martedì 5 maggio 2015

#ARK #IMPRESA / Collaborare, gli stili di relazione con l'autorità, 1990 (Massimo Ferrario)

Nel 1990, quando ho scritto questo articolo, il tema del 'collaborare', almeno in Italia, non era trattato. Anche all'estero non era molto esplorato, nonostante girasse, nella solita cultura anglosassone, qualche testo sull'argomento. 
Sono trascorsi 25 anni e, francamente, non mi pare che lo scenario, su questo specifico punto, sia molto mutato. 
Continuiamo ad essere invasi da libri e saggi vari sulla 'leadership': anche se pochi ormai sono quelli che hanno qualche idea che mette conto di essere letta, la maggior parte essendo costituiti da fuffa, forse anche attraente, che ripete cose già ripetute. 
Ma sulla problematica che riguarda il 'collaborare' c'è poco o nulla.
Eppure, io credo che la questione sia sempre più all'ordine del giorno di un cambiamento culturale impellente: se vogliamo migliorare davvero, senza retorica, l'efficacia delle organizzazioni di lavoro, oltre che il benessere di noi individui, rendendoci meno 'dipendenti', nei contesti di lavoro, e meno 'sudditi' e più 'cittadini', nella convivenza sociale e in politica. 
Nella mia attività di consulenza in materia di sviluppo organizzativo, in questi anni, io, nel mio piccolo, non ho mancato seminario, con manager e professional anche di parecchie multinazionali, in cui non toccassi il tema. E più volte mi è capitato di centrare un intero corso solo su questo, avendo come traccia di fondo proprio l'articolo che qui ripropongo.
Credo che, con il senno di adesso, modificherei un paragrafo e cancellerei un accenno.
* Il paragrafo che modificherei è sullo stato attuale. La valutazione che davo nel 1990 era già assai critica, ma oggi, a me sembra indubbio, anziché essere migliorati (come tra le righe credevo potesse succedere), siamo nettamente peggiorati. Il regresso è consistente e pesante. E una 'cultura di interdipendenza', nel lavoro e nella società (i due contesti sono ovviamente più che comunicanti), mi pare, per il momento, una 'speranza quasi disperante'.
* L'accenno da cancellare è all'etica. Nell'articolo si richiama la 'moda' di quegli anni. Confermo: l'etica era diventata un''etichetta'. Tutti la ossequiavano. E qualcuno aveva pure pensato di lanciare un'associazione e una rivista di 'Etica degli Affari', incontrando subito un fallimento miserevole. Bene: oggi non è più di tendenza neppure la parola 'etica'. E chi la pronuncia viene immediatamente stigmatizzato come il solito predicatore moralista.
Nel complesso, comunque, mi sembra che il contenuto di questo documento continui a 'funzionare': almeno come impostazione di fondo. 
E possa suscitare, ancora, spunti vari di discussione. Magari pure, in combinata con la presentazione (provocatoria) che ne sto facendo, di sana polemica. (mf)

° ° °

Il diritto di collaborare
Nelle organizzazioni di lavoro, esiste un ruolo che ci accomuna, che ognuno di noi è costretto a portare e che in qualche modo gestisce: quello di «collaboratore». Non tutti, infatti, siamo capi; però tutti - anche i capi - sono collaboratori. Compresi gli amministratori delegati: dipendenti da quel consiglio di amministrazione che li ha nominati e da cui traggono autorità.
Si tratta di una condizione di egualitarismo oggettivo: evidente, incontestabile. Eppure, poco consapevolizzata. Non si spiegherebbe altrimenti il volume di riflessione che anima da sempre libri e articoli in tema di comportamento organizzativo e percorre con insistenza le aule dei seminari più o meno manageriali: una riflessione tutta incentrata attorno alla figura del capo. Il ruolo del capo. I capi e la gestione dei collaboratori. Il capo e la leadership. Il capo e le sue responsabilità nel motivare, orientare, guidare, controllare e valutare i collaboratori.
Lungi da me contestare l'importanza della gerarchia. Tuttavia, credo sarebbe ora di riequilibrare il fuoco: incrementando l'interesse e attenzione per l'altro polo - il collaboratore, appunto - e cominciando a porsi domande su cosa il collaboratore, in quanto tale, possa e debba fare per governare al meglio la sua relazione con il capo e migliorare in generale la propria efficacia.di comportamento dentro l'organizzazione.
Penso che il riequilibrio sia opportuno e urgente per almeno tre motivi. 
Il primo è che lo esige la forza dei numeri, o del target: collaboratori, si è detto, siamo tutti. 
Il secondo trae origine dall'osservazione non edulcorata della realtà: «girano» modi differenti di prestare collaborazione e la maggior parte di essi, a me sembra, ha ben poco a che vedere con una autentica collaborazione. 
La terza ragione, infine, è anche psicologica: parlare sempre e soltanto del capo conferma e rinforza il già sin troppo diffuso stereotipo per cui tutte le responsabilità di un corretto - utile, efficace - gioco organizzativo fra capo e collaboratore, stanno sulle spalle del primo. Una convinzione che si fonda su un'onnipotenza che chiunque sa inesistente, ma che è anche rassicurante, per tanti collaboratori solo presunti, fingere esistente, per giustificare le troppe e comode impotenze.
Naturalmente, neppure si vuole qui sostenere che chi è chiamato a collaborare possa tutto o che le parti in rapporto si equivalgano per «oneri e onori». Affermo solo la necessità di un franco ripensamento: chi collabora ha spazi che non usa o ha spazi che usa male. Non sempre, ben inteso; ma spesso: e più spesso di quanto si sia disposti a concedere.
Se collaborare, oltre e più che un dovere, è un diritto, è un diritto che non si assegna, ma si conquista. Ed è una mezza verità affermare che ogni capo ha il collaboratore che si merita: perché la verità intera si ottiene aggiungendo, a questa affermazione, il suo reciproco.

Gli stili di collaborazione
I modi con cui in concreto può essere prestata collaborazione sono riconducibili a una classificazione abbastanza nota, che gioca attorno al termine «dipendenza». 
La riprendo qui, per passare velocemente in rassegna ogni modello e per poi insistere, più ampiamente, sull'unico stile che a mio parere ha la dignità di essere qualificato di collaborazione. Gli stlii cui mi riferisco sono quattro: di dipendenza, di contro-dipendenza, di indipendenza e di inter-dipendenza.

(1) - Il modello della dipendenza ruota tutto attorno a un motivo, quello del «sì»
Un sì pronunciato a chiare lettere o appena fatto intuire, ma comunque sempre incondizionato, indiscusso, totalmente concesso. Certo, la gamma dei comportamenti effettivamente esprimibili è ampia: quando lo stile è esasperato, il richiamo alla figura rozza e caricaturale di Fantozzi è facile e immediato. Però, non sempre è necessario ricorrere alle tinte forti: le mani sudaticce, le dita che si intrecciano. Esistono modi più signorili e forbiti, peraltro conosciutissimi, di affermare una nobile e pacata sudditanza, di ribadire un ossequio e un conformismo distinti e appassionati: senza necessità di sbattere i tacchi - facendo capire a tutti che si sta ubbidendo - e mantenendo, almeno sul piano fisico, la schiena diritta. 
Ad esempio, un «no problem» ben detto - al momento giusto e con riuscita convinzione e compunzione - può servire ottimamente allo scopo. 
Alla collaborazione, questo stile preferisce dunque l'abdicazione. Anche quando il capo non ha ragione, si fa come se l'avesse. E se proprio non viene detto sì, nemmeno viene mai opposto un no: con una prontezza e una disponibilità a eseguire, che fa le persone senz'altro «diligenti», anche se quasi mai «dirigenti».

(2) - Lo stile di contro-dipendenza costituisce l'opposto del precedente. 
Il motivo conduttore non è più un sì, ma un «no». Un no insistito, sempre e comunque esibito: gettato lì con rabbia oppure lanciato contro in modo capriccioso. Senza spiegazioni: assoluto, conclusivo, inappellabile. 
Anche qui, la mappa dei comportamenti concreti ammette varie tonalità e alcune di esse tendono a vendere, almeno sul piano formale, una maggiore o minore apertura relazionale. La sostanza, tuttavia, non muta: al posto della collaborazione, c'è solo rifiuto, opposizione, contestazione di rapporto. In definitiva, un Fantozzi rovesciato: probabilmente, il sogno ricorrente di chi, stufo di ritrovarsi le dita intrecciate e le mani sudaticce, spera una buona volta di poter menare le mani e far vedere, finalmente, «chi è lui» e di «cosa è capace». Per sfogarsi: e non certo per avviare un nuovo modo di collaborare.

(3) -  Lo stile di indipendenza si sviluppa invece lungo l'asse dell'assenza. 
Chi dovrebbe collaborare non c'è perché ritiene di poter essere auto-sufficiente: fa per conto suo, agisce come se il capo non esistesse. Nella presunzione che «tanto, lui solo sa come fare». 
È chiaro, anche qui, che la forma può differenziare i modi: da quelli più evidentemente distanti, talora ostentati, come per comunicare a tutti l'intenzionalità del comportamento - a quelli più formalmente vicini e controllati - per contenere la violenza di una scelta di isolamento, alla lunga incompatibile con la logica di un'organizzazione fondata, fra gli altri, sul principio della gerarchia.

(4) - Ma veniamo all'ultimo stile, quello dell'inter-dipendenza
Appare subito evidente la ragione per cui questo è l'unico che possa fregiarsi della qualifica di realmente collaborativo
Le differenze dei tre stili precedenti sono nette sul piano della forma, assai meno su quello della sostanza: in tutti, ciò che manca è la relazione. Una relazione genuina, almeno: viva, feconda, che presupponga l'altro e che intenda «lavorare con» l'altro. 
La dipendenza, infatti, istituisce un rapporto di falso rispecchiamento: rimandando un'immagine che l'altro si presume voglia ricevere. E si è come si pensa che l'altro voglia si sia. La contro-dipendenza rappresenta un'oscillazione sul polo opposto: si traveste da non-dipendenza, rimanendo schiacciata sotto il peso di un'autorità cui si sa solo rispondere, coattivamente, con un no. 
L'indipendenza, infine, nasce su un'opzione, chiara e non nascosta, di estraneità e di auto-sufficienza: la relazione è negata all'origine. 
Resta l'inter-dipendenza: come unica configurazione che domanda e persegue una tensione di rapporto. Lo stile interdipendente parte infatti dalla consapevolezza che collaborare implica fare i conti con l'altro - il capo, appunto -. E che al capo vanno detti - sempre e proprio per dare significato al collaboratore - tutti i sì e tutti i no che servono. Non solo gli uni e non solo gli altri; ma gli uni 'e' gli altri. Senza cadere né nella sudditanza - sempre i sì - né nel ribellismo agitatorio e inconcludente - sempre i no -. E, soprattutto, avendo come finalità primaria quella di preservare - anzi, alimentare e far evolvere - il rapporto: che resta l'essenza - la materia costituente, ma anche l'unico carburante - di ogni genuina e fertile collaborazione.

Lo stato attuale
Temo che lo stato attuale delle realtà di lavoro - le imprese, per non parlare del pur vario mondo delle organizzazioni pubbliche - non sia molto confortante.
La cultura italiana non ha ancora risolto, dentro sé, il nodo profondo del rapporto con l'autorità. La nostra diseducazione, sotto questo profilo, emerge vistosa e spessa, sia quando siamo chiamati a gestire autorità che quando ci confrontiamo con essa da posizioni di dipendenza.
La dipendenza «funzionale», appunto, si traduce troppo spesso in dipendenza «psicologica»: e prevalgono conformismo o ribellismo sterile; quando non avviene la deviazione, di tipo difensivo, verso l'indifferenza, più o meno tinta di burocratismo, e l'auto-ripiegamento solitario.
Negli ultimi anni, almeno le organizzazioni di lavoro più attive - prevalentemente private, ma certamente tutte quelle che hanno dovuto imparare a governare tecnologie, prodotti e mercati in incessante cambiamento - hanno aperto processi di rinnovamento culturale: che stanno intaccando anche i tradizionali atteggiamenti di autoritarismo, da una parte, e di frequente eccessiva cortigianeria, dall'altra.
Ma una formazione in questo senso è lunga e faticosa, perché deve smontare apprendimenti - certo poco razionalizzati e tutti affidati alla sfera affettivo-emotiva - vecchi e consolidati: rinforzati, peraltro, nel corso degli anni, da esperienze plurime positive di successo.
Da quanto tempo, infatti, si sta dichiarando che l'obbedienza non è più una virtù? Che essere diligenti non basta per conquistarsi merito? Che alla fedeltà è preferibile le lealtà, ma che neppure la lealtà è sufficiente, se non si accompagna a competenze effettive e a risultati tangibili prodotti?
E al di là del dichiarato - dei convegni, dei seminari, degli articoli -, in quante organizzazioni si premia «davvero» la capacità di critica, la voglia di confronto, il gusto della creatività, il desiderio di innovazione, il pensiero divergente?
Insomma: siamo sicuri che il collaboratore - l'inter-dipendenza - sia, oltre che uno stile descritto nei modelli di management, anche un valore preciso, scelto, affermato, perseguito, premiato nelle organizzazioni?
Ho risposte non ottimistiche. Tuttavia, sono convinto - e so di non possedere una convinzione originale - che la tendenza a modificare lo stato attuale sia inarrestabile: la scelta essendo più nelle cose che nell'ideologia.
La complessità montante esige un'intelligenza diffusa: abilità locali, decentrate, autonome, di analisi e intervento. Dunque, competenze forti e solide, congiunte a sensibilità e atteggiamenti aperti: dialettici, flessibili. Che mettano in discussione, inseriscano il dubbio, rifiutino le prescrizioni.
Capi più realmente «dirigenti»: che sappiano assumersi il rischio dell'interpretazione, della valutazione, della decisione. E collaboratori finalmente tali: che non sappiano soltanto ricevere - o trasmettere ancora più in basso - le istruzioni dall'alto, ma che sappiano - anche e soprattutto - «mandar su» segnali: i vincoli assolutamente immodificabili, le opportunità meno immediatamente evidenti, le alternative più sottili e convenienti, le proposte e i pareri meno usuali e più costruttivi.
Insomma, non un'obbedienza scontata e tranquilla, né una disobbedienza preconcetta e capricciosa. «Semplicemente», una collaborazione: appunto.

Le parole chiave del collaboratore
Ho provato a riassumere in un piccolo elenco in sei punti le parole-chiave attorno cui credo possa articolarsi un discorso genuino di collaborazione.
Naturalmente, niente regole; ma solo qualche linea per un ragionamento e alcuni spunti per un'attenzione al tema meno fredda e più orientata.

(1) - Competenza - La prima parola che penso debba essere inserire è certamente quella di «competenza». Non esiste possibilità di vera collaborazione se mancano conoscenze e capacità precise, aggiornate, funzionali ai risultati che si devono conseguire. Non esiste possibilità di reale confronto senza informazioni concrete e pertinenti; senza conoscenze, teoriche e pratiche, adeguate ad affrontare i problemi; senza un saper-fare puntuale, in grado di far fruttare i metodi e gli strumenti disponibili.
Il sapere rappresenta la condizione indispensabile perché un collaboratore sia riconosciuto nel suo diritto di esistere in quanto collaboratore. Costituisce la sua legittimazione a interloquire: a dire la propria, a controbattere, a proporre, a difendere le proprie scelte. Fornisce autorità autorevole. Ed è grazie alla competenza - dimostrata, verificata sul campo - che scatta, anche per l'interessato, la sfida: la voglia di misurarsi - di competere - con se stesso, con l'obiettivo assegnato, con gli altri, con il capo medesimo. Competenza, dunque, come condizione indispensabile, ma anche come canale attraverso cui passa un rapporto di collaborazione. Nelle relazioni di lavoro, il confronto non può essere astratto: ma è sulle questioni, tecniche o gestionali, che attengono il lavoro. E lo strumento di base che consente di governare il lavoro è appunto la competenza. Solo chi la possiede, possiede il linguaggio - utile, accettato - per parlare e per parlarsi reciprocamente.

(2) - Fiducia - La seconda parola è probabilmente «fiducia». In sé, innanzitutto. Un collaboratore poco convinto delle proprie competenze - dubbioso, timido - tenderà facilmente a esporsi il minimo indispensabile: ad assecondare le opinioni del capo, a non sforzarsi di trovarne di proprie. Dunque, a cedere alla dipendenza: facendosi presto sedurre dal fascino di carismi veri o improbabili.
Collaborare implica invece possedere una sicurezza di base capace addirittura di produrre e alimentare dubbi: perché solo chi ha fiducia nelle proprie capacità di trovare risposte può permettersi di farsi e di fare domande. Ed allora, ecco l'argomentazione contraria, la voglia tutta professionale di sperimentare l'altra strada, il gusto di rimettere in discussione dati, ipotesi e alternative. Con la certezza che, comunque, dal nuovo «intrico» si verrà fuori e che l'ultima soluzione sarà migliore - se non altro perché sarà stata più immediata e verificata - della prima.
Tuttavia, perché il confronto con il capo si avvii, occorre un secondo tipo di fiducia: quella appunto riposta nel proprio capo.
Questa sottintende due cose: la legittimazione della sua professionalità - della sua competenza in quanto tecnico e in quanto capo - e la convinzione della sua lealtà. Non si intavola una discussione con un interlocutore di cui si svaluta in partenza la capacità specifica di affrontare l'argomento. Ma neppure si cerca il confronto con chi si teme faccia poi cattivo uso delle nostre obiezioni: oppure è a caccia della nostra più piccola debolezza, o caduta di ragionamento, per stilare giudizi definitivi.
Il confronto deve essere onesto, il gioco pulito: al diritto-dovere di prestare una collaborazione non finta, deve corrispondere il dovere di saper accettare dubbi e dissensi in chiave produttiva e di utilizzare, se mai, mancanze o inefficienze in chiave formativa.

(3) - Responsabilità - «Responsabilità» è la terza parola-chiave. Rimanda a una consapevolezza troppo spesso labile o appannata: quella che ci dovrebbe rammentare l'indissolubilità di un legame, in base al quale siamo chiamati a rispondere. O, meglio - come suggerisce l'etimologia- «continuiamo a rispondere». L'organizzazione è un fatto collettivo: in essa non viviamo soli, maturiamo diritti, siamo titolari di obblighi. Abbiamo ruoli da osservare, parti da giocare. E ne dobbiamo render conto. In 'auto-nomia', ma non in 'auto-sufficienza'.
Ne consegue un corollario: ovvio sul piano razionale, meno accettato sul piano emotivo. Le situazioni in cui siamo, 'ci riguardano': non vi siamo estranei, ma partecipi.
Può esser comodo assumere il ruolo di spettatore, ma è fuga, o tradimento, farlo, quando siamo implicati come attori. La confusione è frequente. Molta de-responsabilizzazione nasce da questo equivoco invitante: che scambia il 'film' con il 'cinema'. Il concetto di responsabilità dovrebbe invitarci a non uscire dalla pellicola: e a farci tenere addosso gli oneri e i rischi derivanti dalle parti che ci sono state assegnate: che ci siamo assunti, che abbiamo accettato o anche, quando accade, che non abbiamo al momento libertà di rigettare.

(4) - Rigore - La quarta parola, «rigore», ha due significati: uno più tecnico e uno più comportamentale.
Il primo sottolinea l'indispensabilità di un agire disciplinato, metodico: secondo criteri di sistematicità e di razionalità. In questo senso, il rimando alla competenza è evidente.
Il secondo significato introduce invece, in maniera piena e aperta, un richiamo etico. Rigore, infatti, è qui inteso come impegno, serietà, coinvolgimento genuino e non parziale, da parte di chi presta collaborazione, nel proprio ruolo, nella situazione, nella relazione con 'gli altri'
Un antidoto alla superficialità, all'approssimazione, alla schizofrenia tranquillamente accettata: in base alla quale si fa esattamente il contrario di "quanto si dichiara, senza neppure tentare di realizzare quel minimo di tensione necessaria per minimizzare le incoerenze fisiologiche e massimizzare la coincidenza fra parole e fatti. Da questo punto di vista, rigore implica il costo di un investimento non leggero: che si paga 'mettendosi dentro', non abbandonandosi all'estro e alla improvvisazione, misurandosi ogni volta con standard professionali sempre più ambiziosi. Per consentire risposte - e una responsabilità - sempre più puntuali, complete, adeguate: in una ricerca di miglioramenti - l'eccellenza - costruita su piccoli ma continui 'sforzi.

(5) - Rispetto - La quinta parola-chiave è «rispetto», e con le due precedenti costituisce il trittico delle parole più 'forti' - perché esigenti, soprattutto sotto il profilo dell'eticità domandata - dell'elenco.
I contenuti sono vari: non c'è rispetto se manca volontà - capacità, sensibilità - di ascolto; se è assente il gusto del confronto - autentico, non rituale -; se vengono violate le regole della chiarezza, della trasparenza, della onestà del rapporto; se l'altro è piegato - strumentalizzato, manipolato ai fini personali - nascosti, travestiti - di una parte.
Collaborazione significa, apertura, disponibilità genuina a discutere, confrontarsi, operare con l'altro. Il gioco non ammette trucchi: informazioni non condivise, dati sottratti, remore non comunicate, promesse irrealistiche. Il termine confronto evoca due condizioni indispensabili: lo sforzo di razionalità espresso da più 'fronti che si mettono insieme' e la pulizia di comportamento che segue a più 'fronti/facce che si guardano'. Rammentare questo aiuterebbe a portare più rispetto a una parola - rispetto, appunto - che viene spesso poco rispettata: ad esempio, tutte le volte in cui si finge di dichiarare all'altro un accordo inventato, oppure si evita di esplicitare - argomentandolo, fornendo all'altro elementi per capire ed eventualmente cambiare opinione - il nostro dissenso.

(6) - Rischio - L'elenco si chiude con una considerazione sul «rischio».
Lo status di collaboratore non è «ascritto», né è trasmesso meccanicamente per virtù di legge organizzativa. Va guadagnato: costantemente esercitato, negoziato, conquistato. Dunque, non è gratuito: lo si può assumere, lo si può perdere - almeno quello 'effettivo', non necessariamente coincidente con quello sanzionato negli organigrammi.
Ancora una volta, dunque, noi 'siamo dentro': attori, e non spettatori. Possiamo girare un film interessante - vivo, di azione, con una trama coinvolgente -; oppure un film noioso - freddo, fermo, con una trama stanca e povera di emozioni -. Nel primo caso, la componente rischio è inevitabile: dovremo esporci - agire, parlare, dissentire, argomentare, persuadere -. Far valere la nostra competenza, dimostrare la nostra intelligenza: 'misurarci con'. Valutare, ma anche essere valutati: entrare nelle situazioni, gestire i processi. E i risultati non sono garantiti.
Rischiare, dunque, è verbo ineludibile: possiamo evitare di coniugarlo - forse più nella vita, che nelle organizzazioni di lavoro - solo abdicando. Ma in questi casi, avendo optato per il 'cinema', non dovremmo poi troppo protestare se non abbiamo più parte nel 'film'.

Professionalità, ma anche etica
Non credo certo di aver esaurito la problematica del collaborare ricorrendo a un vocabolario in sei punti. Penso però di aver proposto una griglia - parziale, ma finalizzata - che può consentire di tener sotto controllo alcuni dei termini potenzialmente a maggior impatto.
So che il problema non si risolve con un dizionario: né di sei né di seimila vocaboli. Tuttavia, consola sapere che qualunque pratica, prima di essere tale, è teoria.
Ho già dichiarato che il delta attuale, fra fatti e intenti, è sensibile. Collaborare piace, ma non è sempre piacevole. E allora - spesso almeno - pare preferibile far finta: assolvendosi in partenza per l'impossibilità strutturale di fare altrimenti e colpevolizzando contesto e capi per la loro incapacità, o non volontà, di consentire cambiamenti. Però, l'esigenza di avvicinare i fatti agli intenti resta, e anzi si fa ogni giorno più netta e pungente.
Chi vuole collaborare, in questa situazione, non deve esser lasciato solo: è ingiusto - perché fa violenza a ogni analisi di realtà - prescindere dai condizionamenti esterni. L'acqua - la sua temperatura, il suo tasso di limpidità o di inquinamento - influenza certamente la vitalità degli organismi che la abitano. E anche qui, come in altre realtà del tutto fuor di metafora, molte azioni di bonifica si renderebbero urgenti e necessarie.
Tuttavia, sappiamo anche che spesso si sottolinea il 'contesto' per lasciare in ombra il 'contenuto': le sue possibilità di azione, le sue responsabilità. Le parole chiave sopra accennate vorrebbero non far dimenticare appunto il ruolo' che - comunque - chi è implicato ha e può avere.
Quando si insiste troppo nel ripetere che si hanno le mani legate, spesso non si è fatta la verifica: e le mani sarebbero libere, se non venissero date per prigioniere. Alludo, evidentemente, agli auto-vincoli: frequenti proprio perché tranquillizzanti. E che si spezzano - o si sciolgono come neve -, appena si recupera un minimo di consapevolezza: un po' di fiducia, un po' di senso di responsabilità.
Competenza, rigore, rischio sono qui parole persino sprecate: da conservare per i vincoli veri. A cui vanno applicate seriamente e senza illusioni di risultati garantiti; ma con la convinzione che qualcosa è sempre possibile fare, perché le probabilità di una trasformazione - il contenimento di taluni vincoli, la scoperta di talune opportunità, l'incremento complessivo dei gradi di discrezionalità - non sono mai uguali a zero.
Per questo, il richiamo all'etica, nel titolo di questo pezzo, non è una concessione alla moda (*). - Sono convinto che nuovi modi di collaborazione non nasceranno soltanto per un rinvigorimento - peraltro sempre da affinare - delle tecniche e delle competenze oggi in mano a chi collabora. Questo, come già detto, costituisce una condizione imprescindibile: ma una semplice pre-condizione.
Il resto, ciò che dovrebbe permettere di realizzare il 'colpo di reni' capace di far uscire molti rapporti dallo stallo attuale, ha a che vedere con fattori non tecnici: ma comportamentali, anche etici.
Possono suonare espressioni retoriche.- e purtroppo lo sono spesso, perché sono rimaste troppe volte soltanto tali -; ma senza un coinvolgimento rinnovato - sincero, convinto, teso - di ognuno di noi, nessun cambiamento di modello sarà praticabile.
Tomo alla metafora cinematografica.
I fotogrammi già impressi sulla pellicola formano la nostra storia: sono tanti e non sempre dei più utili, gradevoli, interessanti. Però c'è ancora pellicola. E senza cedere né all'onnipotenza né all'impotenza, anche noi possiamo contribuire - un po' attori, un po' registi - a costruire il film. Dobbiamo solo scegliere: se, quanto e come collaborare.
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(*) Vedi le mie brevi considerazioni nella presentazione dell'articolo.

*** Massimo Ferrario, Etica e professionalità nel collaborare, 'L'Impresa', n. 1, 1990. Riprodotto in 'Mixtura', 5 maggio 2015.

4 commenti:

  1. Le cose da dire sarebbero tante. Aggiungo per ora solo una considerazione su una parola che mi piace molto ed è "Rispetto" su cui farei alcune precisazioni.
    Rispetto” è anche un termine che si usa nella scherma per indicare la giusta distanza per iniziare il duello, una distanza che viene appunto definita “distanza di rispetto”.
    Nella sana interdipendenza, il rispetto dell’altro, e quindi una certa distanza, è fondamentale per costruire e permettere un buona relazione. La relazione diventa problematica sia quando c’è mancanza di rispetto, sia quando c’è un “eccesso di rispetto”. L’eccesso di rispetto di rispetto richiama ad una distanza di sicurezza che mi mette al riparo dall’incontro con l’altro, evitando il rischio di un incontro che può mettermi in pericolo e in discussione: in questo caso il rispetto non è ascolto, accoglienza, ma distanza, separazione.
    Stefano Pollini

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  2. Condivido, Stefano.
    'Ri-spetto' è sinonimo di 'ri-guardo' e ambedue hanno la stessa etimologia, che rimanda al 'guardare', quindi al 'prendere in considerazione' l'altro. In 'rispetto' ('re-spicio') il guardare è più intenso (direi che è attentamente e ripetutamente 'osservativo') e l'etimologia è più nascosta, ma in entrambe le parole è comunque evidente il significato del 'guardare/vedere', con il prefisso 're' che indica non fugacità ma scrupolosità dell'azione.
    Del resto, a conferma contraria, non guardare chi ci sta di fronte o guardarlo come si passa con gli occhi un vetro trasparente, è il massimo della non-considerazione. E per questo ripeto da sempre che ammazza più l'indifferenza che una pistola.
    Il tuo riferimento alla 'zona di rispetto' nella scherma mi pare molto azzeccato e ulteriormente utile. Non c'è 'vista' infatti se non manteniamo la 'giusta distanza': se siamo troppo vicini, vediamo solo un dettaglio e rischiamo di prendere la parte per il tutto; se siamo troppo lontani, abbiamo l'immagine complessiva sfocata e rischiamo di non vedere tutto quello che c'è da vedere.
    Un ultimo punto mi fa (ri)dire che questa 'parolina' è fondamentale e (sempre più) poco 'rispettata'. Il modo migliore di rispettare l'altro è, quando non siamo d'accordo, esplicitargli il disaccordo: dire di sì quando dentro noi 'sentiamo' che dovremmo dirgli no è il modo migliore per non rispettarlo. Mia nonna, che per me è stata più importante di tutti i (pseudo)guru titolati che ho incontrato nella mia non breve vita, diceva che "la ragione la si dà ai matti". E, naturalmente, si riferiva ad una ragione 'finta', data tanto per dare e per 'tirarsi via dalla vista' il fastidio della persona che abbiamo di fronte.

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  3. L' articolo "classe '90" gode di ottima salute, caro Massimo; e mentre concordo con il necessario aggiustamento del tiro sulla chimera dell' inter-dipendenza, non sarei così drastico nel cancellare il valore dei riferimenti sinergici fra professionalità ed etica: proprio perché quest' ultima non è più di 'moda', fortunatamente !
    Infatti diventa facile veicolo di retorica solo ciò di cui tutti si riempiono la bocca mentre qualcuno ha le mani libere per svuotare le tasche (e le speranze) altrui. Di etica si parla poco, ma sono dell' idea che i valori etici, 25 anni dopo, siano una necessità ancora più insopprimibile per la sopravvivenza stessa della civiltà nei rapporti fra gli individui in genere ed in particolare in quelli operanti all' interno degli "insiemi organizzati" (aziendali, politici,economici e sociali).
    La componente etica relazionale, mai come ora rimane indispensabile per quel 'colpo di reni' da te auspicato 25 anni fa e che ci faccia uscire da queste sabbie mobili in cui inutilmente ci agitiamo, convinti magari di "spezzare le reni" al nemico di turno. La professione di fede nell' etica umana, prima di rientrare fra gli oggetti di studio dell' etologia, magari ad opera di un novello Konrad Lorenz venuto da un' altra galassia.

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  4. È vero, Paolo. È proprio quando nessuno parla di una cosa, che ci può essere il clima giusto per fare questa cosa. E al contrario, è dimostrato empiricamente che quanto più se ne parla, di quella cosa, tanto meno quella cosa si realizza. Però è anche vero che oggi non è che non si parli di etica: se ne parla. Ma se ne parla male. Accusando subito di moralismo chi ancora la invoca. E quindi rendendo sempre più difficile la sua messa in pratica. Certo è comunque che il bisogno di un fare che si ispiri anche al 'bello e al buono' ('kalòs kai agazòs', dicevano i greci: facendo così coincidere estetica ed etica) sarebbe più che urgente.
    Ripeto sempre che i mezzi qualificano il fine. E se l'acqua è sporca, il bucato non potrà che riuscire sporco.
    Ma chiedo: gliene frega ancora a qualcuno del bucato pulito?
    O meglio: c'è ancora qualcuno che è in grado di 'vedere' è di apprezzare la pulizia del bucato?
    Oppure si vuole un 'fare-fare che faccia comunque' e, se poi critichi il risultato per la sua sporcizia, sei un 'professionista del non ti va mai bene niente'?
    Comunque, sia chiaro, io non demordo. La parte del testardo e del 'rompi-rompi' ormai per me è una 'coazione a ripetere'. Non sempre piacevole. Ma è anche così che io sono io.

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