mercoledì 21 ottobre 2015

#LIBRI PREZIOSI / Il denaro, il debito e la doppia crisi, di Luciano Gallino (recensione di M. Ferrario)

Luciano GALLINO, "Il denaro, il debito e la doppia crisi. 
Spiegati ai nostri nipoti" 
pagine 200, € 18,99, formato ebook € 9,99, Einaudi, 2014

Un'analisi dura, incalzante, ostinata. Un approccio appassionato e teso, che non fa sconti all'osservazione impietosa della realtà, ma che è supportato ad ogni pagina da numeri e dati che mettono in crisi la lettura consolidata oggi prevalente. Un esempio di alto livello di cosa significhi ancora, se si vuole e si ha la capacità di esercitarlo, il 'pensiero critico'. 

La vulgata della visione dominante, ripetuta a pappagallo dalla maggioranza dei media e promossa quotidianamente dai politici, di destra e sinistra, dagli economisti più affermati, dalla oligarchia economico-finanziaria che decide la politica europea con l'aiuto dei pensatoi neoliberali che fanno tendenza, viene smontata pezzo per pezzo: con statistiche e argomenti logici, conseguenziali, che ribaltano i numeri che siamo abituati a dare per assodati e 'veri'. 

Luciano Gallino ci riprova con questo volume: a mettere in discussione l'ideologia dominante da una posizione di sinistra ancora orgogliosa e testarda, che non ha ceduto alla destra, in ogni sua variante (anche in simil-sinistra) e che crede nella urgenza indifferibile di correggere, subito e pesantemente, il capitalismo, per gli effetti disastrosi da questo prodotti a partire dagli anni 90 del secolo scorso e accentuatisi in modo catastrofico con la scelta dell'austerità: propagandata come risolutiva della crisi e ormai, anche per ammissione di parecchi suoi supporter della prima ora, rivelatasi perdente; e basti guardare allo sfracello sociale creato (disuguaglianza alle stelle, povertà, disoccupazione) e alla incapacità dimostrata di produrre 'ripresa'. 

Non è uno dei tanti volumi che si limitano a puntare il dito accusatore sul presente, quasi godendo di poter dimostrare, mettendo in fila ancor più fatti che pensieri, che 'così non va': qua e là si sente anche una certa 'indignazione sofferta' per la 'doppia crisi' in cui siamo: che viene sezionata, con implacabilità, in ogni suo elemento, come un corpo su un tavolo autoptico. La 'doppia  crisi', appunto: rappresentata dalla sinergia tra un capitalismo sempre più suicida, anche per effetto del trionfo fuori controllo della finanza, e un sistema ecologico ormai quasi giunto alla soglia del punto di rottura. 

Spesso, analisi dure come questa si chiudono con un punto debole a livello di proposta. 
Qui invece al 'che fare' sono dedicate pagine precise e puntuali, che provano a indicare azioni concrete e mirate, aventi il minimo tasso di utopicità. 
Certo, anche se non si sognano rivoluzioni impensabili, ma si illustrano con un livello di dettaglio inusuale riforme 'vere', che possono realmente incidere nella sostanza e avviare un cambio netto di politiche, l'impresa che si immagina appare ciclopica: anche perché si tratta di invertire un processo che richiama un Davide, quanto mai disperso, disorganizzato e sempre più percorso da vissuti di impotenza, contro un Golia, che giganteggia e spadroneggia da anni con il consenso plaudente del 'pensiero unico' sempre più arrembante.

Per questo, comunque, un libro fondamentale: anche chi non condivida la visione del mondo dell'autore, credo non possa che restare ammirato dalla competenza, oltre che dalla passione, profusa per sostenere le sue idee. 
In un tempo in cui acquattamento e indifferenza fanno da miscela per una sopravvivenza 'sociale' rassegnata, che trova tutt'alpiù qualche compenso nell'inseguire egoisticamente piccoli traguardi di successo individualistico, chi sa prendere posizione, con argomenti documentati, merita apprezzamento. Da parte mia, se mi è consentito, anche un grazie per l'apprendimento che mi ha fornito.

*** Massimo Ferrario, per Mixtura

«
Al posto del pensiero critico ci ritroviamo, come si è detto, con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la sua vincitrice. È un’ideologia strettamente connessa all’irresistibile ascesa della stupidità al potere. È l’impalcatura delle teorie e delle azioni che prima hanno quasi portato al tracollo l’economia mondiale, poi hanno imposto alla Ue politiche di austerità devastanti per rimediare a una crisi che aveva tutt’altre cause – cioè la stagnazione inarrestabile dell’economia capitalistica, il tentativo di porvi rimedio mediante un accrescimento patologico della finanza, la volontà di riconquista del potere da parte delle classi dominanti. Oltre alla crisi ecologica, che potrebbe essere giunta a un punto di non ritorno. 
Resta pur vero che senza l’apporto di una dose massiccia di stupidità da parte dei governanti, dei politici, e ahimè di una porzione non piccola di tutti noi, le teorie economiche neoliberali non avrebbero mai potuto affermarsi nella misura sconsiderata che abbiamo sott’occhio. Tali teorie non hanno previsto la crisi del 2008; non hanno avanzato una sola spiegazione decente delle sue cause; i loro modelli sono lontani anni luce dalla realtà dell’economia; hanno fatto passare il principio che anzitutto bisogna salvare le banche senza chiedere loro nulla (quanto ai cittadini, se la sbroglino); soprattutto, hanno avallato l’idea che una crescita senza limiti dell’economia capitalistica sia possibile e desiderabile. Avrebbero dovuto essere sepolte da anni dalle proteste, se non anzi dalle risate; sono diventate invece uno strumento iugulatorio di governo delle nostre vite. 
Ma per tornare alla stupidità: sia chiaro che qui la intendo come un comportamento contingente. È possibile che chi pronuncia o commette, in certe occasioni, affermazioni o atti di palese stupidità manifesti, in altri momenti della vita sociale, una normale intelligenza. La stupidità cui mi riferisco è quella che si incontra ogni giorno in campo politico ed economico. Si vedano le politiche di austerità. Hanno provocato disastri d’ogni genere, nel nostro come in altri paesi. Un numero crescente dei loro stessi sostenitori ammette ormai che sono state un fallimento. Lo ha riconosciuto persino uno dei padri nobili di dette politiche, il Fondo monetario internazionale. Ciò nonostante la maggioranza dei nostri governanti e dei politici che le esprimono insiste nel dire, agendo poi di conseguenza, che esse sono la cura migliore per tornare alla crescita, aumentare l’occupazione, rilanciare la competitività e il Pil. Pensate a quanto è successo nell’autunno 2014. All’epoca i disoccupati sono oltre tre milioni. I giovani senza lavoro sfiorano il 45 per cento. La base produttiva ha perso un quarto del suo potenziale. Il Pil ha perso 10-11 punti rispetto all’ultimo anno prima della crisi. E che fa il governo? Si sbraccia allo scopo di introdurre nella legislazione sul lavoro nuove norme che facilitino il licenziamento, riprendendo idee e rapporti dell’Ocse di almeno vent’anni prima. Come non concludere che siamo dinanzi a casi conclamati di stupidità? (o forse di malafede: discutere di come licenziare con meno intralci legali è anche un modo per non discutere dei problemi di cui sopra. Lascio a voi il giudizio).  (Luciano Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi. Spiegati ai nostri nipoti,  Einaudi, 2015)

Alla fine del primo decennio Duemila, l’impronta ecologica dell’umanità era stimata in 1,5. Ciò significa che la popolazione mondiale consuma le risorse biologiche e le capacità di rigenerazione dei terreni, dei mari, dei boschi alla medesima velocità a cui le riprodurrebbe una Terra una volta e mezza piú grande. Detto altrimenti, ogni anno l’umanità consuma biorisorse e servizi rigenerativi degli ecosistemi una volta e mezza piú rapidamente di quanto le une e gli altri siano in grado di riprodursi. Ma ciò avviene soltanto perché l’80 per cento dei consumi è dovuto al 20 per cento della popolazione mondiale. Se i consumi dei restanti quattro quinti – come essi giustamente desiderano – dovessero approssimarsi a quelli dei paesi piú sviluppati, di Terre ce ne vorrebbero quattro o cinque. (Luciano GallinoIl denaro, il debito e la doppia crisi. Spiegati ai nostri nipoti,  Einaudi, 2015)


Una sola cifra può dare un’idea del volume di titoli che non hanno altra base se non un’ipotesi su un futuro scollegato da qualsiasi attività produttiva: per il 2010 si stimava che il valore nozionale o nominale dei derivati in circolazione ammontasse a 1,2 quadrilioni di dollari. Il Pil mondiale di quell’anno arrivava a malapena a 60 trilioni di dollari. La commercializzazione del futuro come merce corrispondeva quindi a 20 volte l’insieme della ricchezza prodotta dal mondo intero in un anno. È vero che il loro valore di mercato era di molto inferiore, ma si trattava comunque di cifre smisurate. È questa una delle maggiori radici della Grande crisi globale. (Luciano GallinoIl denaro, il debito e la doppia crisi. Spiegati ai nostri nipoti,  Einaudi, 2015)
»



* In Mixtura, altri 3 contributi di Luciano Gallino qui 
* Sempre in Mixtura una mia recensione ad un suo precedente libro (Luciano di Gallino, L'impresa responsabile. Un'intervista su Adriano Olivetti, a cura di Paolo Ceri, Einaudi, 2014) qui

Nessun commento:

Posta un commento