mercoledì 19 agosto 2015

#SPILLI / La vocazione o la carriera? (M. Ferrario)

Scegliere gli studi in base all'interesse personale che questi rivestono per noi o in base alle probabili opportunità di carriera che al termine ci offrono?
Il tema non è nuovo. E non è neppure di facile soluzione: a maggior ragione se restiamo prigionieri del solito 'tranciante' aut-aut.

Sull'argomento ho diffuso in Mixtura due articoli di Stefano Feltri (qui e qui)
E, a proposito del secondo 'pezzo', l'amico Stefano Pollini, lettore attivo del blog, ha commentato ieri in modo ampio e argomentato: invito a recuperare e leggere il suo contributo qui. 

Per quel che mi riguarda, provo, in questo spazio più esteso rispetto a quanto consentito ai commenti ai singoli post, ad aggiungere qualche considerazione: sfido la complessità della domanda da cui siamo partiti (sintetizzabile nel dilemma 'Vocazione o Carriera'), riportando a punti semplici, forse troppo semplicistici, il mio pensiero di fondo.

(1) - Premetto l'assunto, ovvio ma spesso dimenticato, secondo cui è essenziale distinguere, per quanto ci è possibile, l'analisi di realtà ('ciò che è', ci piaccia o no) dai nostri auspici, più o meno sempre influenzati dai nostri 'sentimenti' e dalla nostra 'visione del mondo'.
Se non lo facciamo, confondiamo l'essere con il (nostro) dover essere e pasticciamo sia a livello di impostazione del problema che di soluzione conseguente.

(2) - Non potrei smentire, neppure sotto costrizione, la mia predilezione per le discipline umanistiche e, più in generale, per l'approccio umanistico con cui leggere, e 'sentire', il mondo, magari anche per trovare o dare, a questo mondo, un possibile senso. 
E' uno sguardo, questo mio, cui non ho mai rinunciato nella vita, anche se sono consapevole del suo limite intrinseco: dato, ovviamente, dal fatto che non tiene sufficientemente in equilibrio quest'ottica con l'altra, tecnico-scientifica, altrettanto indispensabile per stare nel mondo in modo consapevole e attivo, coglierne le leggi di funzionamento e orientarlo nelle direzioni volute. Perché, lo sappiamo: la realtà è 'intera' e siamo noi a 'dividerla'; ma è pur vero che ciò avviene in quanto non siamo onniscienti e dobbiamo specializzare le nostre competenze, se vogliamo tentare di capire qualcosa del pianeta e della vita in cui siamo stati gettati (il punto è che poi restiamo con i nostri frammenti di sapere separati, incapaci di procedere oltre nella costruzione del puzzle e gelosi delle nostre tessere).

(3) - In Italia, questa distinzione tra cultura umanistica e cultura tecnico-scientifica è più pronunciata che altrove, anche a causa del nostro dna storico-culturale, che tende a favorire la prima. E questo è indubbiamente un handicap: prima dovremmo prenderne maggiore consapevolezza (la coscienza che ne abbiamo, quando l'abbiamo, mi sembra superficiale e di maniera) e poi dovremmo cercarne un più deciso equilibrio, anche investendo, più soldi, ma non solo, nella ricerca e nello sviluppo delle tecnologie.

(4) - Da anni ho recuperato la positività, e l'utilità, del termine 'vocazione'. Sentivo in passato, in questa parola, una certa fastidiosa 'piegatura' spiritualistico-religiosa che me ne alimentava il rifiuto; ma la riflessione, anche etimologica, mi ha aiutato a superarne il rigetto. 
La 'chiamata' (in tedesco 'Beruf', da berufen, sta a indicare la professione), non necessariamente ha a che fare con l'ultaterreno: può venire da dentro, frutto delle 'corde' (nel senso di cor, cordis, cuore) che 'risuonano in noi', e 'si accordano' con noi, quando 'sentiamo' di applicarci ad uno studio o di svolgere un lavoro che 'ci rispecchia': un'attività, come si dice, a forte 'motivazione intrinseca'. 
Quando questo accade (e non è facile che avvenga, anche se abbiamo scelto di farci guidare il più possibile dalla 'vocazione'), allora, 'siamo nel flusso': e tutto, anche ciò che è più pesante, ci appare leggero.

(5) - Il fattore vocazionale, dunque, credo non possa (e non debba) essere eliminato, ma anzi dovrebbe essere valorizzato: preso maggiormente in considerazione e più frequentemente ricercato ed esplorato. 
Altrimenti restano solo e unicamente il 'dovere' e le motivazioni strumentali esterne a orientare le nostre attività. E io, se personalmente non demonizzo il dovere, ne conosco tuttavia il 'fiato corto': almeno per una vita che voglia essere 'vissuta' e non solo fatta 'funzionare' in base a norme esterne, o più o meno superegoiche.
E lo stesso dicasi per le spinte puramente materialistico-economiche: che, dal punto di vista motivazionale, sono e restano 'esterne' e forse portano soldi, ma delle quali non si calcolano mai i costi, ad esempio sul piano psicologico, personale e relazionale.

(6) - Tuttavia, e limitiamoci all'Italia, esiste la realtà. 
Per quanto spiacevole essa sia, i dati ricordati da Stefano Feltri nei suoi articoli non mi paiono smentibili.
E del resto, neppure c'è bisogno di grandi ricerche per sapere che le lauree tecnico-scientifiche (oltre a medicina) sono, nei fatti, privilegiate dal mercato del lavoro, in termini sia di numeri occupazionali che producono che di cifre remunerative cui sono successivamente legate, rispetto alla laurea in scienze della comunicazione (che ha sostituito, nell'immaginario negativo-spregiativo, la laurea in scienze politiche...). 

(7) - Non ho problemi a dire che il punto precedente vorrei fosse cancellato. 
Ma è un dato di realtà: con cui tutti, sia i 'vocazionali' che i 'carrieristi', devono confrontarsi. Rimuoverlo serve solo a farlo riemergere nelle conseguenze che produce. Va consapevolizzato: da genitori, figli, società. In modo che nella scelta degli indirizzi scolastici e universitari si possa anticipatamente tener conto delle possibili ricadute in termini lavorativi e si possa quindi meglio conciliare l'interesse personale (la vocazione) con le opportunità di mercato.

(8) - Ritengo che la questione non riguardi solo i singoli, ma la collettività: che è chiamata (o così dovrebbe accadere in un sistema minimamente democratico) a decidere le scelte di politica, cui corrispondono necessariamente dei costi, anche economici. 
Dunque, ancora un volta, la questione di come equilibrare 'vocazione con carriere' ritorna fuori, ineludibile.
E magari emerge anche, a caratteri maiuscoli (e sempre che si voglia farlo) il tema di come e quanto cambiare una realtà che si ritiene di voler cambiare
L'eventuale cambiamento di indirizzo culturale, ovviamente, non si improvvisa, né si realizza in breve tempo, ma la premessa per impostarlo è conoscere bene i dati di partenza, le possibilità concrete di modifica e le conseguenze cui si va incontro. 
Francamente non so quanti margini di manovra vi siano per operare un cambio di direzione; ma è pur vero che il mercato del lavoro attuale, se mostra le tendenze nette di cui stiamo dicendo, è anche più complesso di quanto sembri. E ogni tanto lascia trasparire qualche 'crepa' che contraddice il trend dominante.

(9) - Un esempio di alcune 'crepe'?
Basta leggere diversi articoli usciti negli ultimi anni, a caccia di curricula di top manager di successo, per abbandonare eventuali certezze più o meno bocconiane: la realtà ci informa che parecchi laureati in filosofia hanno fatto carriere più che brillanti, arrivando ai vertici di imprese eccellenti. 
E a sentire talune testimonianze parrebbe pure esserci una logica che spiega perché una vecchia laurea umanistica, 'vecchia che più vecchia non si può', può battere taluni Mba anche prestigiosi.
Insomma, forse anche la filosofia non è così inutile per fare business: se business non è solo tecniche, ma anche pensiero che sa problematizzare.

*** Massimo Ferrario, per Mixtura

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