martedì 27 ottobre 2015

#SENZA_TAGLI / Ma i dirigenti dove sono? (Sandro Catani)

La risposta all’assenteismo di massa al Comune di Sanremo, ultimo scandalo nell’amministrazione pubblica, fa venire il dubbio che le terapie adottate fin qui per estirpare il male siano un’arma spuntata. Forse è arrivato il momento di guardare il problema da una prospettiva diversa, resuscitare il senso del dirigente nella macchina pubblica e portare il caso Stachanov nelle aule universitarie dove si studia l’organizzazione. Perché se l’assenteismo è un peccato veniale, che le imprese private sono abituate a prevedere nelle loro statistiche, quanto accaduto in Liguria è da Guiness dei primati: stando ai numeri riportati dai giornali il 23 % dei circa 500 dipendenti della città ligure sono ritenuti dalla magistratura coinvolti in qualche modo e per un lungo periodo di tempo. Le reazioni invece sono state rituali: l’indignazione della pubblica opinione, le dichiarazioni dei sindacati per il buon nome del dipendente pubblico, le preoccupazioni del Sindaco della città sulle carenze in prospettiva di personale, infine la proposta dell’Autorità anti-corruzione per il licenziamento dei colpevoli in tempi brevi. Tutte ragionevoli. Ma al di là di quelle che spesso appaiono ”grida manzoniane”, per affrontare le patologie che si ripetono (corruzione, assenteismo o semplicemente errori per negligenza) è opportuno volgere lo sguardo ai convitati di pietra, i dirigenti. Possibile che non si accorgano di quanto accade nei casi eclatanti che la stampa denuncia con ritmo quotidiano?

Ad esempio, il Sindaco (dal sito del Comune di Sanremo) ha competenza e poteri di indirizzo, di vigilanza e controllo sulla attività degli Assessori e sovrintende al funzionamento dei servizi e degli uffici e all’esecuzione degli atti. E accanto ci sono i numerosi responsabili dei Settori e Uffici. Costoro non si accorgono di quanto accade intorno a loro? Non possiamo continuare a leggere dell’ufficio tangenti dell’Anas, del malaffare a Roma, della sanità milanese, del Mose di Venezia…. nell’attesa che nuove leggi o regole amministrative correggano i comportamenti devianti. La magistratura potrà intervenire solo in alcuni casi e dopo che” i buoi saranno scappati”. Il miglior controllo, anzi la miglior prevenzione, è la faticosa e continua attività del dirigente, l’animazione, l’esempio, i “premi e punizioni”, la vigilanza giornaliera. Con l’inflazione del termine manager abbiamo dimenticato che la parola dirigente viene dal latino dirigere, la funzione dell’antico re che tracciava i confini appunto diritti della città, per garantire la sua difendibilità e il suo futuro. Così la parola diritto ha finito per assumere un significato etico-morale contrario a disonesto o poco affidabile. Abbiamo bisogno di un numero maggiore di veri dirigenti che interpretino la responsabilità sulle azioni dei collaboratori e non si limitino allo status della sovraintendenza. Bisognerà sceglierli meglio e, perché no, se necessario pagarli meglio. Con un chiaro risvolto della medaglia: i dirigenti che non vedono le prestazioni mediocri o peggio delittuose dei collaboratori ne condividono la responsabilità organizzativa, perdono la qualifica di dirigente, e vengono rimossi.

*** Sandro CATANI, consulente e saggista, Sanremo: assenteisti in Comune. Ma dov'erano i dirigenti?, blog 'ilfattoquotidiano.it', 26 ottobre 2015, qui



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2 commenti:

  1. Caro Massimo,
    quest’articolo di Cattani è molto bello, ma c’è un punto che a me pare decisivo per guardare il problema da una prospettiva diversa, giusto per usare le stesse parole di Cattani. Cattani parla di “resuscitare il senso del dirigente nella macchina pubblica e portare il caso Stachanov nelle aule universitarie dove si studia l’organizzazione”.
    La prima cosa da fare, però, è smettere di vedere la pubblica amministrazione come una macchina. Dobbiamo usare altre metafore.
    La metafora della macchina ci blocca e incosciamente ci fa pensare che l’organizzazione funzioni come una macchina e quindi in modo efficiente, affidabile, prevedibile e funzioni in modo ruotinizzato. Tante parti, ognuna delle quali fa un azione precisa, ben definita.
    Questa metafora funziona bene solo se:
    1) Sì è in presenza di u compito molto chiaro;
    2) Quando l’ambiente è stabile;
    3) Quando si vuole più volte riprodurre lo stesso prodotto
    4) Quando la precisione gioca un ruolo fondamentale.

    Forse c’è stato un periodo in cui la pubblica amministrazione era così, dove i compiti erano chiari e sempre uguali. Ora i limiti di questa metafora sono evidenti. Pensare alla amministrazione pubblica, come a qualsiasi altra organizzazione come una macchina provoca:
    1) Resistenza al cambiamento e scarso adattamento ad un ambiente mutevole;
    2) Burocrazia ottusa e prova di senso della realtà;
    3) De-responsabilizzazione e mancanza di visione d’insieme. Ognuno fa una parte, ma senza visione d’insieme.
    4) I nuovi problemi vengono ignorati perché non sono nelle procedure
    5) Passività dei dipendenti (obbedisco a degli ordini). Scoraggia le iniziative, e incoraggia ad obbedire agli ordine e a rimanere al proprio posto più che tendere a migliorare.

    Stefano Pollini

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  2. Vero, Stefano, condivido. Credo che paragonare la pubblica amministrazione (PA) ad una 'macchina' sia un lapsus evidente: pericoloso.
    Però, se vogliamo che la 'macchina' non sia più una macchina (perché oggi la macchina c'è: e certi tratti di macchina saranno anche ineliminabili, perché la PA non è un'impresa e ha regole (anche sanamente) burocratiche che non possono essere disattese proprio per garantire una 'pubblicità' che le imprese, di natura privatistica, possono permettersi di non avere) occorrono due condizioni (e non so quale delle due deve venire prima): (1) che noi (appunto come tu dici) guardiamo la PA non più come una macchina; (2), che anche che 'loro, da dentro, per gli aspetti di discrezionalità su cui possono agire e soprattutto di cultura che possono e debbono modificare, non si facciano più leggere come macchina.
    Oggi il circolo è vizioso, e bisogna che il cane la smetta di mordersi la coda.
    Il cane, tanto per cambiare, siamo noi, che siamo dentro e fuori: saremo pure homo sapiens sapiens (due volte, sembra, per autorassicurazione...!), ma siamo tuttora vittime prigionieri di una coda tanto quanto lui (e la coda non è solo una metafora...)

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