mercoledì 22 aprile 2015

#ARK #IMPRESA & SOCIETA' / Serietà dell'ironia, 1990 (Massimo Ferrario)

Se c'è qualcosa da cambiare in questo testo di venticinque anni fa (1990), credo riguardi le considerazioni su quello che all'epoca era lo stato attuale. 
L'aggiornamento al 2015 dovrebbe peggiorare di molto la valutazione data ieri: e non per quel pessimismo che, secondo qualcuno,  trasforma molti in 'gufi' polemicamente ostili ad un presente che invece dovrebbe essere sempre più considerato potenzialmente radioso, ma per banale rispetto della realtà.
Si sta affermando (e qui sono ottimista, usando un verbo 'in progress') un 'monopensiero monolitico' che esige conformità assoluta: e chi dissente rischia di passare per sovversivo, quando non per disfattista. 
L'ironia, come spiego nell'articolo (ed è un'analisi di cui oggi non penso vada mutata neppure la punteggiatura), non si sviluppa su questo terreno. 
Se mai, si presenta in forma perversa e deviata, come qualunquismo e sarcasmo
Per non parlare della prassi, crescente, dell'insulto a 'go-go': non solo nel triste anonimato dei social network. (mf)

° ° °

No, non fa male credere. Fa molto male credere male.
(Giorgio Gaber)

L'origine etimologica è incerta, ma il suo significato è preciso e il suo uso ha nobili origini: affonda addirittura nella filosofia socratica. Ironia, infatti, sta per simulazione: indica il comportamento di chi dice il contrario di quello che pensa. Come quando Socrate, nei suoi dialoghi famosi, poneva domande al suo interlocutore fingendosi ignorante: per fargli ammettere come vera una contraddizione mascherata e poterlo poi prendere in castagna, vittima del suo presunto sapere.
Da qui, dunque, ironia come derisione, canzonatura, scherzo, presa in giro: strumento per colpire, ma soprattutto per svelare. Far emergere ciò che è sotto, nascosto: ciò che i più non vedono, o non vogliono vedere. Un modo per dire la verità: o almeno, per tentare di far emergere l'altra faccia della realtà, quella più insolita, e perciò spesso data per inesistente.
Basterebbero questi spunti, credo, per sollecitare in chi si occupa di formazione - e dunque di apprendimento - un po' di attenzione al concetto. Forse non sarebbe male scavarne meglio i contenuti, ma soprattutto verificarne le potenzialità di utilizzo. E domandarsi anche, nel caso di una diagnosi non proprio ottimistica sullo stato delle capacita ironiche dell'attuale nostra società, come fare perché questo seme germogli, proliferi e soprattutto fruttifichi.

Il meccanismo del distanziamento
Alla base dell'ironia, agisce un meccanismo fondamentale, che possiamo chiamare di 'distanziamento'. Grazie ad esso, il soggetto che pratica l'ironia si dis-loca: o, meglio, si bi-loca. Infatti, pur restando dentro la realtà, se ne allontana: è 'dentro', ma contemporaneamente è 'fuori'. Un fuori vicino, almeno psicologicamente parlando: che conserva un rapporto stretto, empatico, con l'oggetto, e appunto per questo genera una visione pili comprensiva, perché più larga e grandangolare.
Succede come per l'obiettivo di una macchina fotografica: si aggiustano le misure e quindi aumenta il fuoco. Però, a differenza di quanto accade per la macchina fotografica, qui le misure si modificano in continuazione, ritarandosi in contemporanea su più piani; cosi che il fuoco arriva perfetto, in qualunque prospettiva, su più fondali, consentendo una visione sempre sfaccettata in un campo che si estende, ma nello stesso tempo si approfondisce. 
E' evidente la funzione benefica di un simile meccanismo. Senza distanziamento, sono possibili almeno quattro rischi.

(1) - Di andare insieme con le cose. 
Il rapporto con la realtà si appanna: il soggetto tende ad un'ad-esione totalizzante. Manca la consapevolezza di una separazione: si e nella realtà al punto tale che si 'e' la realtà. La visione si confonde: in assenza di un punto di vista, nessuna vista è possibile. Si vede, ma senza poter vedere.

(2) - Di non discernere gli elementi intrinseci delle cose.
Discende come logico corollario del punto precedente. Non vedendo, tutto diventa impossibile: anche la critica. Ossia la capacità di cogliere gli elementi intrinseci della realtà, le sue potenzialità, i suoi limiti: i suoi punti torri e i suoi punti deboli.

(3) - Di non relativizzare le cose.
L'assenza di misure impedisce il corretto dimensionamento di un oggetto con l'altro: tutto diviene fondamentale. Assolutismo e dogmatismo ne sono la facile conseguenza, intolleranza e arroganza i comportamenti più congruenti.

(4) - Di restare in balia delle cose.
Viene a mancare la capacità di governare la realtà: se ne rimane prigionieri. Le cose avvengono e noi con loro: si riduce la possibilità di farle succedere, di orientarle, di controllarle.

L'ironia non è certo l'unico modo per creare distanziamento, ma è senz'altro uno strumento potente di messa a fuoco e di controllo di sé e della realtà esterna. Se opportunamente impiegato, probabilmente combatte almeno tre atteggiamenti, tutti accomunati da una patologica anemia: la seriosità, la rigidità e la sicumera

La serosità e spesso contrabbandata per serietà, ma di essa non è che la deriva burocratica. Nasce infatti come obbedienza liturgica ad una forma: a ciò che della serietà rappresenta l'involucro esterno. E astrattezza, noia, tristezza.

La rigidità è talora confusa con il rigore. Ma anche qui, mentre il rigore implica un arieggiamento vivo - impegnato nella sostanza, finalizzato a un obiettivo -, la rigidità è rito, fissazione, morte.

Infine, la sicumera: una sicurezza di sé ipertrofica, artificialmente alimentata. Non la fiducia in sé che dà solidità di equilibrio - quel giusto ancoraggio indispensabile per affrontare le sfide della vita -, ma un'autostima tronfia, vacua, esibita: sicuro sintomo di un'insicurezza sostanziale irrisolta e probabilmente irrisolvibile.

Tre atteggiamenti degradati, perché finti: che indicano un soggetto opaco, vuoto, inconsapevole di sé. Contro i quali l'ironia può agire come strumento di igiene mentale: tenendo aperto il dubbio e la riflessione; evitando il montarsi la testa (il buttar giù con il riso proprio del de-ridere); irridendo alla forma per evidenziare la sostanza.

Una sana schizofrenia
Già, ma da dove nasce l'ironia? Come fecondarla? 
Mi pare che l'ironia sia il prodotto di una fertile ambiguità, di una sana schizofrenia, basata su tre congiunzioni: beneficamente produttive proprio perché suonano, alla logica, del tutto impossibili.

(1) - La prima può venir sintetizzata nell'affermazione: ci credo 'e' non ci credo.
La fede si sposa poco con l'ironia - e infatti tutte le fedi hanno sempre pesantemente combattuto chi le ha attaccate con lo scalpello del sorriso e della canzonatura. Allo stesso modo, tuttavia, l'ironia non si accorda con l'indifferenza: anzi, senza lo scatto che segue ad una morale sentita intaccata dai comportamenti correnti, difficilmente si produce la scintilla dell'ironia. La 'e' sopra evidenziata indica dunque la necessità di un atteggiamento doppio, consapevolmente contraddittorio: in cui fede e indifferenza non si elidano, ma si rinforzino a vicenda. 'Ci credo il giusto', verrebbe da concludere.

(2) - La seconda affermazione non rimanda più ad un atteggiamento, bensì ad una collocazione spaziale, oltre che psicologica: sono dentro 'e' sono fuori. E' il distanziamento di cui sopra si diceva: l'essenza stessa del meccanismo ironico.

(3) - La terza affermazione richiama ad un'aspirazione di produttiva eresia: mentre guardo una faccia, guardo - voglio guardare - 'anche' l'altra. Anche qui il soggetto cerca la scissione: non si accontenta di un punto di osservazione, ma ne pretende insieme un altro, quello dal quale si possa com-prendere un orizzonte più ampio, in cui l'insolito, o l'ignoto, sia finalmente scoperto e preso in considerazione.

I rischi dell'ironia
Ovviamente, nulla è senza rischi e l'ironia non sfugge alla regola.
Mi paiono possibili almeno due deviazioni. Per ambedue, la causa e dovuta all'intrusione di un fattore suppletivo, l'acidità: è questa che si insinua nell'operazione di smascheramento propria dell'ironia e ne corrode le finalità genuine. 
La prima deviazione, però, è più mirata ad un oggetto, mentre la seconda ha un indirizzo generalizzato: alludo, rispettivamente, al sarcasmo e al qualunquismo.
La virata verso l'una o l'altra forma di ironia perversa è facile: comune, come nell'ironia, è il distanziamento dalla realtà, ma peculiare è qui il surplus di atteggiamento contro. Alla posizione fuori, vissuta in maniera finalmente libera e sganciata da qualunque sforzo, anche debole, di mantenersi dentro, si affianca una chiara e netta posizione contro: espressa, in genere anche esibita, senza inibizioni e prudenze.
E infatti. Nell'atteggiamento sarcastico - in coerenza con il significato etimologico del termine sarcasmo, che richiama lo spaccare le carni - l'intenzione aggressiva è esplicita e diretta: la leggerezza della canzonatura - che punge, ma non ferisce; sbilancia, senza far cadere - è abbandonata in favore della ruvida pesantezza dello scherno. In gioco non è più lo svelamento di un altro pezzo di realtà - un livello non còlto, un aspetto trascurato, una caratteristica sottaciuta -, bensì il singolo oggetto: che diviene unico bersaglio di una messa alla berlina senza scrupoli, violenta e inferiorizzante.
Differentemente agisce il qualunquismo: la posizione fuori-contro si assolutizza - fuori da tutto, contro tutto e tutti -, dando pieno corso ad un'acidità aggressiva non più parziale, ma indiscriminata. Il sorriso dell'ironia, diretto ad un oggetto determinato, cede ad un sogghigno generalizzato, che mira al mondo intero: per sporcarlo e poi condannarlo, senza appello, in un processo già deciso, dal quale esce assolto, immacolato e virtuoso, soltanto chi l'ha intentato.
Sarcasmo e qualunquismo mancano di potenzialità euristiche: non forniscono né stimoli né piste per nuovi apprendimenti. Sono meccanismi che sanzionano il presente: nonostante la virulenza con cui lo possono attaccare, non lo mettono in discussione, perché ne presuppongono una conoscenza conclusa, ormai estraniata. Tradiscono un'autocentratura inossidabile: gli altri, il mondo, non meritano attenzione, ma solo una valutazione sprezzante, dall'alto in basso.
Scontati risultano essere gli effetti. 
Quand'anche i contenuti della critica fossero corretti, la relazione entro cui vengono veicolati induce rifiuto; l'eventuale processo di apprendimento che si volesse instaurare muore sul nascere, per indisponibilità, o assenza, dell'interlocutore. 
Lo sconfinamento dal terreno leggero e scivoloso dell'ironia è frequente e può avvenire anche quasi inavvertitamente. Il fioretto - l'ironia - pretende grazia, oltre che destrezza, ed ha certo un suo fascino sottile; ma pure il brandire e il roteare pubblicamente la scimitarra - il sarcasmo - possono talora apparire gratificanti. Del resto anche l'uso di un buon ventilatore, opportunamente rifornito di piccole ma insistenti dosi di fango - il qualunquismo -, può esercitare un'attrattiva non indifferente: gli schizzi a trecentosessanta gradi che ne conseguono hanno un effetto di rassicurazione incredibile per chi, manovrando il ventilatore, riesce a mantenersi la camicia pulita, dimostrando quanto invece tutt'attorno cresca lo sporco. 

Contro i rischi di cui sopra, esistono tuttavia dei possibili antidoti. 
Ne indico almeno tre.

(1) - Il primo, intuitivo, è dato dall''autocontrollo: che si esprime in una buona regolazione del processo di distanziamento.
La posizione 'fuori' va zavorrata, e comunque i piedi vanno tenuti ben bilanciati: uno in essa e uno a terra - anzi 'dentro': la realtà, la relazione. Si tratta, come già detto, di governare un equilibrio dinamico e fisiologicamente precario, che però consente la fertile bi-sociazione ed evita la comoda dis-sociazione: dimensione quest'ultima appropriata per agire sia l'aggressione sarcastica che la deresponsabilizzazione qualunquistica.

(2)  - Il secondo antidoto sta in una pratica ferrea di una consistente dieta giornaliera di autoironia.
E' una terapia sicura: combatte la sterilità di apprendimento dovuta sia a una gracile permalosità che a una flaccida prosopopea. E se lo sforzo può essere costoso, è sempre ricompensante. Basta pensare all'immagine fisica del prendersi in giro: per farlo, ci è indispensabile prima di tutto imparare a uscire da noi - altrimenti non possiamo correre attorno a noi, per prenderci. E questo, già di per sé, data la nostra scarsa abitudine all'auto-osservazione e all'auto-ascolto, costituisce apprendimento di fondamentale valore. Ma poi, sempre per prenderci in giro, dobbiamo imparare a giocare con noi: e quello del capire le giuste misure - ad esempio, per distinguere la forma dalla sostanza ed essere seri senza divenire seriosi - è un'altra acquisizione senza prezzo.

(3)  - Un terzo antidoto è rappresentato da una posizione ben ancorata di rigore: che si esprime - e qui anche la metacomunicazione è fondamentale - sia attraverso comportamenti di autoresponsabilità, che attraverso atti i quali testimoniano volontà effettiva di rispetto dell'altro.
L'efficacia di un atteggiamento impegnato è ovvia: nei confronti dell'interessato agisce da contenitore dei suoi slanci alla di-vagazione ironica, mentre verso l'interlocutore veicola un'immagine di sostanziale riconoscimento e di presa in considerazione.

Come si capisce, si tratta di risposte da dare congiuntamente e non in alternativa: chiedono consapevolezza, sia di sé che del contesto particolare in cui si agisce. 
L'ironia non è una pianta selvaggia, che germoglia e si sviluppa senza cure: va alimentata, ma anche orientata e controllata, perché non traligni: e i fiori, gustosi proprio per il loro sapore asprigno, sempre fresco e diverso, non inacidiscano e rinsecchiscano, sollecitando smorfie anziché sorrisi.

Lo stato attuale
Non mi pare che nella nostra società l'ironia abbia oggi largo corso. Sono volutamente provocatorio, ma vedo tre ragioni fondamentali in questo.

(1) - La prima è data dalla scarsa abitudine a guardare la realtà con intelligenza.
Uso il termine nel suo significato più genuino: la capacità di cogliere i nessi - in orizzontale, all'interno di uno stesso piano, ma anche in verticale, tra un piano e l'altro, come è ancora più necessario per sviluppare una qualche disponibilità ironica - mi pare debolmente diffusa. Privilegiamo la vista corta, che punta all'immediato: sia come tempo, che come spazio. E rimaniamo spesso prigionieri di piccole nicchie, dalle quali osserviamo spicchi di realtà, illudendoci di aver compreso tutta la realtà.

(2) - La seconda ragione sta nella frettolosita: la cifra del nostro vivere quotidiano.
Non abbiamo tempo e passiamo oltre. E passiamo oltre perché fermarsi - ad ascoltare, pensare, collegare, domandare, scoprire - vuol già dire attardarsi. E noi abbiamo bisogno di stimoli sempre nuovi, di-vertenti, rapidi e seducenti. Ma l'ironia, se si sprigiona anche per insight, ha bisogno di momenti di riflessione: il frastuono, lo stordimento non ne favoriscono l'incubazione e le luci stroboscopiche e gli effetti speciali, se colpiscono, tuttavia non toccano.

(3) - Il terzo motivo è costituito dalla voglia di branco: il sentimento oscuro che spinge alla conformità, quando non al conformismo.
L'ironia nasce sempre da uno scatto individuale: da un io che avverte lo star bene con sé stesso, oltre che con gli altri. Non da una autosufficienza, ma certo da una autonomia. E inaridisce in tempi in cui le domande di omologazione si sprecano, in una gara gomito a gomito con le offerte.

Ma miriamo ancor più la provocazione e zumiamo al mondo manageriale, assai frequentato dalla formazione istituzionale.
Porrà essere uno schizzo drastico, ma ho l'impressione che i punti seguenti colgano il cuore di molti comportamenti.

(1) - Un primo impegno comune sembra essere dedicato a difendere con perseverante ossessività le posizioni formali acquisite.
Titoli e simboli di status vengono derisi solo per comunicare un anticonformismo di facciata: di fatto, la loro ricerca, e la loro difesa, è accanita e incessante. Varia lo stile, da contesto a contesto: ma non sempre l'ambiente stereotipatamente pensato burocratizzato è il più geloso custode della ritualità del grado; altrimenti non si spiegherebbe la proliferazione, anche in società di consulenza che vendono meritocrazia, di titoli di vice (presidenti e direttori generali) e di ogni altro simbolo che la sociologia di Villaggio ha cosi ben illustrato.

(2) - Contro una spontaneità sempre proclamata un'attenzione professionale quasi maniacale è prestata alla recita dei ruoli.
La funzione ha schiacciato il funzionario - che, nella etimologia, suona giustamente passivo: 'colui cui è stata data una funzione'. Ma il funzionario, dirigente o quadro o impiegato che sia, ha schiacciato la persona. E quando la vita diventa un palcoscenico e l'attore prende il posto dell'uomo, ciò che più conta non è l'essere, ma l'apparire
'Presidiare i ruoli', ripete la retorica managerial-consulenziale: ma parrebbe ormai, molto spesso, che siano i ruoli a presidiare noi.

(3) - Se anche lo yuppismo non è più 'in', risultare vincenti rimane aspirazione generalizzata.
Chi non corre, ha già perso: e perdente è eventualità terrorizzante, per scongiurare la quale qualunque mezzo è lecito e qualunque costo è leggero. Ma a chi corre, il tempo non basta mai e le pause sono precluse:
lo sguardo è fisso al traguardo e ogni occhiata in giro - e figuriamoci a se stessi - è distrazione. Qui la terra è secca e l'ironia non attecchisce; ma se cosi non fosse, occorrerebbe disperdere il seme da subitò: caso mai, germogliando, smascherasse il vuoto contrabbandato per pieno.

(4) - Si è già detto del conformismo diffuso, non esclusivo appannaggio del mondo manageriale. La sua traduzione, in questo contesto, passa attraverso l'opacità dei rapporti di collaborazione: ancora troppo imbevuti di dipendenza e di desiderio di compiacere.
L'ironia è critica, messa in discussione, voglia di sostanza. Non ama il sussieguo e canzona il birignao. Non si arresta di fronte alle mostrine e alle onorificenze: accetta l'autorità, ma soltanto quella autorevole. Va d'accordo con collaboratori veri: detesta gli attendenti.

(5) - Altro nemico dell'ironia è l'indifferenza
L'abitudine a non ascoltare produce sordità: e sembra che talora, anche nel mondo del lavoro, la sordità non sia prodotta solo dal frastuono delle macchine, ma attentamente progettata da un comportamento autocentrato, che con la scusa dell'obiettivo perde di vista tutto il resto.
E' la nostra comune esigenza di fondo a vincere: la rassicurazione. 
Siamo come incistati nelle nostre nicchie: a coltivare, con cura meticolosa, la nostra sordità. Per non reagire diversamente dall'usuale, per non - eventualmente - modificare credenze, concetti, opinioni, valori, scelte. "Taci, il nemico non ti ascolta", ha detto recentemente qualcuno che riesce ancora a non restare indifferente alla nostra indifferenza.

In sintesi
L'ironia è un anticorpo fastidioso e benefico insieme: perché punge e destabilizza. La sua intolleranza è preziosa, perché impedisce che i conti quadrino e i cerchi si chiudano. Fertilizza il pensiero: rigenerandolo continuamente e comunque tenendolo sempre in effervescenza, sospeso tra un dubbio e una convinzione. Rinnova il comportamento: perché induce autoconsapevolezza e dunque consente i riaggiustamenti di tiro che conseguono agli apprendimenti più fecondi.
Ci suggerisce un monito: il miglior modo per essere seri è proprio quello di non esserlo troppo.

*** Massimo Ferrario, Serietà dell'ironia. Un meccanismo per apprendere meglio, 'Rivista Aif', Associazione Italiana Formatori, n. 11, dicembre 1990.

4 commenti:

  1. Articolo molto bello, tanto nella parte "psicologia" sulle implicazioni individuali dell'ironia, quanto in quella organizzativa sulle sue ripercussioni lavorative.
    Non so perché ma qua e là mi è venuta in me questa poesia di Szymborska

    http://www.judo-educazione.it/galleria/poesia/curriculum.html

    della quale consiglio la lettura e la pubblicazione.

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  2. Hai ragione, Valerio.
    Tutta la produzione poetica della Szymborska è percorsa da una vena di sottile, intelligente ironia. Davvero una grande 'anima', quella donna.
    Io l'ho saccheggiata più volte nel mio 'sguardo poietico' via twitter.
    Anche 'Scrivere il curriculum', cui tu rimandi, l'avevo inserito nel n. 261 del 3 gennaio 214 (http://twl.sh/1eujuCz).
    Grazie dell'intervento

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  3. L' articolo è di puro godimento intellettuale, caro Massimo, e rispecchia quella che, a mio parere, è l' imperitura "essenza" dell' ironia, o almeno per come l' abbiamo declinata nella cultura europea, cioè quel essere "dentro 'e' fuori", "soggetto" e contestualmente "oggetto" di contenuti della realtà in cui "credo 'e' non credo, con la coscienza che il confine "et-et" non è una linea retta, ma piuttosto una compenetrazione di spazi frattali, in cui si rischia (si cerca ?) di perdersi, ma sempre ci si (ri)trova, magari su altri piani, altre dimensioni. Ciò è bastevole nell' ambito dell' auto-ironia; con gli altri, il problema è la "sottigliezza"; e come può essere l' ironia, se non sottile ? Più è sottile, meno è compresa, quindi è sterile; nei casi peggiori di "malpancismo" diventa facilmente oggetto di reazioni di chiusura verso l' ironico incompreso. Ecco la tentazione inevitabile dello scivolamento verso la deriva sarcastica, che poi, a furia di praticarla, diventa spesso qualunquistica o qualunquistico-sarcastica. E' una vera sofferenza per chi ha il dono dell' ironia, perché la sua onestà lo costringe a "spaccare" un pò anche la propria di carne. Ma è il prezzo che si paga per essere sè stessi, e godere (si godere!) di questo grande dono dell' intelletto umano, il quale, concordo con te, sembra merce sempre più rara, anche nelle versioni qualunquistico-sarcastico "alte". Questa è l' epoca dello sdoganamento universale dell' insulto in tutte le sue forme, dell' offesa cercata e voluta, della parolaccia bovina e insensata. Del fuori tempo e fuori luogo, se non si è "allineati e coperti" con il monolitico pensiero.

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  4. Grazie Paolo: è proprio un bel commento il tuo...;-)
    Con l'occasione devo ringraziarti anche perché sei stato tu a incoraggiarmi a proseguire con questi contributi di #ark.
    Infatti, almeno a giudicare dai riscontri della piccola statistica offerta dal blog, questi inserimenti 'vintage' stanno ottenendo un discreto numero di visualizzazioni (mi debbo basare sulla 'quantità' dei clic, perché la 'qualità', più segnata dal numero dei feedback, è molto... sobria, anche se, in compenso, come nel tuo caso, molto 'preziosa').
    Ho in in serbo altre cose d'annata... Spero di continuare a non essere 'fischiato'...;-)

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