domenica 8 febbraio 2015

#POLITICA #SOCIETA' / Ma Machiavelli non era machiavellico

Non l'ho mai amato. Anche se, ovviamente, riconosco che è stato il primo grande politologo della storia. E che un suo studio è fondamentale per capire la politica e agire politicamente. Magari anche disattendendo taluni suoi precetti rivolti a chi fa politica e, soprattutto, detiene 'il' potere: per costruire e affermare un potere diverso. Più umano e morale. Perché un'altra politica, continuo a credere, è possibile. Se la si vuole.
Però non attribuiamogli ciò che non ha detto.
Machiavelli non è machiavellico.
Machiavellici lo siamo noi: che ci nascondiamo dietro di lui per poter dare dignità ad un'affermazione rozza e volgare, sempre ripetuta, in genere buttata in faccia con sicumera a chi, si dice, vuole fare l'anima bella e non conosce, ingenuo, la realtà dura della vita e delle relazioni umane. Che esige, e giustifica, che l'anima si sporchi.

Alludo alla frase 'il fine giustifica i mezzi'.

Non sono certo io che scopro la questione. Mi limito qui a ribadirla.
Se leggiamo Il Principe, non troviamo in nessuna pagina una simile affermazione.
Forse, qualcosa che le somiglia, è al capitolo XVIII, dove Machiavelli scrive: «... e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno lodati».
Unicamente a tale scopo il principe deve saper «entrare nel male, necessitato»: nessuna sua azione, neppure la più riprovevole, può essere condannata se volta a «vincere e mantenere lo stato»: «i mezzi saranno sempre ritenuti onorevoli e da ciascuno laudati».
Il senso è chiaro. E la traduzione popolare nel generalissimo 'il fine giustifica i mezzi' è fuorviante perché esce dai confini stretti e specifici definiti da Machiavelli: la ragione di stato.
Il principe è al servizio dello stato, non ne è il padrone. Non può fare quello che vuole: il suo primo obiettivo, vincolante, è difendere lo stato. Per questo fine, ma solo per questo, ogni mezzo sarà «ritenuto onorevole».

In un altro passaggio delle sue opere (Discorsi, I. 58), Machiavelli precisa cosa sia la pazzia: ... «un principe che può fare quello che vuole è un pazzo; un popolo che può fare ciò che vuole non è savio.» 
Dunque: l'agire umano, di tutti, quindi anche di un popolo, ma in particolare di un principe, è limitato. Nessun fine è libero e nessun mezzo può giustificarlo. 

Esattamente il contrario di ciò che noi rozzamente mettiamo sempre in bocca al nostro antenato fiorentino.
Per giustificare le nostre debolezze, quando non nefandezze, dietro un nome illustre.
Peraltro, così, dando ragione a Machiavelli stesso: che non aveva una visione molto positiva degli esseri umani.
Ne era convinto: se gli uomini fossero tutti buoni, i suoi precetti non servirebbero. Invece «nel mondo non è se non vulgo»: e gli esseri umani sono «ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno», pronti a sostenerti nella buona sorte e a rivoltartisi contro nella cattiva. E «sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio».
Per questo, lui crede, un principe che volesse «vivere con integrità e non con astuzia» sarebbe «laudabile», ma porterebbe ben presto alla rovina se stesso e lo stato.
E per questo a un principe che ha come fine la salute dello stato è concesso l'uso di qualunque mezzo sia più conveniente per raggiungere questo obiettivo. 
Ma a un principe.
Non al «volgo»: che non ha uno stato da preservare e non ha certo bisogno di simili precetti per essere ancora più «cupido di guadagno» di quanto già non sia. (mf)

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