C’è qualcosa di francamente disgustoso nelle accuse di squadrismo lanciate contro il sito Gay.it. Mettere online i nomi e i volti di un gruppo di parlamentari pd invitando, chi lo ritiene, a inviare loro una email per chiedere di cambiare opinione sulle stepchild adoption non è fascismo, ma democrazia. Da sempre, nei paesi in cui i cittadini contano ancora qualcosa, gli elettori si rivolgono direttamente ai loro rappresentanti per spingerli a prendere delle decisioni in un senso o nell’altro. Nascono così le grandi campagne per i diritti civili, per la preservazione dell’ambiente, per la giustizia e l’eguaglianza. Si raccolgono firme, si manifesta, si scrive ai singoli deputati e senatori. Tutto avviene, esattamente come è accaduto in questo caso, alla luce del sole. E l’unico rischio che un politico (non italiano) sente di correre è quello di perdere voti e di non essere rieletto.
Da noi però i parlamentari vengono nominati dalle segreterie dei partiti e lo saranno, almeno nel 65 per cento dei casi, anche quando entrerà in vigore la nuova legge elettorale. Gli elettori per i nostri sedicenti rappresentanti dei cittadini sono un optional, o meglio un fastidio. Anche perché al confronto con loro chi fa politica non è più abituato. Così l’elenco degli indirizzi email dei contrari alla stepchild adoption che, con la propria scelta, mettono in forse la legge sulle unioni civili diventa “una lista di proscrizione” per il senatore Giorgio Tonini, anzi “un atto irresponsabile che richiama alla mente lontani fantasmi”. Mentre per il suo collega Andrea Marcucci pubblicare in Rete foto, nomi e caselle di posta elettronica è stata “un’iniziativa grave e illiberale”. O per dirla con l’ex dalemiano Nicola Latorre “una decimazione”.
Intendiamoci, esistono molti italiani che la pensano in maniera diametralmente opposta rispetto agli attivisti di Gay.it. E hanno tutto il diritto di farlo. Anche loro possono, se vogliono, scrivere ai singoli parlamentari, pubblicare in Internet gli elenchi di chi si appresta a votare in favore delle nuove norme o manifestare contro la legge, come era accaduto in occasione del Family Day di berlusconiana memoria. E se lo facessero ora, secondo noi, nessuno dovrebbe parlare di “gogna” come ha per esempio fatto ieri, riferendosi a Gay.it un sorprendente Sebastiano Messina su Repubblica. A meno che il progetto futuro non sia quello di secretare direttamente i lavori del Parlamento. Di ufficializzare il potere della Casta passando finalmente e senza più ipocriti infingimenti dalla democrazia all’oligarchia.
Non per niente, mentre si protesta per gli inviti a scrivere ai singoli parlamentari, tutto, o quasi, tace sul fronte della legge che dovrebbe finalmente regolamentare l’attività delle lobby. Come è noto, nell’opacità più assoluta, le Camere si trasformano sempre in un Suq quando vengono discussi provvedimenti riguardanti grandi gruppi finanziari o industriali. Con lobbisti non iscritti a nessun registro che in maniera totalmente anonima, e fuori da ogni controllo, contattano deputati e senatori e passano loro gli emendamenti richiesti da gruppi del tabacco, assicurativi, farmaceutici e del gioco d’azzardo, da produttori di armi o società petrolifere. In ottobre anche l’Antitrust ha denunciato il ritardo nell’approvazione di una regolamentazione utile per prevenire corruzione e conflitti di interesse. Ma da allora non si è mosso nulla. Perché al manovratore la trasparenza non piace. E quando c’è grida allo “squadrismo” e alla “gogna arcobaleno”.
*** Peter GOMEZ, giornalista e saggista, direttore di 'ilfattoquotidiano.it', Unioni civili, la ‘gogna’ di Gay.it all’estero si chiama ‘democrazia’, 'Il Fatto Quotidiano', 16 gennaio 2016, qui
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