lunedì 19 ottobre 2015

#SPILLI / Conflitto, e dintorni (M. Ferrario)

Non voglio polemizzare sul piano personale: solo prendere spunto da uno dei tanti ritornelli che ogni tanto si sentono ripetere, ad opera di intellettuali, opinionisti o anche manager con un'esperienza non secondaria nel settore delle relazioni industriali. 
Riporto qui sotto, in blu, alcune righe estratte da un articolo rilanciato anche in LinkedIn (Mario Sassi, direttore generale di Cfmt, Centro Formazione Terziario, Condividere, collaborare, partecipare. Una sfida non facile per il Paese, blog 'mariosassi.it', 8 ottobre 2015, qui)

«Passare dalla cultura del conflitto a quella della partecipazione non è facile. Soprattutto quando resta l’ideologia del conflitto ma non più la possibilità di farlo. Restano i rancori, le accuse reciproche, la paralisi. È chiaro che non si partecipa né per forza né perché non ci sono altre alternative. In questi casi si subisce solo l’iniziativa altrui.  Purtroppo in Italia siamo fermi qui. Io credo che occorrerebbe procedere per gradi. Innanzitutto sul piano macro. È vero o no che i corpi intermedi sono in discussione? Quindi occorre partire da lì trovando un terreno comune tra sindacati, imprese e associazioni rappresentative sull’identificazione di alcune semplici regole del gioco condivise. E occorrerebbe farlo in fretta. Riconoscimento reciproco, accordo sulla rappresentanza, salvaguardia della contrattazione nazionale, tutele minime per chi non ha un contratto nazionale di riferimento, consolidamento del welfare contrattuale. Ovviamente questo non basta. Occorre andare avanti. Cosa serve oggi al Paese per consolidare la ripresa e attrarre nuovi investimenti? Serve meno burocrazia, rapidità nella giustizia civile e regole semplici sul lavoro che consentano alle  nuove imprese di decollare rapidamente. Cosa serve ai lavoratori? Riduzione del cuneo fiscale, politiche attive, tutele minime, incrementi salariali legati all’andamento aziendale, flessibilità nel lavoro e tra lavori. Beh! Un sindacato in grado di collaborare con le imprese, che sostiene la ripresa e  la accompagna, che condivide con gli imprenditori gli elementi fondamentali di una rinnovata politica economica utile all’ammodernamento del Paese ricrea le condizioni per una ripresa vera di un ruolo propositivo che è altro rispetto alla vecchia concertazione. L’asimmetria di oggi condanna all’irrilevanza tutto il sindacato... (...) ».

Trasecolo.
(1) - Sia perché mi pare che, se esiste un'asimmetria, da decenni, non è quella a favore del sindacato (che pure, come ogni ruolo sociale non secondario, ha responsabilità e colpe anche per come viene gestita la crisi in atto), ma quella, schiacciante e rigorosamente lasciata schiacciante da tutti (sindacato compreso), a favore di finanza, economia e poteri globalizzati: il tutto ben rappresentato, e promosso, dalla ideologia neoliberista, che progredisce immarcescibile tra gli applausi, anche nelle imprese, della cultura marchionnesca in ogni sua forma.
(2) - E sia perché, dal testo che ho riprodotto, si intende demonizzatacon un'incredibile superficialità che mi auguro inconsapevole, la parola 'conflitto'.

Ma dopo aver trasecolato, vado al di là di quanto più o meno lasciato intendere dall'articolo sopra citato.
Voglio contestare una 'musica' suonata ormai da anni e che in questi ultimi tempi ha infittito i decibel: tanto che ci è ormai entrata dentro le orecchie, l'abbiamo fatta nostra e spesso ci troviamo a canticchiarla, magari anche la mattina sotto la doccia, senza neppure accorgercene.

E' triste (benché in linea con lo spirito dell'oggi) dover rammentare la banalità per cui il conflitto fa parte della fisiologia: dei sistemi biologici e dei sistemi sociali. 
Della realtà in quanto tale, insomma.
Dovremmo infatti tutti aver appreso da tempo che, senza conflitto, non c'è vita. E che, per quanto possa piacerci la stabilità, in questo caso la stabilità si chiama morte. 

Così come dovremmo tutti sapere che la risposta al conflitto non è univoca, ma sempre potenzialmente duplice: la guerra o il confronto
Sta a noi scegliere. Ma l'una non è l'altro, e la confusione non aiuta: serve solo a intorbidare le acque concettuali.

Vedere, e far vedere, implicitamente o meno, soltanto il significato di 'guerra' nella parola 'conflitto', è un'operazione che è in corso da almeno 20 anni. 
Ora, i fan delle leadership gloriose affidate agli uomini-soli-al-comando, cui non basta lo 'sdraiamento' generalizzato ottenuto anche nel nome della santa flessibilità (non solo sul piano lavorativo, almeno per chi ha la fortuna di lavorare) e con l'addormentamento di ogni pensiero che ancora cerchi caparbiamente di voler pensare, hanno raggiunto il culmine: chi dissente è un sovversivo. 
Se va meglio, è un gufo, un antipatriota, un nemico dell'Italia 'col segno più': uno che rompe, disturba, frena la retorica di quel luminoso cambiamento che ci consegnerà ad un futuro di felicità. 
Non hanno il coraggio (per ora), i manipolatori del consenso del nuovo che avanza, di proporre apertamente, almeno sul terreno delle relazioni industriali, il divieto di sciopero: ma in sostanza lasciano capire che a questo prima o poi si dovrà giungere (salvo naturalmente fare i democratici finti offesi se gli sveli la mistificazione), usando a difesa l'argomento che non si tratta di attentato alla democrazia, ma di semplice e moderno tentativo di rendere più efficiente e competitivo il funzionamento di imprese e società.

Orbene: io, banalmente (e per quel niente che conto), sto ancora con Hegel, notorio comunista, e la sua triade costituita da 'tesi, antitesi, sintesi'. 
Si chiama dialettica. 
Ed è alla base del confronto. Del processo con cui pulsa la vita. Sperabilmente (se ne siamo capaci), del modo con cui tentiamo di produrre sviluppo. Con il contributo attivo, e non passivo, di ognuno. Anche di chi ha meno, o niente, potere. E ha diritto, come tutti, di dire sì-no, acconsentendo e dissentendo o opponendosi e orientando i processi che lo riguardano.

Il confronto è l'arma di chi non spara. 
Ma ha ancora un pensiero che vuole affermare. 
E una schiena che cerca di mantenere dritta. Anche contrastando, con mezzi leciti e non violenti consentiti tuttora dal diritto (e conquistati a prezzi oggi dimenticati), chi gli chiede, una volta di più e non bastandogli mai, di (in)chinarsi. 
Come se non fossimo già abbastanza (in)chinati: a terra.

E poi ricordiamolo: potere ed economia stanno ben duri e piantati dentro la realtà strutturale e non sono fattori inventati da un pericoloso rivoluzionario in vena di elucubrazioni astratte ispirate dalle nuvole. Forse, per cambiare qualcosa (almeno provarci), più che collaborare occorrerebbe contrastare. Sempre che, ancora, qualcuno voglia cambiare, e non solo adattare o, peggio, adattarsi
Ma questi, si sa (e lo dico da psicologo, ahimè), sono tempi di psicologismi e mind-fulness: troviamoci un buon coach, che ci dia una lucidata alla fiducia in noi stessi e ci esalti la motivazione, e non pensiamoci più. 
La crisi, basta volerlo, passa. 
E se non passa, siamo noi i colpevoli: non partecipiamo abbastanza e ci piace il conflitto.

*** Massimo Ferrario, per Mixtura


7 commenti:

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  2. Intervengo per ricordare che il conflitto interno è stato demonizzato via via che la società si è progressivamente liberalizzata: oserei dire che il neo-liberismo prevede -per il suo mantenimento- un tasso di conflittualità esterna elevato (l'esportazione della democazzzarìa a suon di bombe) ed un tasso di conflittualità interno minimo (l'acquiescenza sociale con governi di sinistra-centro-destra non necessariamente votati). Ma anche votati, come nel caso di Tsipras.

    Quanto alla nota amara di Massimo Ferrario sull'utilizzo di un certo coaching a mo' di edulcorante del clima socio-culturale, non posso negarlo. E' una delle ragioni che mi ha allontanato dalla Federazione Italiana Coach.
    Tuttavia come Executive Coach mi è successo di accompagnare più di un manager a conflitti produttivi con la sua alta dirigenza, una volta sino al Tribunale del Lavoro.
    Quindi non generalizzerei.

    Ciao, Francesco di Coste

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  3. Grazie del tuo commento, Francesco.
    (1) - Il neoliberismo, per quello che vediamo accadere in Italia, ormai da anni (ma tutto si è accentuato e raffinato negli ultimi tempi) demonizza il conflitto e santifica il consenso: ottenuto naturalmente con la manipolazione retorica, il pompaggio vuoto di speranze affidate alla fuffa e fintamente autoresponsabilizzanti e l'adesione passiva e infantilizzata di 'claque' che applaudono il leader. Discussioni (vere), costruite sulla partecipazione attiva e adulta che solo il 'pensiero critico' può garantire, sono oggetti sconosciuti e considerati pericolosi. Del resto, quando si vuole che tutti pensino il pensiero dominante nessuno pensa davvero, tranne chi fa girare il pensiero che si vuole appunto dominante. E l'espressione 'pensiero critico', nell'accezione che dovrebbe essere comune, resta (ignota) sul vocabolario o, nell'accezione storica del 900, rimane chiusa e sconosciuta nei libri (mai consultati). Come anche ci ricorda lo 'splendido' libro, appena uscito, di Luciano Gallino, 'Il denaro, il debito e la doppia crisi. Spiegati ai nipoti', Laterza.
    (2) - Non ce l'ho con il 'coaching' in particolare, ma con tutto lo 'psicologismo-et-similia' che imperversa nella sottocultura da cui siamo avvolti. Un esempio lampante, come ho già ricordato più volte, lo dà la bacheca d LinkedIn: in cui (a parte qualche rara perla che induce riflessione), tra uno spamming e l'altro di se stessi e dei propri prodotti creduti salvifici, sembra si faccia a gara a chi spara (pseudo)cartucce motivazionali più insulse, aventi in comune una 'hola' da stadio ad un 'selfempowerment' da 'pensiero positivo' che richiama più la televendita che la serietà dei professionisti.
    (3) - Come sempre, eccezioni su entrambi i punti 1 e 2 esistono. Per fortuna. E a queste eccezioni occorre aggrapparsi: sia per cercare di costruire, se non una controdentenza, almeno una postazione di resistenza, sia per non cedere alla 'disperanza'.

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  4. Tralascio il discorso sul conflitto che mi vede d’accordo al 100%. Sottolineerei un altro punto su cui “trasecolare”. Cosa serve oggi al Paese per consolidare la ripresa e attrarre nuovi investimenti? Serve meno burocrazia, rapidità nella giustizia civile e regole semplici sul lavoro che consentano alle nuove imprese di decollare rapidamente. Non sono affatto d’accordo.

    Intanto usare la parola “ripresa” sottointende che il mondo possa riprendere più o mono come era prima, sottolineando più la continuità che la discontinuità con il passato, mentre nulla sarà come era prima. Mi piace una immagine usata da alcuni amici che dicono: “il rinascimento non è stato una ripresa del medioevo”, ma qualcosa di radicalmente diverso. Se continuiamo a pensare in termini di “ripresa” e cioè fare le stesse cose di prima, solo un pochino megli, non andiamo da nessuna parte.
    E cos’è che potrebbe aiutare le imprese? Solo una forte progettualità, una “impresa” da realizzare, prodotti e servizi davvero innovativi, imprenditori che abbiamo un sogno, un mondo in testa che vorrebbero realizzare e condividere. E invece siamo circondati da prodotti e servizi banali che ci hanno stancato, che non suscitano nessuna passione o desiderio né in chi li compra né in chi li produce (le poche imprese che hanno davvero “imprese” da realizzare vanno alla grande!).

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  5. Concordo, Stefano.
    Il termine 'ripresa' è ormai 'dentro' di noi e non riusciamo a liberarcene: anche quando sappiamo che niente potrà essere come prima (ma lo sappiamo in pochi, e anche noi pochi abbiamo idee confuse su quale nuovo termine adottare per questo 'dopo' che dovrebbe arrivare e peraltro non arriva - anche perché finora non siamo stati capaci di farlo arrivare).
    Ci stiamo misurando con una complessità mai sperimentata. In molti (ma ancora troppo pochi: e non facciamo tendenza significativa né di pensiero né di azione) scorgiamo i limiti e i pericoli del modello in cui ancora siamo. Ma al di là di questo fatichiamo a individuare l'alternativa. Per ora prevalgono ignoranti e inconsapevoli: il vero rischio è, come sempre, che vincano quelli che 'la fanno semplice'. Che non sono i 'semplici' evangelici, purtroppo. Ma i semplicisti: i cretini.

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  6. Di fronte ad un problema complesso c'è sempre una soluzione semplice.

    Ed è sbagliata. (U. Eco).

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