domenica 24 settembre 2017

#RACCONTId'AUTORE / L'usignolo (Chandra Livia Candiani)

C’era una volta un usignolo malinconico. Nessuno lo voleva nel suo giardino, perché nessuno vuole conoscere la tristezza del cuore. Nessuno lo voleva nei campi; soprattutto i fiori a cui la sua malinconia rovinava il fuoco dei vestiti. Perfino la luna, se lo ascoltava troppo a lungo, perdeva la curiosità per gli uomini, e si nascondeva in nuovi paesaggi. Non per questo l’usignolo diventava più malinconico; una legge della malinconia vuole infatti che non si possa essere più malinconici di malinconici.

Forse l’usignolo non sapeva nemmeno di essere un usignolo malinconico, credeva solo di essere solo e cantava come sapeva. Quello che l’usignolo non sapeva era che il suo canto ricordava a tutti qualcosa, non proprio la stessa cosa, ma una cosa dimenticata, una cosa ferita. Per questo non lo potevano soffrire.

Un giorno, o meglio una sera, l’usignolo decise di trasferirsi in città. Perché le città sono più generose, accolgono il rumore delle automobili, il frastuono degli autobus, lo sferragliare dei tram e tutti i veleni degli uomini; perché non la malinconia di un usignolo?

All’inizio, l’usignolo in città rimase in ascolto. Si posava su un ramo, su un muro, su una grondaia e ascoltava, ascoltava. Quello che lo colpiva in città erano i suoni, la qualità delle canzoni di città: erano, erano, erano senza sentimento. E l’usignolo ascoltava, ascoltava e poi si addormentava.
Cantava poco e quando cantava la sua voce era una goccia in un frastuono, questo faceva bene alla malinconia dell’usignolo; nessun suono lo giudicava mai, nessuno si accorgeva delle sue malinconiche canzoni. E così l’usignolo viveva in solitaria compagnia.

E passavano i giorni e anche i mesi e cambiavano le stagioni e anche i quartieri che l’usignolo visitava ed è un vero peccato che non possa raccontarvi con quanta gentilezza l’usignolo viveva questi cambiamenti, senza neanche un sospiro e con quanta indifferenza la città non lo respingeva mai. Non posso raccontarli perché mi preme il destino dell’usignolo e quando ci preme il destino di qualcuno, non si perde tempo in particolari, ci si precipita subito nella sua vita.
Era una vita davvero sola quella dell’usignolo, non solitaria, perché erano così tanti intorno a lui, ma tanti o pochi fa lo stesso, erano intorno e non in lui.
E le sue canzoni acquistarono una grazia nuova, più segreta, una malinconia senza compagni, l’orgoglio di non essere ascoltati per scelta e non per rifiuto.

E tra i tanti mesi dell’anno venne agosto. E il fracasso con i suoi uomini si spostò altrove. In pochi giorni il silenzio crebbe, crebbe e crebbe anche l’eco.

L’usignolo, all’inizio un po’ intimidito, di ramo in ramo si spostò fino a un grande albero di città, un albero dal nome difficile, ma dalle piccole generose foglie. E cantò.
Cantò la sua malinconia per non aver trovato rifugio nel vento, nel prato, nei campi e nel bosco; cantò perché la luna non lo aveva ascoltato, ormai troppo umana luna, e cantò la vanità dei fiori, i loro amori stagionali. La sua malinconia cantò anche lo scorrere dei rumori senza sentimento, gli appuntamenti traditi, il sensato affaccendarsi degli uomini. Cantò il desiderio di un essere senza senso, cantò il pozzo profondo del cuore in cui nessuno vuole tuffarsi, cantò la fine dell’amore perché tutti temono la sua leggera morte, cantò la fine della gentilezza e cantò se stesso e la sua gratitudine per essere nato così, malinconico.

E si aprirono le persiane di una finestra sulla notte della città deserta e apparve, proprio apparve, il volto bianco di una bambina.
Una bambina né bella né brutta, rimasta indietro nel sensato affaccendarsi degli uomini, una bambina dimenticata.
Con le mani andava tastando il buio e sussurrava: «Chi canta da dentro di me? Chi è uscito dalla compagnia del mio cuore?»

E anche l’usignolo riconobbe la malinconia di quella voce e volò sul davanzale: «Sono io, sono te» le disse col becco sulla mano. La bambina gli volse il palmo, l’usignolo zampettò sul suo velluto.
Non è che da quel giorno l’usignolo diventò meno malinconico, né meno dimenticata la bambina; solo, erano in due a cantare, la bambina con la bocca nel cuscino perché nessuno la ascoltasse, e l’usignolo lontano, nel cuore del fracasso, soli.

Così questa non è la storia di un usignolo né di una bambina, ma la storia di un canto e della sua risonanza.

*** Chandra Livia CANDIANI, 1952, poetessa e scrittrice, L'usignolo, da Sogni dal fiume, La Biblioteca di Vivarium, Milano, 2001. 


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