Se hai voglia di entrare in un mondo nuovo, ci
riesci. Sono diventato membro del Cda nel settembre del 2012 e dopo tre mesi ho
tenuto una presentazione in tedesco di un quarto d'ora durante il meeting
annuale di tutti i top manager, senza una riga di appunti davanti. Alla fine ho
incontrato Martin Winterkom, Ceo di Volkswagen, il capo supremo. Vedevo che
durante il mio intervento mi guardava stupito e alla fine mi ha detto: «Ma
allora, da oggi possiamo parlare in tedesco». Gli ho spiegato, in inglese, che
era meglio di no: il mio lavoro è il marketing, quindi far sembrare grandi cose
piccole. E così avevo fatto con il mio tedesco. La mia relazione l'avevo
imparata a memoria, parola per parola, aiutato dai miei collaboratori. Anche la pronuncia. Per
entrare in una cultura nuova si devono fare degli sforzi e a me vengono
abbastanza naturali. Forse proprio perché li ho fatti da piccolo. È la prima
cosa che suggerisco ai giovani: buttatevi, fate esperienza, cambiate ambiente,
cultura; dovunque ci sono sempre cose da imparare, più o meno importanti.
[D: Che differenza c'è tra un manager e un leader?]
Lo spessore umano. Questo viene riconosciuto, sia
dalla squadra che lavora con te sia da tutti i dipendenti dell'azienda o del
gruppo per cui lavori. Non è sufficiente aver studiato tanto, lavorare duro,
essere disciplinato, saper organizzare il lavoro o raggiungere gli obiettivi:
questo fa un buon manager. Ma per coinvolgere gli altri, emozionarli, tirarti
la gente dietro, soprattutto se si è in mezzo ai guai, devi avere altro: lo
spessore, appunto. Cerco di lavorare su me stesso per trasmettere valori che
siano condivisi. Il rispetto del lavoro degli altri conta molto. In Fiat dal
mio ufficio vedevo il tetto di Mirafiori. Era il 2002, un anno cruciale e
difficile. Spesso pensavo a quanti operai stavano sotto quel tetto e sapevo che
loro dipendevano dalle scelte che avremmo fatto sul piano dove stavo io. ‘Se
sbaglio, quelli vanno a casa’. Era un pensiero pazzesco, perché non si trattava
di numeri, ma facce che conoscevo e che incrociavo nei corridoi o in mensa.
[D: Come si trova un punto di equilibrio con
l'esercizio del potere?]
Fino a una decina d'anni fa ero il classico
manager rampante modello Anni 80, che lavorava per carriera, ambizione, soldi,
visibilità. Poi, siccome io ho una vita normale, senza passioni costose, a un
certo punto mi sono fatto una domanda: ‘Cos'è che ti potrà motivare per i
prossimi 20 o 30 anni fino a quando smetterai di lavorare?’. Ho trovato due
risposte. La prima: trovarmi in situazioni in cui posso fare qualcosa che
nessuno ha mai fatto prima. La seconda: vedere che la gente intorno a me
cresce, anche nella leadership, e che magari comincia a fare cose anche meglio
di come le faccio io. Mettere le persone nelle condizioni giuste per tirare
fuori la loro genialità. Ecco, quando si creano queste condizioni io inizio a
carburare, salgono le pulsazioni. Comincio davvero a divertirmi. Posso arrivare
a dire di sentirmi felice. Ma non è che capiti sempre, intendiamoci. Anche a me
toccano riunioni infinite, magari deludenti e giornate storte. Comunque aiuta
non prendersi troppo sul serio, non dare mai le cose per scontate e chiedersi
qual è il punto di vista dei nostri interlocutori. Non si comanda bene con la
verità sempre in tasca.
[D: Cosa paga sul lavoro?]
Il fatto di farlo bene. La competenza,
l'esperienza. Molto più delle cordate o degli appoggi. In Germania c'è una
grande cultura dell'expertise e, su quella, si fa la selezione.
*** Luca DE MEO, marketing manager del gruppo Volkswagen, primo membro straniero del
board di Audi, intervistato da Stefano
Rodi, ‘Sette’, 2 gennaio 2015, estratto).
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