Romano PRODI, Marco DAMILANO,
Missione incompiuta. Intervista su politica e democrazia, Laterza, 2015
pagine 95, € 12.00, ebook 7.99
Si possono condividere o meno i suoi pensieri e le sue azioni, ma certo Romano Prodi è stato un protagonista dell'impresa e della politica dell'Italia scorsa.
Qui, in un'ampia intervista che spazia dal dopoguerra ai giorni nostri, sugli stimoli di un Marco Damilano reduce dal bel libro su La Repubblica del selfie, è l'occasione per un riesame anche critico di cosa è stato, e non è stato, il riformismo, di cui il progetto dell'Ulivo voleva essere motore chiave.
'Missione incompiuta', dice il titolo, ripetendo un'affermazione di Prodi. O fallita, si potrebbe correggere. Questione di punti vista: anche se si tratta di 'viste' non di poco conto sul piano delle eventuali conseguenze operative. Quel che è certo è che di quell'esperienza, oggi, con il ciclone Renzi, non c'è più nulla: visione superata. Sempre che non sia stata rottamato addirittura il concetto stesso di 'visione', perso tra i tanti slogan che ripetono ossessivamente e freneticamente la parole 'riforme'.
Dice Prodi: «Oggi le decisioni sono prese in vista delle sempre imminenti elezioni, mentre i problemi esigono tempi più lunghi per essere affrontati e risolti. Affrontare questioni come le pensioni, la scuola, la ricerca, dà risultati da qui a dieci anni. E invece i governi lavorano al massimo per il giorno dopo».
E' un problema non solo italiano, ovviamente. Ma mal comune non è mezzo gaudio. E la malattia del populismo, che tutto aggrava, in questo caso anche rattrappendo ulteriormente gli orizzonti, può essere mortale.
E un errore, grave, che Prodi si riconosce?
«La debolezza dell’Ulivo fu quella di non rafforzare adeguatamente l’aspetto organizzativo-partitico, per cui alla fine i vecchi partiti e le vecchie correnti ne hanno indebolito le radici. Un errore grande. Il mio personale errore politico che oggi mi rimprovero è di non aver deciso di costruire un partito veramente nuovo, che si fondasse su queste basi. Lo si doveva lanciare dopo la notte delle primarie del 2005. Non l’ho fatto volutamente perché io sono entrato in politica e ho sempre operato per unire e non per dividere. Una divisione attuata in quel momento avrebbe invece reso più forte il governo e avrebbe forse permesso una più vigorosa unità nel tempo successivo.»
E' ovviamente tutto opinabile. Certo è che, anche al di fuori del caso Ulivo, qualche volta 'unire' diventa una mitologia pericolosa, perché porta a soffocare, o non liberare e lasciar sviluppare, quelle differenze che invece sono il sale della politica. E la inevitabile, conseguente produzione di rabbia o disinteresse è un fenomeno ben peggiore di quel 'dividere' sempre temuto e spesso demonizzato.
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
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Cosa significa politica attiva? La scuola, la ricerca, un’attività dello Stato che spinga verso la modernizzazione. E poi le incentivazioni alla crescita delle imprese, una politica creditizia che si rafforzi e si affianchi alla politica delle banche, fusione delle imprese per renderle adeguate ai mercati globali. Tutto questo è indispensabile per riprendere la crescita. Per anni si è pensato che bastasse ridurre i vincoli: questa è una condizione necessaria ma non sufficiente per la crescita. Gli americani hanno salvato l’industria automobilistica con politiche pubbliche: non è stato sufficiente il mercato. In Spagna è successo lo stesso. La politica industriale è politica delle risorse umane e della velocità di adattamento ai cambiamenti che ci stanno intorno. Il governo deve essere un promotore attivo di questi processi. Non esiste un paese in cui l’unica politica industriale è l’organizzazione dei tavoli di crisi. I tavoli di crisi sono necessari, ma gestiscono la ritirata, minimizzano i danni di una guerra perduta. Vedo invece una rassegnazione totale alla crisi e una reazione puramente difensiva. Poi ci sono apparati dello Stato che aggravano la situazione. Quando all’Ilva il magistrato fa sequestrare a scopo di protezione ambientale il prodotto già in magazzino, siamo di fronte a una insensibilità assoluta nei confronti del futuro di un’azienda e dello stesso buon senso. Sono comportamenti che incidono negativamente in modo devastante. Certi interventi dissennati sulle imprese, gli impedimenti burocratici e il cattivo funzionamento della giustizia hanno isolato l’Italia.
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(da Romano Prodi e Marco Damilano, Missione incompiuta)
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Cosa significa politica attiva? La scuola, la ricerca, un’attività dello Stato che spinga verso la modernizzazione. E poi le incentivazioni alla crescita delle imprese, una politica creditizia che si rafforzi e si affianchi alla politica delle banche, fusione delle imprese per renderle adeguate ai mercati globali. Tutto questo è indispensabile per riprendere la crescita. Per anni si è pensato che bastasse ridurre i vincoli: questa è una condizione necessaria ma non sufficiente per la crescita. Gli americani hanno salvato l’industria automobilistica con politiche pubbliche: non è stato sufficiente il mercato. In Spagna è successo lo stesso. La politica industriale è politica delle risorse umane e della velocità di adattamento ai cambiamenti che ci stanno intorno. Il governo deve essere un promotore attivo di questi processi. Non esiste un paese in cui l’unica politica industriale è l’organizzazione dei tavoli di crisi. I tavoli di crisi sono necessari, ma gestiscono la ritirata, minimizzano i danni di una guerra perduta. Vedo invece una rassegnazione totale alla crisi e una reazione puramente difensiva. Poi ci sono apparati dello Stato che aggravano la situazione. Quando all’Ilva il magistrato fa sequestrare a scopo di protezione ambientale il prodotto già in magazzino, siamo di fronte a una insensibilità assoluta nei confronti del futuro di un’azienda e dello stesso buon senso. Sono comportamenti che incidono negativamente in modo devastante. Certi interventi dissennati sulle imprese, gli impedimenti burocratici e il cattivo funzionamento della giustizia hanno isolato l’Italia.
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(da Romano Prodi e Marco Damilano, Missione incompiuta)
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