giovedì 28 maggio 2015

#ARK #IMPRESA & SOCIETA' / Mentore e rapporto di mentorato, 1995 (M. Ferrario)

Ancora un testo recuperato dal mio archivio: che ripropongo tale e quale, a parte due righe obsolete , tagliate all'inizio, che riguardavano il mio curriculo lavorativo.
Si tratta di un piccolo 'saggio' di vent'anni fa (1995) e indaga una delle figure di aiuto allo sviluppo (più 'umano' che 'professionale') già contenute nella mappa che avevo 'disegnato' in una pubblicazione dell'epoca (e riprodotta in questo blog qui)
La figura è quella del mèntore: termine, e funzione, ormai conosciuti e affermati anche in Italia sotto la solita 'spinta' (purtroppo sempre troppo 'modaiola') prodotta dalla cultura manageriale anglosassone. Naturalmente l'accezione di mèntore oggi prevalsa, almeno nelle prassi (benché sempre più decantate che realmente diffuse) delle organizzazioni di lavoro e delle imprese multinazionali in particolare, ha un'impronta più pragmatico-organizzativa che esistenzial-umanistica. E, forse anche per questo, quanto qui scrivevo nel tratteggiare il modello, assai diverso, cui io invece faccio riferimento, può avere tuttora senso: per indicare che 'un altro modo', almeno in teoria, esiste.
Rileggendo il testo a distanza di un ventennio anche stavolta ho provato una duplice sensazione. 
Da una parte, mi ritrovo, senza titubanze, a 'sentire' come tuttora più che valida l'impostazione 'teorica' qui descritta. 
Ma, dall'altra parte, devo ammettere che l'analisi di quello stato socio-culturale di metà anni 90, che, mentre dichiaravo non dei più felici per poter applicare il modello, pure intravvedevo al contempo qui e là 'screpolato' e potenzialmente 'aperto' a cambiamenti migliorativi, peccava (e molto) di 'wishful thinking'. 
Mi pare indubitabile che alcuni segnali già allora valutati 'negativi' si siano oggi pesantemente rafforzati. Come ad esempio: l'opacità dell''individuo' in quanto tale, sempre più 'mangiato' e 'intruppato' dalla dimensione conformistica della 'gente'; la debolezza del codice 'fraterno' , contro l'affermazione invadente di una relazionalità sempre più giocata in chiave 'top-down'; la carenza di 'tempo' e l'impazienza nei 'tempi' con cui agiamo, con la conseguente 'frenesia da prestazione subito' che rappresenta ormai una nostra sindrome conclamata.

Il testo, come dice la nota in calce, riprende un intervento discusso con universitari dell'istituto di pedagogia dell'università statale di Milano, nel febbraio 1995, nell'ambito di un seminario, appunto sul 'mèntore', coordinato da Paolo Mottana, docente di filosofia dell'educazione. 
Il libro in cui è stato successivamente inserito, sempre curato da Paolo Mottana, edito da Clueb, è ormai difficilmente reperibile anche per la messa in liquidazione, dal 2014, dell'editore. 
Segnalo, oltre all'autorevolezza dei contributori cui sono stato affiancato (Delia Duccoli, Duccio Demetrio, Costanza Sorrenti, Angelo Franza, Riccardo Massa, Antonio Prete, don Gino Rigoldi), la qualità del saggio introduttivo del curatore: uno dei più intelligenti e critici pedagogisti italiani, oggi coordinatore di un indirizzo - la 'pedagogia immaginale' - 'potente' nella sua impostazione non solo per la carica anticonformista che lo caratterizza. (mf)


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L'intervento che qui mi propongo di sviluppare si articola in due momenti: nel primo, dopo una veloce autopresentazione - penso utile perché, com'è ovvio, qualunque visione delle cose è anche influenzata dal particolare profilo professionale di chi la sostiene -, cercherò di illustrare il mio punto di vista sull'argomento del mèntore; nel secondo, invece, risponderò a domande di chiarimento e approfondimento e scambierò opinioni e idee con chiunque sia sollecitato a intervenire. 
Il mio curricolo lavorativo [si è tutto speso] nell'area del cosiddetto 'sviluppo organizzativo'. Mi sono cioè sempre occupato, sia lavorando all'interno delle organizzazioni-imprese (per i primi sei anni della mia biografìa professionale) che collaborando con le più svariate organizzazioni di lavoro (non solo, anche se soprattutto, imprese) in un ruolo formalmente esterno di consulente (...), di problemi di organizzazione (strutture, processi, sistemi e tecniche gestionali) e di risorse umane (formazione ai ruoli e ai comportamenti organizzativi, sistemi di valutazione delle prestazioni e del potenziale, rilevazione di climi e di culture organizzative).
Il mestiere di consulente, e in particolare quello che si esprime nell'area di mia competenza, si caratterizza soprattutto per un taglio per sua natura di 'supporto', e di 'facilitazione', nei confronti di organizzazioni e persone.

La mia cultura professionale di riferimento, pertanto, è maturata tutta all'interno di un 'modello di orientamento e sviluppo': un modello che fa della convinzione che le persone possano, e debbano, crescere e migliorare, il suo elemento chiave di riflessione teorica e di azione concreta.
Come vedremo, il mèntore è figura specifica, la cui effettiva possibile presenza all'interno di un sistema di rapporti organizzativi di lavoro non va assunta in modo scontato, senza che ci si siano prima posti domande, dubbi e problemi: e ciò stante la peculiarità della relazione instaurata e l'intensità dei sentimenti e delle emozioni che questa alimenta. Ma evocare la funzione di mèntore significa in ogni caso parlare di una relazione finalizzata a offrire orientamento e sviluppo a una determinata persona: e questo credo basti a giustificare interesse e riflessione da parte di chi come me si occupa di fornire sostegno e guida a organizzazioni e persone nei loro processi di cambiamento ed evoluzione.

La scaletta del mio intervento seguirà il seguente schema: (1) innanzi tutto cercherò di definire, per sintesi estrema e in astratto, alcune caratteristiche di base di una relazione incentrata sulla figura del mèntore; (2) quindi esprimerò, anche provocatoriamente, il mio pensiero sulla possibilità che simili relazioni si inneschino e crescano, in modo diffuso e in generale, nella società attuale; (3) infine, anche focalizzando l'attenzione sul mondo più specifico delle organizzazioni di lavoro, tenterò di valutare, sotto questo profilo, esigenze, risposte e possibilità aperte.

Mèntore e altre figure di orientamento e sviluppo
II mèntore è figura che condivide con molte altre figure una funzione di aiuto all'orientamento e allo sviluppo individuale.
Non è qui il caso di addentrarsi in analisi dettagliate delle differenze fra tutte quelle figure che possiamo far rientrare sotto questa categoria (1).
Citiamo soltanto, tentando qualche possibile definizione che ne tipizzi il significato essenziale, quelle funzioni che più sembrerebbero avvicinarsi al campo semantico e di azione proprio del mèntore.

Ne possiamo individuare tre, più lontane, e due, più vicine.

(A) - Le tre sicuramente più lontane sono il formatore, il coach e il tutor. In comune hanno il fatto di operare su un terreno propriamente lavorativo-professionale, senza sconfinamenti a problematiche di tipo privato-esistenziale.
Il formatore è un facilitatore di apprendimento, che opera all'interno di un contesto formale di formazione: il suo fine è quello di massimizzare il processo complessivo di apprendimento, realizzando in prima persona azioni specifiche, sia sul contenuto (didattica e stile di docenza), che - soprattutto - sul contesto (processo e clima).
Il coach fornisce un supporto più operativo, e dunque più concreto, sulla prestazione complessiva: il suo obiettivo è quello di far crescere professionalmente l'interessato, migliorandone i risultati sul campo e seguendone per questo da vicino, anche con modalità di coinvolgimento particolarmente attivo, le azioni e i progressi. .
Il tutor, strettamente inteso, è figura chiamata a offrire al processo di apprendimento uno specifico sostegno organizzativo: in quanto garante appunto del processo di apprendimento, dipana il filo rosso, talvolta nascosto e comunque sempre sotteso, del percorso formativo, aiutando a mettere in relazione, e conseguente-mente a usare in maniera ottimale, attività, persone, obiettivi, processi.

(B) - Le due funzioni invece più vicine alla figura di mèntore sono quelle di counsellor e di maestro
Il loro terreno di intervento privilegia le tematiche di tipo privato-individuali: non esclusivamente per il primo, che può essere chiamato ad allargare il campo a questioni di ruolo organizzativo e di lavoro, e invece in via assoluta per il secondo. Qui l'aiuto è indirizzato, soprattutto o totalmente, a far crescere la 'persona', non la 'prestazione', e la modalità di rapporto, intensamente emotiva, è sostanzialmente rispettosa delle autonome scelte di percorso evolutivo fatte volta a volta dall'interessato.
La differenza è nella posizione strutturale occupata nella relazione e nella meta-comunicazione conseguente.
Il counsellor si relaziona in maniera più 'orizzontale', aiutando l'interessato a scoprire da sé i suoi problemi e le sue opportunità di evoluzione, mentre il maestro offre se stesso come riferimento esemplare, in qualche modo fermo e sicuro, con cui effettuare paragoni e avanzare misure. 
Il primo, insomma, facilitando autonome riletture e ridefinizioni di sé e del contesto e stimolando conseguentemente nuove mobilitazioni di energia, lavora soprattutto sul processo; il secondo, proponendo una relazione più 'verticale', accende e accentua il confronto, anche conflittuale se necessario, con i contenuti di crescita di cui egli stesso è portatore.

Mèntore e mentorato
Ma veniamo ora più analiticamente alla figura di mèntore.
Innanzitutto, un velocissimo richiamo etimologico: la radice indoeuropea men evoca il significato di 'pensiero' e di 'forza vitale'. Anche il greco e il latino conservano questo marchio iniziale; 'menos':, e 'manzàno rimandano rispettivamente al sostantivo 'animo' e al verbo 'imparare', 'osservare', 'studiare'; mentre 'mens' e 'moneo' traducono rispettivamente sostantivi come 'mente', 'pensiero', 'animo', 'coraggio' e verbi come 'far pensare', 'esortare', 'incitare'.
Mettendo insieme queste suggestioni, forse non è arbitrario tentare di ritrovare una possibile 'anima originaria' nel concetto di mèntore sintetizzando questa definizione: "mèntore è persona che, in quanto sa pensare e possiede/orza vitale (coraggio), sa farti pensare e infonderti vitalità". 
Come si vede subito, in questa accezione risaltano una densità e un'intensità di relazione del tutto peculiari. La qualità del rapporto che si può instaurare tra un soggetto con le caratteristiche sopra accennate (mèntore) e un soggetto che decide di entrare con questi in contatto (discepolo) (2) evoca almeno due dimensioni: il 'calore' e il 'colore'
La relazione, cioè, non può essere né tiepida né grigia, ma altamente calda e colorata: appunto per consentire il passaggio - 'elettrico', si potrebbe dire - di quelle 'scintille' che costituiscono l"anima', ossia la 'forza vitale', di qualunque vero pensiero, incarnato dentro un corpo che sa e intende vivere e agire con coraggio.
I punti che seguono sono sostanzialmente dei corollari della definizione sopra esposta.
La relazione che si instaura quando ad un capo si attiva la figura di mèntore e all'altro polo quella di discepolo - relazione che possiamo qui chiamare di 'mentorato' -, si qualifica per almeno 7 caratteristiche, cui adesso velocemente accenniamo.

(1) - Mèntore come individuo - La prima qualità riguarda il soggetto mèntore. Per le ragioni appena dette, è inimmaginabile una figura di mèntore che non sia 'animata' da un 'individuo', nel senso etimologico del termine: ossia da un soggetto pieno, integro, 'ricco dentro'. Il ruolo di mèntore non si addice alle semplici 'persone' (junghianamente intese), e dunque ai puri portatori di 'maschere', bensì ai soggetti che, avendo e tuttora cercando un'anima', hanno saputo 'differenziarsi' più di altri dagli altri stessi, inseguendo il compito (sempre junghianamente) di 'rendersi individui' . Soggetti quindi che 'hanno un vissuto' e che 'vivono'; e che appunto per questo possono essere di riferimento per chi sta cercando la propria strada, anche attraverso la rielaborazione del proprio personale vissuto, per trovare una 'vita più piena e appropriata a se stessi'.

(2) - Investimento di eros - La seconda caratteristica, riguardante non solo il mèntore, ma la relazione di mentorato nella sua essenza, rimanda alla dimensione eros. Non si innesca, e soprattutto non si alimenta, la relazione di mentorato se ambedue i soggetti coinvolti non investono energia, passione, 'amore'. 'Metterci amore': è questa la condizione base perché entrambi entrino in piena comunicazione e il mèntore possa essere tale agli occhi del discepolo: che investe sull'esperienza ed è investito dall'esperienza del rapporto nella misura in cui anche l'altro esprime analogo investimento di emozioni e sentimenti.

(3) -  Codice del fratello maggiore - La terza caratteristica è soprattutto da riferirsi al mèntore e concerne la sua meta-comunicazione più genuina nei confronti del discepolo. E' ovvia la forte sperequazione quali-quantitativa di esperienze, età, vissuti: ciò del resto costituisce la materia prima di cui si alimenta il rapporto stesso. Ma questa asimmetria non deve risolversi in un codice comportamentale, da parte del mèntore, di tipo top-down. Il codice fraterno evoca ovviamente una orizzontalità relazionale che intende proporre una paritarietà psicologica tra adulti. Ed è questa paritarietà psicologica, unita al riconoscimento e all'acccttazione da parte di entrambi dell'ineliminabile asimmetria strutturale tra loro in essere, che può generare quei processi di scambio fecondo, e di crescita da parte del discepolo, che sono connaturati alla situazione stessa di mentorato. Da qui nasce l'immagine del 'fratello maggiore', contrapposta a quella eventuale del padre o anche della stessa madre: un modello, di atteggiamenti e comportamenti, che parte da una situazione oggettiva di diseguaglianza, ma che spinge per una evoluzione in qualche modo 'alla pari'; una evoluzione che il discepolo possa prima disegnare e poi determinare con obiettivi, modi, strumenti e tempi suoi propri.

(4) - Gratuità - Quarto elemento presente nella relazione di mentorato è rappresentato dalla gratuità dello scambio. Il rapporto, cioè, non ha motivazioni estrinseche: l'utilità, sia per mèntore che per discepolo, è totalmente intrinseca, ossia interna alla relazione stessa. Manca un obiettivo in qualche modo monetizzabile, sia sull'immediato che sul lungo periodo.
L'unica convenienza ammessa è quella che ha spinto i due a stringere il rapporto stesso di mentorato e che ha come finalità essenziale quella di procedere ad uno 'scambio reciprocamente generativo'.
Per il mèntore, infatti, l'utilità attesa è di tipo narcisistico-altruistico, condensabile nell'affermazione: "facilito il tuo processo di auto-orientamento, così che tu possa diventare meglio ciò che al fondo tu sei veramente".
Per il discepolo, l'utilità attesa è di crescita esistenzial-spirituale, così sintetizzabile: "colgo, da te e con te, quegli stimoli che mi possono consentire di auto-orientarmi per diventare meglio ciò che al fondo io sono veramente".

(5) Tempo/tempi - La dimensione temporale rappresenta la quinta condizione di base. Il fattore tempo va inteso declinato sia al singolare (come risorsa indispensabile perché il processo carburi e si sviluppi 'nel tempo') che al plurale (occorre che vengano rispettati sia i 'tempi' propri di un rapporto come questo che, soprattutto, i 'tempi/ritmi' propri e personali dei due soggetti coinvolti, in particolare del discepolo).
Precarietà e breve termine, dunque, sono condizioni impossibili per una relazione di questa natura, come sempre è del resto quando si intende 'comunicare' (nel senso di mettere in comune 'testa' e 'pancia') e non semplicemente trasmettere dati o informazioni.

(6) Comunicazione come ascolto reciproco - L'accenno alla comunicazione, già fatto al punto precedente, diviene in questo sesto punto tratto autonomo fondamentale, specie per gli aspetti di condivisione di responsabilità e di ascolto reciproco. Il richiamo alla condivisione delle responsabilità è autorizzato dall'etimologia stessa del termine 'comunicare', che appunto rimanda al 'mettere in comune le responsabilità di ognuno'. Si vuole qui sottolineare l'ovvia ma non scontata consapevolezza che la finalità intrinseca al rapporto di mentorato è raggiungibile solo attraverso la piena assunzione reciproca - di mentore e di discepolo - di impegni e doveri, nonché la comune volontà di condivisione di atteggiamenti e sentimenti. Circa l'ascolto reciproco, invece, la sottolineatura che si intende porre è sulla assoluta necessità, da parte dei due soggetti, di ascoltare/sentire sé, l'altro e il contesto stesso in cui ambedue sono immersi, in ogni momento del processo evolutivo, massimizzando le sintonie e le sensibilità reciproche.

(7) Pazienza nell'apprendimento - Questo settimo punto, benché non escluda il mèntore, tocca in particolare il discepolo. La dinamica che si immagina possa caratterizzare un percorso di crescita e di evoluzione individuale non è certo rettilinea, come pure forse ci piacerebbe credere, ma tortuosa, come tutti i processi di apprendimento o di cambiamento (a ben vedere, infatti, i due termini sono sinonimi).
Con una battuta, si potrebbe dire che il percorso procede necessariamente per anse, in parte a causa e in parte per effetto delle ansie prodotte dall'apprendimento stesso (3).
L'orientamento non si realizza attraverso una strumentazione presa a prestito dalla geometria euclidea: è una conquista difficile, obliqua, frutto di illusioni e delusioni, di andirivieni, di tentativi mirati e ciechi, di prove ed errori, di casualità.
Certo, conta molto la perseveranza, che consente di non demordere e di riprendere sempre la direzione di fondo, ma è appunto la pazienza la risorsa che si rivela più produttiva, perché rispetta i tempi e lenisce le frustrazioni, permettendo di mantenere accesa la volontà e la speranza nell'obiettivo finale.

In sintesi
In sintesi, possiamo dire che la relazione di mentorato, ove riesca a svilupparsi, è un po' il prodotto di una magia chimica: lo scambio generativo di cui si è detto deve essere voluto da entrambi i poli. Ambedue si prestano reciprocamente aiuto: il mèntore, soltanto motivato dalla finalità di far evolvere l'altro nella direzione da lui stesso voluta e che a lui è più propria, presta aiuto al discepolo perché questi 'si sbozzoli' e 'intraprenda nuovi voli'; il discepolo, anch'egli soltanto motivato dall'attesa di evolvere e crescere, percorrendo un ulteriore tratto del proprio 'processo di individuazione', chiede aiuto a se stesso e al mèntore, perché questi lo aiuti a generarsi attraverso lui stesso.
Naturalmente, in questa visione, il fuoco del mèntore è sostanzialmente circoscritto al terreno esistenziale-personale del soggetto e la figura del mèntore sfuma verso quelle di 'maestro' o di guru. L'eventuale problematica lavorativa, ad esempio di ruolo organizzativo, finisce sullo sfondo, meglio indagata da figure, sopra già delineate, di counsellor, o addirittura di coach e di tutor.
Possiamo immaginare una figura di mèntore, e una conseguente relazione di mentorato, meno calda e intensa, giocata anche in parte sugli aspetti problematici più propriamente professionali e di ruolo del discepolo.
Ci sembra comunque che i tratti di base sopra accennati, anche in questo caso, non siano del tutto cancellabili: ad esempio, la volontarietà del rapporto, che deve essere piena per ambedue i soggetti, è fuori discussione. Senza essa, infatti, sarebbe impossibile ai due qualunque genuina accettazione reciproca di se stessi e la conseguente mancanza di quell'investimento altamente eretico-emotivo che è il carburante primo della relazione renderebbe inerte la relazione stessa.

Lettura provocatoria dell'oggi (1995)
Il passo, adesso, può essere quello di verificare il livello di congruenza effettiva tra la realtà oggi generalmente diffusa, nei suoi atteggiamenti e comportamenti sociali fondamentali, e il modello stesso sopra descritto. Dal confronto possiamo tentare di immaginare l'applicabilità e l'estensione, allo stato attuale, di una relazione di mentorato quale quella qui delineata.

Tento una provocazione in cinque punti, volutamente tracciati in forma estrema e sintetica.

(1) Gente e individui - II primo punto rimanda al concetto di individui. Temo che l'inflazione del termine 'gente', abusato da ognuno di noi, descriva appropriatamente il fenomeno oggi imperante: il secondo termine ha preso il posto del primo. E sempre più diffìcile, mi pare, trovare persone fornite di un'individualità precisa: salda, spessa, intera. Domina una specie di 'marmellata', la 'gente' appunto, che segue conformisticamente pensieri, idee e mode della maggioranza. I soggetti hanno ceduto alla pubblica opinione; la pubblica opinione alle varie audience. In questo contesto, trovare soggetti che abbiano 'testa' e 'cuore' per ragionare e sentire, e 'vissuti integri' e 'significativi' da offrire, in una relazione genuinamente di mentorato, a qualcuno che voglia investire in un processo di rafforzamento e crescita della propria individualità, è cosa rara e sempre più insolita.

(2) Informazione e comunicazione - Un secondo punto attiene alla distinzione fra informazione e comunicazione. I due termini vengono spesso confusi: siamo portati a ritenere che la nostra società, detta della comunicazione, avendo acquisito capacità e strumenti per comunicare, sappia farlo con sensibilità ed efficacia. Ma i fatti sembrano smentire questa credenza. E del resto, anche l'informazione, nonostante sia campo infinitamente più facile da coltivare, è spesso mal gestita: così inadeguati, intempestivi, equivoci, scarni o addirittura ridondanti, e comunque spesso insignificanti sono i dati che ci trasmettiamo.

(3) Utilitarismo - Il terzo fattore è dato dalla pervasività dello scambio utilitaristico, che sembra aver ucciso qualunque rapporto di genuina gratuità. Il valore del darsi reciproco - 'semplicemente' mettendo in comune vissuti e intelligenze - e la possibilità, da parte di un polo del rapporto, di fornire un aiuto all'altro senza secondi fini sembrano essere inibiti. Quando si tenta di allacciare una relazione lontana da qualunque do-ut-des monetario, subito compare il sospetto dell'inganno e nasce la domanda dietrologica.

(4) Comprare e pagare - Il quarto punto è in netto contrasto con la pazienza connaturata ai processi di apprendimento e che porta a pretendere, subito, il risultato atteso. Con un'espressione ad effetto, si potrebbe dire che si è sempre più disposti a 'comprare', mettendo mano al portafoglio, ma non a 'pagare', facendo appello all'impegno e ai costi dello sforzo implicito in qualunque cambiamento.

(5) Avere, apparire, essere - Un'ultima considerazione riprende valutazioni note e più volte ripetute sulla cultura di fondo di questi ultimi anni: più orientata ad 'avere', e ancor più ad 'apparire', che ad 'essere'. Benché anche qui sia in atto una lenta evoluzione, che potrebbe attenuare, per un futuro tuttavia forse ancora non vicino, molto del pessimismo attuale, al momento la qualità dei valori correnti lascia intravvedere una scarsa attenzione alla 'consistenza' e alla 'autenticità': si contrabbanda spesso per forte e saldo un 'essere' debole, frequentemente travestito, più etero-diretto che autodiretto.

Se si avvicina al modello sopra schematizzato la lettura appena accennata dell'oggi, forse un po' caricaturata ma credo non troppo falsata, almeno nei suoi tratti di fondo, esce un'immediata distonia: il contesto sociale nel quale tutti siamo immersi appare sicuramente incongruo e poco favorevole. In simili condizioni, qualunque relazione di mentorato, anche la più debole, sembra difficile possa innescarsi e nutrirsi: volontà e capacità di generare - con la conseguente reciproca disponibilità a sostenere i tempi necessari della 'gestazione' che conduce alla crescita e allo sviluppo del discepolo - cedono alla più facile e rapida volontà di prendere/comprare risultati, fìngendo e contrabbandando idee, vissuti, identità anche attraverso modelli comportamentali più orientati a imporre/imporsi che a scambiare/capire.
Insomma, scherzando, potremmo immaginare annunci sulle pagine gialle del tipo: cercansi mèntori. Ma anche discepoli.

Esigenze, risposte, possibilità
La visione del presente, fin qui un po' drammatizzata - ma resa tale anche dallo stile intenzionalmente secco e sbrigativo con cui i singoli punti sono stati trattati -, porterebbe a conclusioni di impotenza.
Credo invece che già oggi alcuni indizi, sia pure allo stato nascente, possano farci rintracciare, nel quadro dato, screpolature significative e differenti opportunità.
Certo, dubito che anche in un domani prossimo avremo un diffuso e visibile incremento di relazioni genuine di mentorato, sia nel sociale che nelle organizzazioni complesse: se accettiamo almeno in parte le considerazioni e le valutazioni di cui sopra, difficilmente possiamo immaginare una radicale conversione di tendenza di certi fenomeni.
Pure, sin da adesso siamo chiamati a fare i conti con un'esigenza precisa, che si esprime talvolta in forme contraddittorie ma con intensità crescente, peraltro purtroppo non sempre in linea con la nostra capacità di ascolto.
E questa esigenza ci fa capire che la stessa gente che pare soddisfatta di essere tale non sembra poi allo stesso tempo così soddisfatta: avverte, acuta, la carenza di 'solidità interiore' e domanda uno 'spessore', non riconducibile solo ad una maggiore padronanza degli strumenti professionali, di cui oggi ha consapevolezza di essere priva.
Il disorientamento seguito alla caduta di tutte le certezze che 'sostenevano' la vita di ieri chiede nuove capacità, e, tra queste, quella di sapersi auto-orientare: per poi decidere da sé i singoli micro-comportamenti, quelli che nessuno, dall'esterno, ci può consigliare o, peggio, prescrivere.
Sia pure in maniera confusa e ambivalente, mi pare, ci stiamo accorgendo che dobbiamo rinforzare le nostre 'derive': perché peschino più profonde e siano quindi maggiormente in grado di superare i venti e i marosi, sempre più frequenti e minacciosi. Le chiglie piatte vanno bene per fiumi e laghi, ma ormai i tempi ci fanno andare per oceani e dobbiamo modificare le nostre 'stazze': e imparare a usare gli strumenti di rilevamento, capire dove puntare, correggere le rotte.
Si creano dunque le condizioni perché le figure di aiuto - di orientamento e di sviluppo -, dentro e fuori le organizzazioni, abbiano sempre più senso e spazio.
C'è bisogno di aumentare il nostro individuale e personale 'peso specifico', mettendo in contatto esperienze diverse, di lavoro e anche di vita: perché i più giovani abbiano modo di 'apprendere' e di 'elaborare' dai meno giovani competenze, visioni, sentimenti.
E c'è bisogno di ritarare i codici imperanti - quello 'paterno', ieri autoritario e oggi ipercompetitivo e prestazionista; e quello 'materno', ieri come oggi troppo auto-assolutorio e iper-protettivo, e per questo di fatto oggi troppo respinto e conculcato -, mettendo in circolo sensibilità e comportamenti forse più fecondamente 'androgini': cui non manchi la logica 'maschile' del risultato e del merito, ma a cui sia complementare la logica 'femminile' dell'accudimento e del sostegno responsabilizzante.
'Trovare bussole', potrebbe essere il problema dei tempi attuali.
E se abbiamo ormai capito - più con la 'testa', però, che con la 'pancia' - che nessuno ha bussole e sestanti pronti per l'uso, stiamo tuttavia avvertendo, anche se un po' confusa, la consapevolezza che ognuno di noi può cercare di costruirseli, questi strumenti, scambiando pezzi di informazioni e di esperienze con altri.
Se l''orientamento' non esiste, come dato fermo e garantito, per nessuno, e se diventiamo 'individui', abbandonando la più leggera e indistinta dimensione di 'gente', cercando di 'auto-orientarci' anche attraverso gli altri, mèntori e discepoli - si badi però: nell'accezione alta e anche un po' utopica sopra descritta - possono diventare soggetti diffusi di relazioni genuine, che hanno per fine, davvero, la generazione di nuovi vissuti e, quindi, di nuovi comportamenti.
Certo, permane, sempre più grave, un rischio: che il forte e crescente bisogno di capire e di gestire il disagio da disorientamento trasformi il discepolo, anche a sua insaputa, in un 'gregario' e il mèntore in un 'leader a carisma negativo': il quale utilizzi a suo vantaggio l'asimmetria strutturale della relazione, alimentando dipendenza e castrando o deviando ogni germe di crescita. Esperienze in questo senso sono note e frequenti e la stessa analisi sin qui condotta può supportare le ipotesi più pessimistiche circa il futuro.
Ma i fatti dicono che sono altrettanto possibili esperienze contrarie: per cui il futuro, ancora una volta e senza retorica, è aperto. E sta a noi, avendo consapevolezza del rischio, tenerlo sotto controllo: in definitiva, aumentando la vigilanza verso mèntori e discepoli. E, soprattutto, verso noi stessi, quando decidessimo di implicarci in ruoli o di mèntore o di discepolo.

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Domande da parte degli studenti
(1) - «Vorrei capire meglio. Come si fa a cercare l'eventuale mèntore?»
Mi viene in mente un famoso detto orientale: "quando hai bisogno, il guru appare". Chissà, forse anche gli indiani non sapevano dove cercarlo, il mèntore, e si rispondevano così. Un po' fatalisticamente, diremmo noi occidentali ("vedrai, quando c'è necessità, accade che qualcosa accade"). Ma non credo c'entrino né il fato, né il bisogno di auto-consolazione. Temo - ma in verità non temo affatto: piuttosto, spero - che in realtà così davvero accada. E comunque sono convinto che, se anche non accade così, difficilmente si può cercare di far accadere diversamente la cosa. Noi oggi, specie in questa parte del mondo, siamo abituati a pensare che tutto si può progettare. E forse molti ruoli, se non proprio progettare, in realtà si possono pensare e delineare. Questo di mèntore, tuttavia, non credo sia progettabile a comando. Si può disegnare e formare un tutor, un coach, anche un counsellor. Non un mèntore. Per questo ruolo - e forse anche il termine 'ruolo', così freddo e strutturato, è qui improprio - l'unica cosa che si può cercare di fare è preparare il campo: zappettare e coltivare il terreno. Creare cioè le condizioni 'culturali' - mai come in questo caso sembra appropriata la suggestione agricola - perché mèntore e discepolo attecchiscano, e con essi germini e si sviluppi la relazione generativa di cui si è detto.

(2) - «Io pensavo, anche girando in università, al problema della comunicazione. Perché io ho avuto la sensazione che quando arrivi in Statale... sì, prima di entrarvi, mi immaginavo di arrivare e di trovarvi un certo colloquio con le persone... Pensavo che vedendoci tutti i giorni... a studiare filosofia... tra l'altro a contatto con certi personaggi... Invece... sì, certo, si trovano le persone con cui studiare, però a me sembra ci sia proprio un problema di relazione, di comprensione. Prima di tutto, mi sembra che le persone abbiano un atteggiamento come del tipo: se io non ho bisogno di parlare con te, non vengo lì a parlare con te... Anche in questa aula, tra noi... Insomma, mi pare che abbiamo difficoltà a comunicare...»
Sono ovviamente un 'esterno' al vostro contesto: non solo con riferimento a 'questa' università - che peraltro non penso sia molto diversa dalle altre, almeno rispetto al punto di vista segnalato -, ma anche con riferimento al 'pianeta-giovani', dal quale sono distanziato di qualche anno. E nessuno meglio di voi è in grado di discutere, ed eventualmente condividere, il problema sollevato. Però, nella considerazione avanzata, mi ritrovo. Penso che l'osservazione colga una questione comune, che quindi riguarda ognuno di noi e ogni ambiente. E' come se fossimo un po' tutti 'incistati'. Nascosti - rannicchiati - nei nostri ruoli. In difesa. Attenti a non esporci. Un po' stitici, almeno sul piano emotivo. Anemici, come le parole che continuiamo ad usare: ormai consumate, senz'anima. Pensiamo alla superficialità con cui ci siamo scambiati o ci scambiamo — ormai solo contenitori - termini pregni e pesanti come 'amico', 'camerata', 'compagno'... Oppure, per ribadire un concetto, riflettiamo per un attimo alla 'potenza' intrinseca dell'etimo inserito nel verbo 'comunicare'... La cifra che sembra marcarci oggi - e nessuno vi sfugge - è la fretta. Una società che corre e compete con se stessa per correre domani ancora più velocemente di oggi non ha tempo per 'mettere in comune' niente, se non la fretta stessa. E quindi, una società come questa non può che avere rapporti casuali, prudenti, freddi, superficiali: senza sangue. Come già detto, una situazione non proprio ideale, per l'innesco di relazioni di mentorato.
Eppure, forse anche sotto questo profilo, più fertile di quanto a prima vista si potrebbe concludere. Perché delle due l'una: o abbiamo da proporre improbabili utopie misticheggianti, del genere 'isole felici', cui delegare i nostri sogni in fuga, oppure con questo contesto dobbiamo fare i conti. E se si comincia a fare davvero i conti con la realtà - magari liberando la fantasia in giusta quantità -, può anche succedere che, nel fare questi conti, si finisca per cambiarla, questa stessa realtà, almeno in parte. Forse anche, perché no?, cercando meglio in giro i mèntori e provando ad affidarci ad essi. Oppure facendone a meno. Tra l'altro, visto che questi mèntori non si trovano ad ogni angolo di strada...

(3) - «Si potrebbe fare un indirizzario degli individui...»
Già. Ma forse sarebbe troppo breve. Oppure, chissà, potrebbe essere più lungo di quanto si pensi. In fondo la domanda è senza risposta: quando un individuo è tale? E chi stabilisce chi lo è?

(4) - «Può darsi che uno non trovi un mèntore perché ha un modello fisso, per cui non si accorge di quante altre opportunità potrebbe cogliere...»
Senza dubbio. Anch'io, nel proporre a me e ad altri questo mio modello di mèntore, corro un rischio. Posso dichiarare fin che voglio - come ho fatto - la voluta radicale purezza astratta del modello, ma ciò non fuga il pericolo di rimanere vittima di un sogno, che può condurre poi me stesso o altri a cercare il sogno nella realtà. Del resto, un po' tutti i modelli, per definizione, contengono questo rischio. Per questo vanno presi sul serio 'quanto basta': il che vuol dire che bisogna anche saperli 'strattonare', quando ci sforziamo di applicarli, proprio per poterli 'approssimare'. Confermo tuttavia, in generale, l'utilità di mirare alto. E in questo caso, ribadisco: il mèntore o tende ad essere quell'individuo 'pieno' di cui si è detto, oppure è altro. Ma se è altro, non può essere il mèntore di cui stiamo parlando.

(5) - «Forse, secondo me, ci vorrebbe anche un po' più di umiltà, da parte delle persone, per instaurare un rapporto...»
Condivido pienamente. Umiltà. Senz'altro. E magari anche curiosità. Ambedue le disposizioni, insieme, aiutano a costruire un vero rapporto: dunque a far nascere e alimentare una comunicazione e a generare anche, in qualche modo, un apprendimento più o meno reciproco. Volontà di mettersi in rapporto, in una posizione di dipendenza funzionale; ma anche desiderio di scoprire/scoprirsi, di esplorare/esplorarsi. Così si aumenta il proprio spessore e così cresce anche lo spessore dell'altro...

(6) - «Nella discussione seguita alla lezione della volta scorsa si parlava di idealizzazione. Forse appunto perché non si trovano in giro tanti mèntori, si cerca di idealizzare. Però, non eravamo arrivati alla conclusione se fosse giusto o no. Volevo chiederle cosa ne pensa..».
In parte credo di aver già detto. Un po' di idealizzazione penso sia necessaria: alza il tiro e nello stesso tempo chiarisce i 'paletti'. Poi, è ovvio, la realtà è per definizione più grigia, e il grigio, se magari è meno avvincente, è sicuramente più realistico. Peraltro, vorrei evitare un possibile equivoco. Nel modello di mèntore che ho tratteggiato, io avevo in mente di delineare, sia pure con qualche tinta forte, un 'essere umano', non un 'super-uomo'. Quando enfatizzo il concetto di 'individuo', io sto pensando a noi, non ad angeli o a divinità celesti. Il problema è che oggi, a me sembra, da una parte si sono spostati i riferimenti e dall'altra impera, anche in contesti per i quali è totalmente inservibile o addirittura controproducente, una logica binaria. Voglio dire: il dilemma tra 'super-uomini' e 'quaquaraquà' è mal posto. Per lo meno si tratta di un trilemma, in cui ci deve essere spazio, accanto a 'super-uomini' e 'quaquaraquà', anche per gli 'uomini'. Certo, può esser successo che a causa di una eccessiva povertà di umanità in circolazione - 'individui' ridotti a 'gente' - si sia portati a sopravvalutare la dimensione umana, quasi appaiandola a quella sovrumana. Me se questo slittamento è avvenuto, occorre risistemare i confini. Il mèntore e il discepolo di cui io parlo, ambedue impegnati in un processo di crescita e sviluppo, non sono rispettivamente un 'super-uomo' e un 'sotto-uomo', bensì due 'uomini': due soggetti che semplicemente cercano di essere tali e per questo intendono mettere in comune se stessi, per approfondire la consapevolezza della propria individualità e offrirsi in qualche modo un aiuto reciproco.

(7) - «Visto che lei lavora tanto nel mondo delle imprese e comunque delle organizzazioni di lavoro, volevo chiedere: fino a che punto le trasformazioni nel mondo del lavoro sono la causa di questo stato che stiamo vivendo o sono il prodotto? Che rapporto c'è tra lavoro e persone... ?»
In genere uno se la cava dicendo che c'è interdipendenza. E forse, così rispondendo, se la cava bene, visto che l'affermazione, se non dice tutto, dice comunque il vero. Ma il problema sta nel mix: accettata l'interdipendenza, quale fattore conta di più? Si tratta forse di una domanda impossibile. Tento una risposta veloce e provocatoria - che peraltro vorrei rigettare sul piano ideologico. Temo conti molto di più l'organizzazione, e per essa il mercato, che l'uomo nella sua interezza. Al di là delle nostre preferenze di visione del mondo, il mercato, oggi, è il grande, vero, forse unico, agente di cambiamento. Sono i consumi i grandi orientatori di modelli. Ed è l'uomo ridotto a consumatore - più ancora che l'uomo-lavoratore - a decidere e guidare la danza anche dei nostri valori. Facciamo molto più cambiamento, anche aziendale, noi clienti, comprando o non comprando quel determinato prodotto al supermercato, che non i lavoratori dell'azienda produttrice di quel prodotto da noi acquistato. Non dico che questo sia ineluttabile. Né che sia piacevole. Però, almeno a me sembra, è abbastanza così.

(8) - «Condivido la valutazone "ancora molto apparire e troppo poco essere". Ma il tentativo di "essere", in una società come lei l'ha descritta, mi sembra un po' eroico... Un esempio classico è fare un colloquio di assunzione. Questo gioco dell " 'apparire" e dell'"essere" è tremendo...»
Ricordo due episodi. Il primo, di una ragazza ancora non toccata dal mondo aziendale. Partecipava ad un corso di formazione per giovani formatori, in parte frequentato da persone già inserite nel mondo del lavoro. Ad un certo punto confessò: "Se mi vedessero i miei amici, qui dentro, non mi riconoscerebbero. Da quando è cominciato questo corso, mi sto violentando: ho dimenticato di essere me stessa. So che questo è il prezzo da pagare per entrare nel mondo del lavoro". Ricordo che lo disse con totale tranquillità: e quello fu senz'altro un momento, forse l'unico in quella settimana, in cui la ragazza si consentì di essere 'naturale'.
Il secondo episodio è analogo. Un giovane, da almeno un anno inserito in un'azienda, sempre in un corso, ammise: "Ma è ovvio: in azienda non si può essere se stessi. Bisogna indossare una maschera e recitare. Vince chi sa recitare meglio". Nel secondo caso mi colpì il rassegnato e sereno cinismo. Mi sembrava che la sua conclusione fosse buttata in faccia a chi ascoltava. Per la serie: "ma come, tu invece credi ancora alle favole?".

(9) - «Io è una cosa che mi sento sempre dire... Mi hanno detto: così tu non arriverai da mai nessuna parte...»
Siamo in molti, forse più di quanto potrebbe sembrare, ad aver sentito frasi del genere. Ognuno, poi, decide che farsene, di battute simili. Certo, a vedere tanti arrivati, ci sarebbe da chiedersi chi li ha lasciati partire e come sarebbe stato meglio, per loro e soprattutto per gli altri, se non fossero mai partiti...

(10) - «Una risposta sempre facile è trasformare l'ammissione di difficoltà in una dichiarazione di resa. Con frasi del genere: "è talmente difficile essere se stessi..." Oppure: "e talmente una guerra..."»
Che sia difficile è scontato. Il problema è evitare la conclusione indebita, che trasforma il diffìcile in impossibile. Conclusione cui si può arrivare anche chiedendo a bell'a posta a se stessi - di solito inconsapevolmente - di essere totalmente diversi da come si è.
Potremmo sintetizzare: "domandati l'impossibile e ti tranquillizzerai: non avrai tentato neppure il possibile".
La questione non è stare 'fuori' dal mondo e neppure andare 'contro' il mondo. La soluzione, tutta da trovare, è stare 'nel' mondo, senza finire alla sua mercé. Forse è dura. Ma credo che ci si possa provare. E probabilmente, almeno a vent'anni, 'si deve'.
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Note
(1) - M. Ferrario, Mappa delle figure di aiuto e orientamento. Relazione al Corso di Psicologia dell'Orientamento e della Formazione Professionale della Università di Padova, 16 marzo 1995, in Massimo Bellotto e Lucia Zago (a cura), Psicologi e orientamento. Nuove frontiere in contesto organizzativo, Edizioni Logos, Padova, 1996. Testo riportato anche in questo blog, 13 maggio 2015,  qui
(2) - Usiamo questo termine in mancanza di un altro più appropriato. Discepolo, infatti, sembrerebbe sancire non soltanto una asimmetria di contenuti, esperienze, età, oggettivamente presenti nel rapporto, ma anche un possibile sovrappiù di stile relazionale (magari anche indotto da una posizione gestita in chiave troppo verticale da parte del mèntore) che potrebbe tendere ad una sudditanza soffocante, e dunque improduttiva ai fini della crescita e dello sviluppo.
(3) - M. Ferrario, Formazione: l'onnipotenza del discente. Come far fallire il proprio apprendimento, "SL", Rivista di organizzazione, n. 2, 1992. Testo riportato anche in questo blog, 18 aprile 2015, qui

*** Massimo Ferrario, Mentore e rapporto di mentorato. Un modello e un punto di vista sull'applicabilità nella società di oggi, in Paolo Mottana (a cura di), Il mentore come antimaestro, Clueb editore, 1996.
Il testo è la riproduzione dell'intervento svolto al corso 'Il Mentore', coordinato da Paolo Mottana, presso l'Università Statale di Milano, Istituto di Pedagogia, il 2 febbraio 1995.



Su Paolo Mottana, in questo blog:

#Video #Pedagogia, Controeducazione, 24 gennaio 2015
#Video #Pedagogia, Educazione, immaginazione, 'immaginale', 6 gennaio 2015

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