Uno studioso che mi ha sempre affascinato, Eduard Lindemann, sosteneva che, se il percorso formativo è valido, sano e apporta valore, diventa difficile capire chi sta imparando di più: se i discenti o il docente.
È un concetto che ha cambiato molto il mio modo di fare formazione, di progettarla e di viverla.
Il formatore si ritrova spesso a proporre e riproporre lo stesso percorso un giorno dopo l’altro, un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro.
È un’automazione tanto positiva – se hai pubblico, vuol dire che sei stato bravo – quanto sfibrante.
L’unica variabile impazzita resta il partecipante. Sarebbe molto sciocco, dunque, non cercare di imparare qualcosa di importante ogni volta, capitalizzando gli spunti che la platea offre e che il dibattito stimola.
Per la prima volta, dopo 12 anni di onorato servizio, svolto presso centinaia di aziende e per numerose società, con pubblici delle tipologie più disparate e livelli di maturità professionale estremamente variegati, provo a fare il punto su quello che mi ha colpito maggiormente, senza ambire a farne un decalogo, ma solo un terreno di riflessione comune.
Ecco cosa mi hanno insegnato i miei discenti:
Le aspettative nei confronti della formazione sono sistematicamente poco realistiche. Nonostante l’accorta scrittura dei programmi, la pedissequa ed estenuante spiegazione di obiettivi, tempi, modi e risultati auspicabili, ci sarà sempre qualcuno che si presenterà lì, al tuo cospetto, per ottenere quello che né tu, né nessun altro al mondo, potrebbe offrire. Il ventaglio di richieste spazia dalla psicoterapia individuale all’ottenimento di consulenza particolare e, ovviamente, gratuita, su problemi specifici. Far notare che si è in un contesto diverso per ottenere benefici diversi, che la formazione è una cosa e la consulenza un’altra, viene vissuto come un rifiuto a collaborare e sarà, pertanto, riportato alla direzione in termini estremamente negativi. Poi vaglielo a spiegare, alla direzione.
Il quantitativo di quelli che “ce li hanno mandati” è ancora desolantemente alto. Parliamo di discenti spediti senza grandi corteggiamenti dalla propria azienda a fare non si sa bene cosa per non si sa bene quale motivo. Si ritrovano a dover trascorrere del tempo con te e altri sconosciuti a scatola chiusa, privi di ogni pulsione motivazionale, di una qualsiasi contestualizzazione, di uno straccio di pre-requisito indispensabile al lavoro d’aula. La parte divertente è che, se loro non imparano, comunque, lo stronzo è il formatore.
Chi avrebbe davvero bisogno di formazione non la fa, però la denigra. Figure centrali, che gestiscono budget, persone e attività complesse, che presidiano processi di problem solving e decision making cruciali per le organizzazioni, si sono misteriosamente fermati alla carriera universitaria e magari al “masterino” post-laurea, per tuffarsi in un inferno di operatività isterica, che taglia la realtà con l’accetta, che si autoalimenta di convinzioni spesso sterili e pericolose, e si rifiuta di mettersi in discussione, finché qualche clamoroso fallimento non mina l’ordine costituito. Ho solo una domanda: perché?
Le mode e i nomi blasonati continuano a esercitare un fascino senza tempo. Le reali competenze tecniche di un trainer e la sua capacità di intervenire in modo serio sull’apprendimento organizzativo di un’azienda passano in secondo piano se il suo cognome non suscita un immediato: “ah, ho capito chi è!” da parte di chi deve sbloccarti il budget.. Fin qui niente di male, poiché il personal branding e il marketing hanno un loro peso, come in tutti i mestieri, ma il meccanismo è leggermente più perverso. Chi si trova nella posizione di scegliere i fornitori per la propria azienda ha comprensibili priorità, tra le quali quella di spendere poco o di fare bella figura coi capi, parandosi il culo per un’eventuale inefficacia del progetto nel suo complesso. Diventa, quindi, una precisa strategia quella di affidarsi ai “big”, senza porsi il problema dell’effettiva utilità in termini squisitamente formativi di questa scelta.
Lo strumento più potente a disposizione di un formatore è sé stesso. Non c’è progettazione, contesto, metodologia che facciano la differenza tanto quanto il metterci tutto quello che sei, come persona, non solo tutto quello che sai, come esperto.
In questo, io ho sempre trovato il vero criterio di giudizio e valutazione.
Il resto è storia.
*** Chiara BOTTINI, consulente, formatrice, scrittrice, Quello che so sulla formazione me l'hanno insegnato i partecipanti, blog 'senzamanuali', 22 ottobre 2015, qui
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