Gira l’ennesima confusione terminologica.
Spesso è in buona fede. Ma ciò non toglie che faccia male.
Come spesso capita, peraltro: il male non sempre è intenzionale, e quello peggiore molte volte è inconsapevole.
Alludo al termine ‘lamentarsi’.
Se ne dà una valenza negativa. Giustamente.
Chi si lamenta, si dice, è improduttivo: si piange addosso, fa la vittima, cerca pietà. E non merita ‘pietas’.
Lamentarsi non serve. Anzi, si ripete la solita frase di moda e diventata un mantra un po’ noioso: ‘così non si va da nessuna parte’.
Ma certo. Condivido. Diamoci da fare. Reagiamo. Se ci sono cose che non vanno, anziché continuare a dire che non vanno, facciamole andare.
Ecco, però. E’ qui che avviene, anche quando è inavvertita, la pericolosa torsione e conversione del verbo.
Perché al verbo viene indebitamente dilatato, più o meno consapevolmente, il significato: fino a comprendere, magari in modo subliminale, anche la salutare, e mai troppo praticata, critica (da ‘krinein’: sceverare, distinguere; dunque anche: non negare i punti deboli; considerare l’altra faccia della luna; valorizzare l’ombra…).
Cioè: si tende a far coincidere il ‘lamentarsi’ con sinonimi che non sono per niente sinonimi. Come: valutare, dissentire, dire di no, mettere in discussione, accusare.
Non ci sto.
Soprattutto oggi. Con i tempi che corrono: e che ci spingono ‘riduttivamente’ a restringerci conformisticamente dentro un pensiero unico, o quasi. E che confondono il tentativo (giusto) di semplificare la realtà, che resta complessa (bianca, nera e sfumata in ogni gradazione di grigio), con lo sbrigativo ‘farla semplice’.
Al punto semplice, che rimane sempre e solo il ‘farla’. E non importa cosa. Né come. Purché sia fatta. In fretta. E senza che nessuno eccepisca. O si lamenti. Di quello che si è deciso.
Io vorrei mantenere, aperta e fermissima, la distinzione.
Un conto è restare ripiegati su se stessi, guardandosi l’ombelico e passando la giornata a piangere lacrime di autocommiserazione, di fatto godendosi masochisticamente il proprio vittimismo.
E un conto è usare il ‘pensiero critico’, sviluppando la capacità del proprio cervello di usare la ‘pars destruens’, applicandola alla realtà che ci circonda. Con l’intento di ‘smuovere’, questa realtà (e le persone che ci stanno dentro), per renderla, possibilmente, diversa da come è.
Non è un caso che ‘chi si lamenta di più di chi si lamenta’ in genere è un fautore, più o meno fan, più o meno consapevole, del ‘pensiero positivo’. Che nella traduzione becera, troppo spesso diffusa da management e consulenza uniti nella lotta alla rimozione dei fatti, significa: “mai disturbare il manovratore”. Intendendo per manovratore qualunque soggetto della realtà: sia l’altro, specie se occupa posizioni di potere, sia noi stessi.
Dunque, di fronte al bicchiere a metà (perché questo è il dato oggettivo, se il bicchiere è a metà), diciamo che in fondo in fondo, il bicchiere, a guardarlo bene, non è neppure mezzo pieno, ma pieno a tre quarti. In definitiva, praticamente, pieno. E facciamoci un bel sorriso. Che fa sempre buon sangue, e così non ci deprimiamo.
Allora.
Io credo invece che abbiamo bisogno certamente di usare di più e meglio la parte che segue a quella ‘distruttiva’ e che, ovviamente, è (o dovrebbe essere) ‘costruttiva’. Ma, come diceva qualcuno, per decidere ‘che fare’ prima bisogna 'capire'. E per capire bisogna analizzare. E per analizzare non bisogna edulcorare la realtà. Per quanto spiacevole essa sia.
Anche in questo caso, so che la consapevolezza, di per sé, non risolve. Non è che subito, presa coscienza, consegue l’azione. Però prendere coscienza aiuta. Ed è comunque attraverso la presa di coscienza, possibilmente diffusa, e non soltanto di chi l’ha già raggiunta (ma il raggiungimento è sempre in fieri ed è sempre un a tendere), che poi possono avvenire i cambiamenti. Quelli veri. Duraturi. Che servono. E non quelli di facciata. Da vendere con le slide. In azienda o altrove.
Se ciò ha qualche fondamento, io continuo a pensare che tra ‘lamentarsi’ e ‘criticare’ una differenza c’è e deve restare: e lo sottolineo usando l’indicativo, non il congiuntivo.
Una differenza alta come un grattacielo.
Sovrapporre i due termini, finendo poi per lamentarsi di chi esercita una critica con il fine di promuovere un dissenso costruttivo che spinga all’azione (e non al pianto individuale o all’autocommiserazione collettiva), è un’operazione profondamente disutile. Perché a priori conservativa: quando non chiaramente reazionaria. Anche se poi tutti, visto che non costa nulla, ci riempiamo la bocca di cambiamento e innovazione.
Una volta, per questa operazione, si sarebbe scomodata ancora la coscienza. Per colpa o dolo, in ogni caso si sarebbe detta: falsa.
*** Massimo Ferrario, per 'Mixtura'.
Anche in 'altrisguardi', Lamentarsi, il pericolo di una confusione, 167, 4 aprile 2014. Il testo è stato pubblicato da Daniela Fregosi, consulente, responsabile della community 'formazione-esperienziale.it' e responsabile del blog 'Afrodite K', Chi si lamenta è un piagnone, in 'Afrodite K', 4 aprile 2014, http://bit.ly/1GNyy0n.
Dall'estate del 2013, Daniela Fregosi, dopo aver scoperto un carcinoma alla mammella, si è impegnata, anche attraverso il blog sopra indicato, in una battaglia pubblica per affermare i diritti di lavoratrici e lavoratori che si ammalano gravemente e che oggi sono ancora senza tutela.
Nessun commento:
Posta un commento