La lettera a U. Galimberti
Ho sognato un piccolo assembramento di fantasmi: i lenzuoli che nascondevano le membra scarne erano argentati come la luna. E catarifrangenti come diamanti.
Ho sognato un piccolo assembramento di fantasmi: i lenzuoli che nascondevano le membra scarne erano argentati come la luna. E catarifrangenti come diamanti.
Frusciavano al ritmo delle stesse onde che lambivano le pietre improvvisate a giaciglio di sfortuna.
Ho sognato anche che quei fantasmi affamati rinunciavano al tozzo di pane che qualcuno, passando, offriva loro: nonviolenza e digiuno silenziosi, che materializzavano gandhiane memorie. Si sta come d’estate sugli scogli i migranti, avrebbe forse scritto il poeta.
Ma poi ho sognato ancora. E stava già diventando un incubo.
Una terra libera, fraterna, eguale li stava costringendo là, fruscianti fantasmi, perché non aveva saputo trasformare la loro semplice domanda in una speranza, sbattendola invece sulla pietra come un polpo. “Perché secondo voi siamo qui?”, si ostinavano a chiedere imperterriti quegli spettri neri e argentati. “E scusate se non siamo annegati”, dicevano alle orecchie sorde di gendarmi con il naso all’insù. “Siamo qui perché vogliamo solo passare, per cercare un posto dove ci sia umanità”, sussurravano alla fine, con l’ultimo fiato.
Ma la voce degli ultimi si confonde sempre con il rumore delle onde, schiacciata da scogli d’odio. E qualcuno infatti, rispondendo alla Storia, se la caverà così: non li ho visti, non li ho sentiti.
*** Paolo IZZO (anche in blog blog 'lettEREetiche.wordpress.com',15 giugno 2015, con il titolo Ai confini della realtà, qui)
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La risposta
Grazie per questa sua lettera che denuncia come noi occidentali, dopo avere costruito il nostro benessere sulla colonizzazione del mondo, oggi stentiamo ad accogliere le vittime degli effetti tardivi e disastrosi della nostra colonizzazione in quei Paesi dove altri colonizzatori, più feroci di noi, hanno preso il nostro posto. O dove guerre di potere, cui noi non siamo del tutto estranei in termini di interessi economici o addirittura di fornitura d'armi, seminano vittime in stragi di massa, costringendo chi fogge a preferire una morte probabile a una morte certa.
Ci consideriamo una civiltà superiore perché difendiamo e talvolta, un po' ipocritamente, tentiamo di esportare diritti umani e democrazia, alla condizione però che questi due valori non confliggano col mercato, perché in questo caso non esitiamo a sacrificarli. Questo argomento, che trova la sua conferma per esempio nei nostri rapporti con la Cina, applicato agli immigrati determina uno stile di accoglienza che li prevede non come "persone", ma solo come "produttori di merci e di servizi", con una possibilità di circolazione limitata e comunque inferiore ai beni che producono, per i quali non esistono frontiere. Per non parlare del concetto di "integrazione" che chiediamo allo straniero quando decidiamo di accoglierlo. Sotto l'apparente ovvietà della richiesta, mai problematizzata e neppure oggetto di una minima riflessione, io leggo una sorta di mancanza di rispetto, perché ciò che allo straniero si chiede è di rinunciare alla "differenza" in cui sono le radici della sua identità. Allo straniero si può chiedere senz'altro di ottemperare alle leggi del Paese in cui è giunto, ma anche di "integrarsi", rendendosi estraneo alle sue origini?
Questo problema era già stato preso in considerazione duemila anni fa dal pensiero gnostico, che parlava dell'angoscia insolubile dello straniero, che proviene da altro luogo, e a quelli del luogo appare sospetto. Allo stesso modo, il luogo che lo straniero si trova ad abitare è per lui estraneo, e perciò disorientante.
«Angoscia e nostalgia della patria sono parte del destino dello straniero che, non conoscendo le strade del paese estraneo, girovaga smarrito. Se poi impara a conoscerle troppo bene, dimentica di essere straniero e si perde in un senso più radicale perché, soccombendo alla familiarità di quel mondo non suo, diventa estraneo alla propria origine. Nell'alienazione da sé l'angoscia sparisce, ma comincia la tragedia dello straniero che, dimenticando la sua estraneità, dimentica anche la sua identità». (M. Lidzbarski, Gima. Il libro dei Mandeì).
Se queste considerazioni hanno una loro plausibilità, viene da pensare che le radici cristiane, in cui l'Occidente si riconosce, si sono rinsecchite e non hanno generato neppure un misero arbusto. Inoltre, per effetto della globalizzazione, nonostante i muri e i fili spinati che qua e là andiamo costruendo, in realtà stanno cedendo i confini dei tenitori su cui si orientava la nostra geografia. Usi e costumi si contamineranno e, se "etica" vuoi dire "costume", è possibile ipotizzare la fine delle nostre etiche, fondate su quei principi, oggi non più tanto solidi, di nazione, territorio e confine, perché la storia sta accelerando quei processi di recente avviati, che sono nel segno della "de-territorializzazione", dove il "prossimo", sempre meno specchio di me, e sempre più "altro", obbligherà tutti a fare i conti con la "differenza". Vediamo di non arrivare in ritardo.
*** Umberto GALIMBERTI, saggista, filosofo e psicoanalista di matrice junghiana, Non obblighiamo gli stranieri a integrarsi, rubrica 'risponde Galimberti', 'D', 8 agosto 2015
(foto, dal web)
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