Questo è il racconto di un fatto che mi è accaduto pochi giorni fa.
Roma, ospedale XY: sto portando mio figlio maggiore (Davide, 3 anni e mezzo) dall’otorino per un controllo delle tonsille. La pediatra di base sostiene che vadano tolte, ma ci ha prescritto una verifica dallo specialista e ci ha suggerito di andare allo XY. Mia moglie non può accompagnarmi (è impegnata con l’altro nostro bimbo di 3 mesi), così chiedo a mia sorella di venire con me.
Quando arriva il nostro turno, l’accoglienza è subito fredda: il medico mi dice secco di lasciare il passeggino fuori dalla stanza (in realtà una sala enorme con tanto spazio a disposizione…). Obbedisco: esco, deposito l’oggetto indesiderato e rientro con Davide e mia sorella.
Il bambino, da diversi mesi sballottolato tra medici e ambulatori a causa delle frequenti tonsilliti, si innervosisce subito. Ha paura del bastoncino (il tampone per la gola), così lo chiama, e comincia a piangere. Il medico, sempre restando seduto al suo posto, senza un minimo cenno di interesse per mio figlio, mi intima di metterlo seduto là, indicando una sedia.
Davide va fuori controllo: piange forte, si dimena, se potesse scapperebbe. Allora mi rivolgo io al medico e alla sua infermiera: «Lasciatemi un secondo - dico loro – che provo a calmarlo». Lo porto più in là nella stanza, mi abbasso alla sua altezza, cerco di rassicurarlo con ferma dolcezza, ma niente... non funziona.
Allora l’otorino fa «Lo porti qui» e mi spiega con distacco come immobilizzarlo. Gli blocco gambe e braccia, l’infermeria fa altrettanto con la testa. Il medico gli guarda con la luce bocca, naso e orecchie. Il tanto temuto bastoncino non si materializza, ma né io né Davide potevamo saperlo.
Chiedo a mia sorella di portare il bambino fuori per poter almeno ascoltare cosa dice il medico e qui avviene l’inatteso colpo di scena. Mentre mi sto scusando per la reazione di Davide (io stesso sono contrariato per il suo comportamento), il medico di colpo, secco, replica: «Se il bambino fa così è per causa del padre!».
Rimango di sasso, incredulo. Mi domando cosa mi stia dicendo.
«I figli vanno gestiti», aggiunge.
Trovo la forza di dire: «Gestire è una parola vuota, va riempita di contenuti».
«Sa che c’è? Lei parla troppo! Prima ha sbagliato a fare tutta quella scena con suo figlio. Padre e figlio non stanno mica sullo stesso piano! Se lei si mette a discutere con lui come pensa di recuperare l’autorevolezza che le serve per farsi ubbidire?».
Seguono poi altri 5-10 minuti di chiacchierata a contenuto medico.
L’episodio mi ha lasciato esterrefatto. Alla frustrazione per il comportamento di mio figlio, si è aggiunta la rabbia, l’incredulità per le parole di un medico otorino: perché quella lezione non richiesta di pedagogia? Cosa avrà voluto dirmi tra le righe? Che non sono un buon padre? Che mio figlio non mi rispetta proprio a causa della mia debolezza permissiva? Che ne sa lui del nostro modo di rapportarci?
O forse qualcosa non l’ha convinto: un padre che porta il figlio da solo dal medico, cioè senza la moglie, forse è un genitore single. O separato. O gay. Un esponente insomma delle sempre più numerose famiglie non convenzionali. Comunque una “rieducatina” gli farà bene, deve aver pensato.
Se così non fosse, cioè se si è trattato “solo” di una normale prassi ambulatoriale, lo sconcerto rimane comunque, forse addirittura si accresce. Alle incertezze, alle ansie, ai dubbi che provo come genitore, uno zelante otorino si è sentito autorizzato di aggiungere la propria visione del rapporto padre-figlio.
Una visione, sia detto per inciso a conclusione, che sapeva tanto di tradizionale paternalismo. E che, anche questo per inciso, personalmente spero di aver dismesso da tempo dal mio lessico affettivo.
*** Valerio BIANCHI, per Mixtura.
Anche in 'AltriSguardi', 199, 1 aprile 2015
Anche in 'AltriSguardi', 199, 1 aprile 2015
Nessun commento:
Posta un commento