: i continui rimandi storici, oltre che interdisciplinari, danno ricchezza alla visione del presente e sono fondamentali per aumentare il grado di consapevolezza dei tempi che viviamo.
Nell'epoca del monopensiero dilagante, e, secondo quel grande maestro che fu Gaber, addirittura del 'postpensiero', trovare chi, almeno in questo caso, non è passato al post, ma è rimasto ancora, ostinatamente, al pensiero (dunque sa pensare e ti smuove a farlo), costituisce un avvenimento eccezionale e da onorare. Come altrettanto fuori dal comune oggi purtroppo resta la volontà di non nascondere le proprie posizioni, osando affermare, senza timidezze e con netta convinzione, il proprio sistema di valori, anche in dissenso con il conformismo dilagante.
Ci sono libri che, voltata l'ultima pagina, si possono riporre e non riaprire più: forse ti hanno dato anche qualcosa, ma quel qualcosa 'finisce lì'. Questo è un saggio, ma è anche un racconto 'caldo' e appassionato della storia dell'uomo: perciò ti può 'fermentare dentro'. E prima o poi riapri il volume: e ricerchi qualche 'tag', per riscorrerne gli stimoli. E magari ti viene qualche nuovo pensiero.
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
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Per «ozio creativo» non intendo affatto la svogliatezza, la pigrizia, il disimpegno, la deprivazione di attività fino a rendere vuota la giornata. Ho sempre pensato che il «dolce far niente» sia tutt’altro che dolce; il solo pensarlo mi provoca noia e persino nausea. Per ozio creativo io intendo quello stato di grazia che si raggiunge quando si fa qualcosa che, contemporaneamente, ci dà la sensazione di lavorare, di studiare e di giocare. Qualcosa con cui, simultaneamente, produciamo ricchezza, apprendimento e allegria. Una sensazione di godibile fierezza che accende la nostra creatività e ci fa sentire pienamente umani. È lo stato d’animo che avverte l’artista quando è tutto preso dal suo capolavoro, il bambino quando costruisce il suo castello di sabbia, il leader quando guida un team bene assortito verso una meta innovativa, la casalinga quando perfeziona e ottimizza la gestione domestica con efficienza e amore, lo scienziato quando insegue con metodo e tenacia una sua ipotesi, il politico quando escogita un nuovo e più felice assetto civile per la sua comunità. (Domenico De Masi, Tag, le parole del tempo, Rizzoli, 2015)
Dopo la morte di Hitler, indotto al suicidio dalla sconfitta, molti tedeschi si sentirono orfani; dopo la morte di Mussolini, fucilato dai suoi stessi compatrioti, molti italiani si sentirono patricidi. Si tratta di una differenza psicanaliticamente non trascurabile: la catastrofe violenta del regime si è impressa nell’inconscio di molti italiani come un cupo rimorso, che li ha spinti a impedire con ogni mezzo che le forze democratiche cancellassero definitivamente gli effetti del Fascismo, ossia i residui del «padre». Quel «padre» al cui modello hanno continuato a ispirare – consciamente o inconsciamente – la propria condotta ogni qualvolta hanno avuto occasione di gestire un frammento qualsiasi di potere e di trasformare i rapporti interpersonali in prevaricazione autoritaria.
I figli di questi figli, oggi attratti dalla tentazione neofascista, rappresentano il nucleo più consistente e più pericoloso dell’esercito di riserva al quale potrebbe attingere chiunque oggi si autoproponesse come l’uomo nuovo della provvidenza: un nucleo di individui che celano, sotto la patina della tracotanza, una costituzionale insicurezza di fronte a qualsiasi fluttuazione economica, innovazione scientifica o cambiamento culturale e che, presi dal panico, non sanno gestire il progresso né sanno ostacolarlo, ma si limitano a invocare uno Stato forte che li difenda.
Sono questi – in Italia – i fascisti che, allevati alla prepotenza verso i deboli e alla servitù verso i forti, danno oggi libero sfogo alle tare ereditate dal Ventennio e celate per anni dentro di loro, con la connivenza di istituzioni solo formalmente democratiche che poco o nulla hanno tentato per bonificare i tessuti infetti della società.
Camuffati sotto etichette di ogni genere – in Italia, in Germania, in tutta Europa, in tutto il mondo –, uomini rimasti ai posti di comando durante e dopo i regimi autoritari; giovani da essi educati, e quindi disponibili a qualsiasi operazione ideologica di stampo autoritario e violento, si sono spesso impadroniti delle istituzioni snaturandole e violentandole. Potenti oggi come ieri, si sono insediati nei tribunali, nelle università, negli organismi economici, nei Parlamenti. Di questi uomini noi non sappiamo nulla: né quanti sono né come neutralizzarli. Spesso non sanno neppure loro quale vocazione autoritaria rechino in seno, e quanto pronta essa sia a tradursi da potenzialità latente in atto irreparabile. I sociologi, dal dopoguerra a oggi, si sono occupati di tutto, dalle star ai bulloni, dai detersivi alle suore, ma non hanno trovato il tempo per descrivere e denunziare le sopravvivenze e le primizie fasciste della nostra società. (Domenico De Masi, Tag, le parole del tempo, Rizzoli, 2015)
I figli di questi figli, oggi attratti dalla tentazione neofascista, rappresentano il nucleo più consistente e più pericoloso dell’esercito di riserva al quale potrebbe attingere chiunque oggi si autoproponesse come l’uomo nuovo della provvidenza: un nucleo di individui che celano, sotto la patina della tracotanza, una costituzionale insicurezza di fronte a qualsiasi fluttuazione economica, innovazione scientifica o cambiamento culturale e che, presi dal panico, non sanno gestire il progresso né sanno ostacolarlo, ma si limitano a invocare uno Stato forte che li difenda.
Sono questi – in Italia – i fascisti che, allevati alla prepotenza verso i deboli e alla servitù verso i forti, danno oggi libero sfogo alle tare ereditate dal Ventennio e celate per anni dentro di loro, con la connivenza di istituzioni solo formalmente democratiche che poco o nulla hanno tentato per bonificare i tessuti infetti della società.
Camuffati sotto etichette di ogni genere – in Italia, in Germania, in tutta Europa, in tutto il mondo –, uomini rimasti ai posti di comando durante e dopo i regimi autoritari; giovani da essi educati, e quindi disponibili a qualsiasi operazione ideologica di stampo autoritario e violento, si sono spesso impadroniti delle istituzioni snaturandole e violentandole. Potenti oggi come ieri, si sono insediati nei tribunali, nelle università, negli organismi economici, nei Parlamenti. Di questi uomini noi non sappiamo nulla: né quanti sono né come neutralizzarli. Spesso non sanno neppure loro quale vocazione autoritaria rechino in seno, e quanto pronta essa sia a tradursi da potenzialità latente in atto irreparabile. I sociologi, dal dopoguerra a oggi, si sono occupati di tutto, dalle star ai bulloni, dai detersivi alle suore, ma non hanno trovato il tempo per descrivere e denunziare le sopravvivenze e le primizie fasciste della nostra società. (Domenico De Masi, Tag, le parole del tempo, Rizzoli, 2015)
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