Valerio VARESI, Lo stato di ebbrezza, Frassinelli, 2015
pagine 317, € 18,50, ebook € 9,99
Formalmente è un romanzo, di fatto rimanda a un saggio: nel senso che la vicenda di Domenico Nanni è l'occasione per ripercorrere a grandi falcate la storia politico-sociale d'Italia dagli anni 70 a poco prima della salita al potere di Matteo Renzi.
Accade poco al protagonista, ma accade di tutto a tutti noi che abbiamo vissuto quegli anni. Lo dovremmo sapere: ma qui l'abilità di Valerio Veresi è quella di squadernarci questo tutto in una cavalcata di poche ore, che dovrebbe far ricordare (a chi ha ricordi) e insegnare (a chi è più giovane e non ha passato) cos'è stata l'Italia. E, in particolare (e qui sta l'amarissimo da ingoiare), cosa siamo (stati) noi: italiani.
La narrazione è dura e impietosa: e anche per questo immagino che saranno diversi a rifiutarla.
Tuttavia chi ha maggiore consuetudine col pensiero critico (e auto-critico) e non ha fatto il surf in spensieratezza e inconsapevolezza dagli anni 70 ad oggi, ma, anzi, già 'nel durante' si interrogava su quanto ci stava capitando addosso, senza peraltro nascondersi la corresponsabilità di ognuno come cittadino (cito il craxismo e il berlusconismo, per indicare solo le due culture 'esemplari', peraltro solo in apparenza distinte, che ci hanno 'marcato' indelebilmente), ritrova riflessioni, sentimenti, emozioni (illusioni, delusioni, rabbie) da cui è sicuramente stato attraversato.
Magari non sempre concorda con talune analisi e reazioni, messe in bocca ai pochi personaggi che si agitano attorno al protagonista: come il vecchio giornalista che guarda con disincanto il mondo; il manager Coop perfettamente integrato nelle pratiche dell'arraffa-affari degli anni 80; il giovane idealista che resta orgogliosamente prigioniero dell'utopia comunista; le due giovani donne che hanno fatto coppia con Nanni, prima la socialista e poi la ciellina; il cinico esperto di intrallazzi finanziari, il prete fervente...
Certo, si può pensarla diversamente, tuttavia non si resta inerti. Perché il libro di sicuro strattona e non fa stare seduti comodi in poltrona: per i contenuti, ma anche per il linguaggio. Rutilante, metaforico, sfavillante. Che corre a precipizio, rocambolesco, e ti avvolge e riavvolge in una sarabanda di termini, anche dialettali o di nuovo conio, che insistono nel dettagliare, con immagini colorite, anche grevi e trucide, paesaggi umani e atmosfere in cui i comportamenti individuali e sociali di un'Italia miserevole, 'in alto' e 'in basso', gareggiano nel produrre 'lo stato di ebbrezza' che dà il titolo al volume.
Tuttavia chi ha maggiore consuetudine col pensiero critico (e auto-critico) e non ha fatto il surf in spensieratezza e inconsapevolezza dagli anni 70 ad oggi, ma, anzi, già 'nel durante' si interrogava su quanto ci stava capitando addosso, senza peraltro nascondersi la corresponsabilità di ognuno come cittadino (cito il craxismo e il berlusconismo, per indicare solo le due culture 'esemplari', peraltro solo in apparenza distinte, che ci hanno 'marcato' indelebilmente), ritrova riflessioni, sentimenti, emozioni (illusioni, delusioni, rabbie) da cui è sicuramente stato attraversato.
Magari non sempre concorda con talune analisi e reazioni, messe in bocca ai pochi personaggi che si agitano attorno al protagonista: come il vecchio giornalista che guarda con disincanto il mondo; il manager Coop perfettamente integrato nelle pratiche dell'arraffa-affari degli anni 80; il giovane idealista che resta orgogliosamente prigioniero dell'utopia comunista; le due giovani donne che hanno fatto coppia con Nanni, prima la socialista e poi la ciellina; il cinico esperto di intrallazzi finanziari, il prete fervente...
Certo, si può pensarla diversamente, tuttavia non si resta inerti. Perché il libro di sicuro strattona e non fa stare seduti comodi in poltrona: per i contenuti, ma anche per il linguaggio. Rutilante, metaforico, sfavillante. Che corre a precipizio, rocambolesco, e ti avvolge e riavvolge in una sarabanda di termini, anche dialettali o di nuovo conio, che insistono nel dettagliare, con immagini colorite, anche grevi e trucide, paesaggi umani e atmosfere in cui i comportamenti individuali e sociali di un'Italia miserevole, 'in alto' e 'in basso', gareggiano nel produrre 'lo stato di ebbrezza' che dà il titolo al volume.
Da quanto sto dicendo, si capisce che il mio richiamo, in apertura, alla categoria del 'saggio' era provocatorio: il taglio 'romanzo' vince sul 'saggio', perché sono del tutto assenti la distanza 'oggettiva' e lo stile 'equilibrato' che dovrebbero caratterizzare un'opera saggistica.
Qui i fatti sono riordinati e reinterpretati dalla voce narrante del protagonista alla luce della sua visione del mondo e del suo vissuto: una voce e un vissuto che sanno gridare, senza sconti e infingimenti, lo sdegno e l'invettiva. E che anche per questo sono decisamente 'parziali' (e se e quanto 'faziosi' lo possono stabilire solo la sensibilità specifica, e la 'parzialità', di ogni lettore).
Qui i fatti sono riordinati e reinterpretati dalla voce narrante del protagonista alla luce della sua visione del mondo e del suo vissuto: una voce e un vissuto che sanno gridare, senza sconti e infingimenti, lo sdegno e l'invettiva. E che anche per questo sono decisamente 'parziali' (e se e quanto 'faziosi' lo possono stabilire solo la sensibilità specifica, e la 'parzialità', di ogni lettore).
Tutto il libro dunque è un'accusa prolungata, accanita, appassionata, ostinata e sempre giocata ai toni massimi, che Domenico Nanni, nel raccontarsi attraverso le epoche, getta con ira, ma anche con rassegnazione, oltre che con pennellate di ironia, sull'Italia che ha vissuto.
Tuttavia, l'accusa non è né predicatoria, né calata dall'alto: la sua camicia non è l'unica immacolata in mezzo a tutte le altre sporche di fango. La consapevolezza di aver fatto parte attiva, e anche dirigente, del 'grande gioco' che ha 'scassato' l'economia, ma soprattutto la cultura, del Paese, è chiara e mai nascosta: anche lui ha potato il suo contributo all'intrallazzo generale e non invoca alcuna innocenza.
Tuttavia, l'accusa non è né predicatoria, né calata dall'alto: la sua camicia non è l'unica immacolata in mezzo a tutte le altre sporche di fango. La consapevolezza di aver fatto parte attiva, e anche dirigente, del 'grande gioco' che ha 'scassato' l'economia, ma soprattutto la cultura, del Paese, è chiara e mai nascosta: anche lui ha potato il suo contributo all'intrallazzo generale e non invoca alcuna innocenza.
Insomma, un libro che ha parole e pensieri come pietre aguzze: ma il loro far male potrebbe far bene.
Dipende dallo spirito con cui lo avviciniamo: se sappiamo accogliere come elemento costruttivo le provocazioni, anche le più irritanti (e se ci irritano vuol dire che almeno in buona parte hanno colpito nel segno), allora la lettura sarà 'impegnata', ma non noiosa, anzi divertente e istruttiva.
Se invece privilegiamo l'ottica iperottimistica, che rifugge come il diavolo, nelle analisi di realtà, le tinte negative, forse anche perché poi temiamo la gestione dei momenti 'down' conseguenti; oppure, se siamo disturbati e infastiditi dalle posizioni altrui che non collimano con il nostro quadro di interpretazione consueta della realtà: allora, forse, 'lo stato di ebbrezza' non è per noi.
Probabilmente anche perché, consapevoli o no, ci siamo già dentro.
Se invece privilegiamo l'ottica iperottimistica, che rifugge come il diavolo, nelle analisi di realtà, le tinte negative, forse anche perché poi temiamo la gestione dei momenti 'down' conseguenti; oppure, se siamo disturbati e infastiditi dalle posizioni altrui che non collimano con il nostro quadro di interpretazione consueta della realtà: allora, forse, 'lo stato di ebbrezza' non è per noi.
Probabilmente anche perché, consapevoli o no, ci siamo già dentro.
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
«
Avevamo promesso ben altro nei gloriosi Sessantotto e Settantasette portati sul petto come medaglie! Tutti a strimpellare serenate filosofiche sulle magnifiche sorti. Ne avevamo la bocca piena, ma eravamo solo un nugolo di pidocchi che avrebbero reso anemico un toro. Abbiamo cominciato presto a pensare di riempirci la pancia! I nostri padri avevan rifornito i granai, loro! Noi li abbiamo svuotati e c’abbiam buttato dentro le nostre divise da corteo e tutti i vecchi giocattoli che non ci divertivano più. Un’intera paccottiglia frusta, cianfrusaglie, carabattole, chincaglieria e l’intero catalogo di stampini per costruire castelli di sabbia. Ci hanno conquistato con le lusinghe. Ci hanno limato via una scaglia per volta gli spigoli fino a renderci tondi come ciottoli pronti a rotolare con la corrente. C’è da togliersi il cappello tanto son stati bravi. Appena si son presi paura a metà degli anni Sessanta è cominciato il massaggio. Hanno buttato carrettate di dollari nel dipartimento di Economia di Milton Freedman a Chicago. Gli han lubrificato la lingua e la penna ai suoi scagnozzi e via col mantra del mercato. Una preghierina che han preso tutti a recitare nelle gloriose università dell’Occidente. Accarezza la pancia degli emeriti e otterrai tutto. A forza di parlar di mercato, ci si sono messi loro in vendita. Non c’è razza più corrotta degli economisti. Per mestiere hanno da giustificare il predominio, convincere tutti che quel che accade è ineluttabile. Non ci si può far niente, come coi terremoti e le trombe d’aria. Vi hanno inculato? Era ineluttabile. Sono gli illusionisti del grafico, gli imbonitori dell’istogramma e degli assi cartesiani. Papocchiano e pupazzano il mondo tirando i numeri da una parte all’altra come la pelle dei loro prepuzi. Dilagano sulle riviste, tracimano dagli schermi, concionano nei congressi, ci scagliano sempre, che non ne azzeccano mai una, ma fanno i ministri, i capi di Governo e vincono il Nobel. (Valerio Varesi, Lo stato di ebbrezza, Frassinelli, 2015)
In effetti cominciava il gran ballo. Si poteva vincere la guerra anche così, sostituendo alle pallottole il virus della svagatezza. Rendendo tutti un po’ bambini, babbei e boccaloni. Era molto più economico, dopotutto! Un’arte vecchia come il mondo. Vedemmo risorgere il potere sotto le sembianze di una troia imbellettata e discinta. Era all’istinto che puntava. A fartela vedere senza mai dartela. A tenerti teso come la corda d’un violino sfregandoti a dovere fino a cavarne una nota acuta d’assenso. Che gran pifferai! Ci fosse stato ancora il vate D’Annunzio, si sarebbe sentito un remigino. Stavano arrivando le truppe corazzate dell’imbonimento planetario, le televisioni commerciali con il loro corredo di spogliarelli, stornellatori da balera, pagliacci, presentatori bisunti, matrone sovrappeso, forosette e mezzeseghe d’avanspettacolo. Un’umanità di scocomerati dedita al bricolage televisivo sdoganava le perversioni di un intero Paese. Lo schermo simbolo d’autorità diveniva improvvisamente famigliare, specchio banale e consolatorio, tabernacolo privato di complicità e connivenza.
Furono i socialisti a capire per primi quel grande strumento. (Valerio Varesi, Lo stato di ebbrezza, Frassinelli, 2015)
«Il mondo va un po’ dove ne ha voglia e un po’ dove lo menano», gli dico. «Adesso lo stanno menando gli altri. Ce lo hanno sfilato mentre noi ci facevamo un mucchio di seghe mentali. In tanti hanno trovato di meglio perché, in fondo, non gliene fregava niente. Era solo moda.»
«Dio d’un dio, ci sei anche tu lì in mezzo», sibila a bruciapelo. Non è mai molto diplomatico Tugnoli.
«Un po’ di ragione ce l’hai», gli confesso, «ma mica faccio tutto per svacco, lo faccio con lucidità. È successo qualcosa là fuori, e la gente che ti camminava a fianco improvvisamente torna indietro. Non capisci cos’è stato, ma non riesci ad andare avanti, sei travolto e allora indietreggi anche tu: non puoi far altro. Prendi solo atto che non potrai mai farcela. Non ora, perlomeno.»
Mi fissa con quei suoi occhi corruschi, ma non sembra deluso. È di quelli che stanno bene nella loro solitudine come i gatti. E adesso che lo abbandono anch’io, dà l’idea di sentirsi più forte. Professa la condivisione, ma si sente meglio isolato portandosi dietro una vena di utopistico eroismo. È una delle contraddizioni della sinistra: tutti ne hanno un’idea diversa, tutti credono d’essere più ortodossi degli altri. È così che la scissione è divenuta una malattia congenita. (Valerio Varesi, Lo stato di ebbrezza, Frassinelli, 2015)
Era un genio del trusco, Nardi. Li avvolgeva con parole di seta fino a stringerli in un bozzolo, i sindaci. Quando già sentivano in gola il soffoco dei debiti, piombava nei loro palazzi con le bombole d’ossigeno. Che poi non era che un gas esilarante fino a istupidirli. Intere città finivano nel baratro di biscazzieri sempre più forti e potenti e con loro lo Stivale che affondava di prua in picchiata verso gli abissi. Faceva fortuna raccontando frescate, Nardi.
«Il mondo, caro mio, è di chi sa reggere la sua parte con convinzione», mi ripeteva. «Tutto è ormai in superficie: è l’apparire, la figura che fai e la sicurezza che mostri. Nessuno ti verrà mai a chiedere quel che sei per il resto. Li han drogati a dovere con la televisione che gli basta quel che vedono.» (Valerio Varesi, Lo stato di ebbrezza, Frassinelli, 2015)
Era tutto l’immaginario italiano, il Berlusca! Un dritto, uno che ce l’aveva fatta, altroché! Mica quelle zecche di politici che s’eran sciroppati per cinquant’anni! Un ganzo che si pastrugnava le modelle e con una telefonata faceva scattare gli industriali più delle tigri del circo Togni.
Gli si poteva perdonare tutto dopo il naufragio della politica nazionale. Mica esistevano più degli argini. I fascisti e i loro nipotini, i Qui, Quo, Qua della nuova destra, rimasti a bagnomaria per mezzo secolo sfogando la bile con le bombe nelle piazze e strisciando nei panni di agenti segreti a seminare menzogne, erano stati di colpo infilati in forno e serviti alla causa con un gioco di prestigio. Nuovi movimentisti dello Stato sociale, ex repubblichini, vecchi galleggianti dell’autoritarismo, reduci di Predappio e tutta la venefica chincaglieria nostalgica del Ventennio ramazzata a mucchio. Non vedevano l’ora di togliersi di dosso la brina. Nel Paese in preda alla demenza senile, non rampollava nessun tormento nell’ascesa al governo degli ex di Salò. Uno, Mirko Tremaglia, l’avevano poi persino fatto ministro. L’arlecchinismo italiano aveva raggiunto il suo apice. Era l’effetto della nostra mancata Norimberga in cui s’esprimevano tutta la futilità e l’ignavia di un popolo. Bastava una pacca, una strizzata d’occhio, una piccola mancia per conquistarsi l’intero parco buoi. Lui, Berlusca, l’aveva capito che si governava con le emozioni. Ne ammanniva a secchiate tutti i giorni coi suoi attori, presentatori, cantanti, sciantose e gagà vari. Aveva svuotato i camerini per arruolarli come coscritti sul piccolo schermo a somministrare promesse di un’Italia Drive In. A loro s’erano aggiunti i disertori della sinistra, ciascuno munito del proprio alibi d’alta idealità a giustificazione del cambio di trincea. Nessuno ha mai più avuto naso quanto loro nel coltivare il proprio. (Valerio Varesi, Lo stato di ebbrezza, Frassinelli, 2015)
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Avevamo promesso ben altro nei gloriosi Sessantotto e Settantasette portati sul petto come medaglie! Tutti a strimpellare serenate filosofiche sulle magnifiche sorti. Ne avevamo la bocca piena, ma eravamo solo un nugolo di pidocchi che avrebbero reso anemico un toro. Abbiamo cominciato presto a pensare di riempirci la pancia! I nostri padri avevan rifornito i granai, loro! Noi li abbiamo svuotati e c’abbiam buttato dentro le nostre divise da corteo e tutti i vecchi giocattoli che non ci divertivano più. Un’intera paccottiglia frusta, cianfrusaglie, carabattole, chincaglieria e l’intero catalogo di stampini per costruire castelli di sabbia. Ci hanno conquistato con le lusinghe. Ci hanno limato via una scaglia per volta gli spigoli fino a renderci tondi come ciottoli pronti a rotolare con la corrente. C’è da togliersi il cappello tanto son stati bravi. Appena si son presi paura a metà degli anni Sessanta è cominciato il massaggio. Hanno buttato carrettate di dollari nel dipartimento di Economia di Milton Freedman a Chicago. Gli han lubrificato la lingua e la penna ai suoi scagnozzi e via col mantra del mercato. Una preghierina che han preso tutti a recitare nelle gloriose università dell’Occidente. Accarezza la pancia degli emeriti e otterrai tutto. A forza di parlar di mercato, ci si sono messi loro in vendita. Non c’è razza più corrotta degli economisti. Per mestiere hanno da giustificare il predominio, convincere tutti che quel che accade è ineluttabile. Non ci si può far niente, come coi terremoti e le trombe d’aria. Vi hanno inculato? Era ineluttabile. Sono gli illusionisti del grafico, gli imbonitori dell’istogramma e degli assi cartesiani. Papocchiano e pupazzano il mondo tirando i numeri da una parte all’altra come la pelle dei loro prepuzi. Dilagano sulle riviste, tracimano dagli schermi, concionano nei congressi, ci scagliano sempre, che non ne azzeccano mai una, ma fanno i ministri, i capi di Governo e vincono il Nobel. (Valerio Varesi, Lo stato di ebbrezza, Frassinelli, 2015)
In effetti cominciava il gran ballo. Si poteva vincere la guerra anche così, sostituendo alle pallottole il virus della svagatezza. Rendendo tutti un po’ bambini, babbei e boccaloni. Era molto più economico, dopotutto! Un’arte vecchia come il mondo. Vedemmo risorgere il potere sotto le sembianze di una troia imbellettata e discinta. Era all’istinto che puntava. A fartela vedere senza mai dartela. A tenerti teso come la corda d’un violino sfregandoti a dovere fino a cavarne una nota acuta d’assenso. Che gran pifferai! Ci fosse stato ancora il vate D’Annunzio, si sarebbe sentito un remigino. Stavano arrivando le truppe corazzate dell’imbonimento planetario, le televisioni commerciali con il loro corredo di spogliarelli, stornellatori da balera, pagliacci, presentatori bisunti, matrone sovrappeso, forosette e mezzeseghe d’avanspettacolo. Un’umanità di scocomerati dedita al bricolage televisivo sdoganava le perversioni di un intero Paese. Lo schermo simbolo d’autorità diveniva improvvisamente famigliare, specchio banale e consolatorio, tabernacolo privato di complicità e connivenza.
Furono i socialisti a capire per primi quel grande strumento. (Valerio Varesi, Lo stato di ebbrezza, Frassinelli, 2015)
«Il mondo va un po’ dove ne ha voglia e un po’ dove lo menano», gli dico. «Adesso lo stanno menando gli altri. Ce lo hanno sfilato mentre noi ci facevamo un mucchio di seghe mentali. In tanti hanno trovato di meglio perché, in fondo, non gliene fregava niente. Era solo moda.»
«Dio d’un dio, ci sei anche tu lì in mezzo», sibila a bruciapelo. Non è mai molto diplomatico Tugnoli.
«Un po’ di ragione ce l’hai», gli confesso, «ma mica faccio tutto per svacco, lo faccio con lucidità. È successo qualcosa là fuori, e la gente che ti camminava a fianco improvvisamente torna indietro. Non capisci cos’è stato, ma non riesci ad andare avanti, sei travolto e allora indietreggi anche tu: non puoi far altro. Prendi solo atto che non potrai mai farcela. Non ora, perlomeno.»
Mi fissa con quei suoi occhi corruschi, ma non sembra deluso. È di quelli che stanno bene nella loro solitudine come i gatti. E adesso che lo abbandono anch’io, dà l’idea di sentirsi più forte. Professa la condivisione, ma si sente meglio isolato portandosi dietro una vena di utopistico eroismo. È una delle contraddizioni della sinistra: tutti ne hanno un’idea diversa, tutti credono d’essere più ortodossi degli altri. È così che la scissione è divenuta una malattia congenita. (Valerio Varesi, Lo stato di ebbrezza, Frassinelli, 2015)
Era un genio del trusco, Nardi. Li avvolgeva con parole di seta fino a stringerli in un bozzolo, i sindaci. Quando già sentivano in gola il soffoco dei debiti, piombava nei loro palazzi con le bombole d’ossigeno. Che poi non era che un gas esilarante fino a istupidirli. Intere città finivano nel baratro di biscazzieri sempre più forti e potenti e con loro lo Stivale che affondava di prua in picchiata verso gli abissi. Faceva fortuna raccontando frescate, Nardi.
«Il mondo, caro mio, è di chi sa reggere la sua parte con convinzione», mi ripeteva. «Tutto è ormai in superficie: è l’apparire, la figura che fai e la sicurezza che mostri. Nessuno ti verrà mai a chiedere quel che sei per il resto. Li han drogati a dovere con la televisione che gli basta quel che vedono.» (Valerio Varesi, Lo stato di ebbrezza, Frassinelli, 2015)
Era tutto l’immaginario italiano, il Berlusca! Un dritto, uno che ce l’aveva fatta, altroché! Mica quelle zecche di politici che s’eran sciroppati per cinquant’anni! Un ganzo che si pastrugnava le modelle e con una telefonata faceva scattare gli industriali più delle tigri del circo Togni.
Gli si poteva perdonare tutto dopo il naufragio della politica nazionale. Mica esistevano più degli argini. I fascisti e i loro nipotini, i Qui, Quo, Qua della nuova destra, rimasti a bagnomaria per mezzo secolo sfogando la bile con le bombe nelle piazze e strisciando nei panni di agenti segreti a seminare menzogne, erano stati di colpo infilati in forno e serviti alla causa con un gioco di prestigio. Nuovi movimentisti dello Stato sociale, ex repubblichini, vecchi galleggianti dell’autoritarismo, reduci di Predappio e tutta la venefica chincaglieria nostalgica del Ventennio ramazzata a mucchio. Non vedevano l’ora di togliersi di dosso la brina. Nel Paese in preda alla demenza senile, non rampollava nessun tormento nell’ascesa al governo degli ex di Salò. Uno, Mirko Tremaglia, l’avevano poi persino fatto ministro. L’arlecchinismo italiano aveva raggiunto il suo apice. Era l’effetto della nostra mancata Norimberga in cui s’esprimevano tutta la futilità e l’ignavia di un popolo. Bastava una pacca, una strizzata d’occhio, una piccola mancia per conquistarsi l’intero parco buoi. Lui, Berlusca, l’aveva capito che si governava con le emozioni. Ne ammanniva a secchiate tutti i giorni coi suoi attori, presentatori, cantanti, sciantose e gagà vari. Aveva svuotato i camerini per arruolarli come coscritti sul piccolo schermo a somministrare promesse di un’Italia Drive In. A loro s’erano aggiunti i disertori della sinistra, ciascuno munito del proprio alibi d’alta idealità a giustificazione del cambio di trincea. Nessuno ha mai più avuto naso quanto loro nel coltivare il proprio. (Valerio Varesi, Lo stato di ebbrezza, Frassinelli, 2015)
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