[D: Professore, la prigione per debiti non esiste più. O forse sì, guardando la Grecia?]
Quando si contrae un debito, si lega la propria sorte alla volontà del creditore. Se il debitore è inadempiente, il creditore aggredisce i suoi beni. Il fallimento dello Stato, in passato, era inconcepibile: lo Stato – dicevano i costituzionalisti – è un “ente necessario”. È vero che lo Stato ha sempre contratto debiti e lo Statuto Albertino diceva che “ogni suo impegno verso i creditori è inviolabile”. Lo Stato però governava sovranamente la moneta, cioè il mezzo per far fronte ai suoi debiti. Ma oggi i creditori dello Stato non sono solo i cittadini, ma soprattutto i grandi capitali internazionali. Che hanno il controllo su un aspetto fondamentale della sovranità, perché lo Stato ha perso la sovranità monetaria. Se non è solvibile, possono “aggredire” i suoi beni – imprese pubbliche, coste, isole, monumenti, cose un tempo ritenute res extra commercium – fino a ridurlo sul lastrico. Ridurre un Paese sul lastrico, però, vuol dire annientare il suo popolo.
[D: Ha attaccato il “moralismo vuoto” di chi rimprovera a Paesi come la Grecia d’essersi indebitati, quando proprio i creditori sono interessati al loro indebitamento]
Si dice: di che si lamenta la Grecia? Bastava che non s’indebitasse. Logico, no? Ma le bolle speculative – ricorrenti a partire dal ‘700 (si menziona la “crisi dei tulipani” in Olanda) – non sono incidenti, ma fasi cicliche nell’economia finanziarizzata. Perché si formano le bolle? Perché la finanza speculativa ha necessità di espandersi continuamente e si finisce per dare denaro a credito a soggetti che non potranno restituirlo. Questi debiti vanno a gravare sui bilanci degli Stati più deboli, costretti a riconoscere tassi d’interesse molto alti: dunque investire in quei Paesi conviene. Tanto più i sistemi economici sono fragili, quanto più hanno bisogno di finanza. E il cappio si stringe. Gli Stati indebitati per pagare chiedono prestiti agli stessi creditori che glieli danno, e il cappio si stringe ancora. In più, mentre il fallimento è una tragedia per i debitori, può essere una fortuna per i creditori che possono assicurarsi a poco prezzo i beni messi in vendita (anzi: in svendita) dallo Stato insolvente, attraverso le privatizzazioni. Se ci sono responsabilità “morali”, vanno almeno equamente suddivise. Solo che i debitori ne pagano il prezzo e i creditori, alla fine, ne approfittano. L’unica cosa che temono è il contagio finanziario. Per questo, il fallimento non è la loro prima scelta. La prima è stringere il cappio sempre di più.
[D: Se “l’erosione della sovranità è la resa alla legge dei più forti”, il popolo conta sempre meno. Ma almeno alle nostre latitudini, sembra non accorgersene. Vero?]
In Grecia è stato imposto un piano di “risanamento ” che tocca pensioni, Pubblica amministrazione, privatizzazione dei beni pubblici, ammortizzatori sociali, perfino articoli del codice di procedura civile! Non sono misure economiche, è un programma di governo di stampo ultraliberista. Tsipras ha dovuto dire in Parlamento: altro era il mio programma e su quello sono stato eletto, ma voi dovete votare l’esatto contrario perché lo chiedono i mercati finanziari. È un conflitto radicale, esplicito, che mette in discussione la democrazia. Si determina un cortocircuito tra la sovranità che “appartiene al popolo” e la sovranità che appartiene alla finanza. Diciamo finanza, come se fosse un mondo monolitico. Non è così e, per questo, se può far fallire gli Stati, non è in grado di assicurare un ordine mondiale. Dove c’è l’egoismo dei mercati, lì c’è disordine e i deboli soccombono. L’ordine spontaneo degli egoismi non esiste. Tanto più che la finanza globale non ha interessi solo finanziari, ma anche geopolitici conflittuali. Così, il Fondo monetario, che non è un soggetto speculativo, cerca di arginare la cecità del capitalismo finanziario a favore di visioni politiche strategiche diverse da quelle prevalenti nella parte forte dell’Europa. Christine Lagarde, contro l’opinione degli altri, ha detto che il debito greco è insostenibile e bisogna tagliarlo.
[D: C’è un problema di sovranità anche in Italia, dove non solo c’è la questione dell’erosione di sovranità nel rapporto con l’Europa, ma da anni non riusciamo a esprimere un governo con il nostro voto?]
In Italia ci sono stati slittamenti costituzionali progressivi di cui non si è avvertito il significato d’insieme. I governi tecnici successivi a Berlusconi non si basavano su una piattaforma elettiva democratica. Ma sulla legge della necessità: con Monti si è incominciato a dire: “Non ci sono alternative”. Vuol dire che sopra di noi c’era una forza a cui non si poteva resistere, ci si poteva solo piegare. Era la famosa lettera Draghi-Trichet, che conteneva molte delle richieste che sono poi state fatte alla Grecia: riforma della Pubblica amministrazione, interventi sul lavoro… C’è un disegno di cui non si è avvertita, all’inizio, la pervasività. Si è accettata la soluzione Monti perché ci liberava da Berlusconi, ma era l’inizio di una messa tra parentesi dei principi democratici.
[D: Mica ci hanno puntato la pistola]
Non ce n’è bisogno. Basta congelare la situazione, evitando le elezioni o, almeno, privandole del loro significato politico. I partiti si mettono d’accordo: il patto del Nazareno è stato un modo per sterilizzarle. Prima si dice di essere alternativi, poi ci si accorda. Ma nel grande accordo, esplicito o implicito, la politica sparisce, perché la politica è il luogo delle scelte. Norberto Bobbio diceva che la democrazia è non solo il luogo della contesa, ma (etimologicamente) della discordia. Oggi impera la retorica della coesione, della condivisione. I governi tecnici ci hanno lentamente abituato a essere apolitici.
[D: Come se ne esce?]
Si può premere sulle condizioni di vita delle persone fino a un certo punto. La finanza non conosce regole e andrà avanti fino a che i popoli non reagiranno. Già oggi succede, con il rigetto dell’euro che molti partiti sostengono in Europa. Si arriverà probabilmente a un conflitto radicale. La soluzione secondo me non dovrebbe essere il ritorno agli Stati-nazione, perché così si distruggerebbe l’Europa ma non la speculazione finanziaria. Si dovrebbe riprendere in mano la questione di un’Europa politica e in grado di fronteggiare le crisi finanziarie con un proprio, autonomo, sistema creditizio basato sulla solidarietà comune. Prima, però, credo che si debba toccare il fondo della crisi.
[D: Si è riacceso il dibattito sulla riforma costituzionale. Lei pensa che ci saranno aperture sul Senato elettivo?]
Renzi non disdegna le scommesse: penso che proverà ad andare fino in fondo. All’Europa non importa molto che ci sia o non ci sia il bicameralismo perfetto. Eliminare il Senato è un atto simbolico, una prova di forza all’interno e di soggezione all’esterno. Nel 2013 il report della banca d’affari americana JP Morgan diceva che le Costituzioni dei paesi del sud Europa, pluraliste e garantiste, dovevano essere modificate. Quello che sta accadendo da noi è un inchino.
[D: Lei è sempre stato attento ai temi di etica pubblica: cosa pensa del caso Azzollini?]
Legge della politica: subito si è etici; subito dopo si diventa pragmatici. Subito si salva l’anima; subito dopo, il corpo.
*** Gustavo ZAGREBELSKY, costituzionalista e saggista, presidente emerito della Consulta, presidente di Libertà e Giustizia, intervistato da Silvia Truzzi, «I principi democratici sono finiti tra parentesi», 'Il Fatto Quotidiano', 5 agosto 2015, e qui
Sempre in Mixtura, una mia recensione all'ultimo libro di Gustavo Zagrebelsky (Liberi servi, Laterza, 2015) e 1 altro suo contributo, qui
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