Ho chiesto il permesso e il padrone del ristorante mi ha fatto entrare. Non credo l’abbia fatto per gentilezza, forse solamente non aveva tempo di stare a borbottarmi dietro. Corre da un tavolo ad un altro con un sorriso finto che stacca non appena torna dentro in cucina. Il locale è pieno di gente e di candele bianche accese ad ogni tavolo elegantemente addobbato. Le tovaglie candide, come una sala parto. Ma non si sente l’odore del pulito, coperto com’è dal profumo di pietanze e dal vociare sommesso di gente garbata che conversa tronfia del malcelato orgoglio delle loro costose cene.
Giro tra i tavoli con il mazzo di rose. Non dico una parola. Faccio bastare il mio sorriso dolorante come esortazione a prenderne almeno una, per questa o quella signora dalle dita appesantite da grossi e luccicanti anelli. Gli sguardi non si distolgono nemmeno un istante dai branzini o dalle costate, ed il dialogo ininterrotto è il perfetto alibi per ignorare il resto del genere umano, incluso me. Agli altri tavoli la scena si ripete identica, come se ciascuno stesse recitando un copione studiato a memoria o suggerito dalle etichette dei vini su cui si concentrano gli sguardi grevi dell’imbarazzo generato dai miei abiti, dalla mia presenza o dal colore della mia pelle che vistosamente rischia di minacciare l’affidabilità rassicurante delle bianche tovaglie.
Una cameriera giovanissima che ha osservato la scena, non essendoci più tavoli da molestare, mi fa cenno di accomodarmi vicino all’uscita. Vado per andare. Ma lei, da dietro il bancone, versa un enorme bicchiere d’acqua fresca e lo allunga verso di me. Capisco che l’invito era più per proteggere me che per preservare l’artificiale integrità della sala. Mi offre anche una sedia vicina alla macchinetta del caffè e un tavolinetto dove appoggiare l’intatto mazzo di rose. Sorrido e ringrazio con un movimento quasi impercettibile della testa. La ragazza ricambia non nascondendo un particolare interesse per i miei denti bianchi. Sorseggio con l’avidità imposta dal caldo fastidioso di questa sera d’estate. Da dietro il paramento di legno e stoffa sento provenire i rumori della sala. Stoviglie e piatti, passi e luci, conversazioni e solitudini dorate.
Persino i discorsi arrivano chiari e netti. Quel signore intento a sollazzarsi con un enorme piatto di formaggi e marmellate dice che “una volta erano gli indiani e i cingalesi a rompere i coglioni con le rose, ma che con 2 euro te li toglievi di torno immediatamente. Adesso ci sono i negri che sono arrivati con i barconi, che … se va bene … rubano il lavoro agli altri stranieri che erano qua prima… Questi nuovi … sporchi … e che portano le malattie, che rischi di beccartele mentre stai mangiando qui tranquillo. Come se non bastasse che gli diamo pure da mangiare e da dormire. 35 euro al giorno nei centri di accoglienza e pure il telefonino. E non vogliono fare niente. A casa loro se ne devono tornare…”.
Ha ragione quel signore. Ci vorrei tornare a casa mia. Per rivedere mia madre e miei fratelli. Che non so che fine hanno fatto, se li hanno presi, se li hanno ammazzati.
La ragazza ha ascoltato e mi guarda. Io la guardo e lei abbassa gli occhi che sono pieni di vergogna. Bevo un altro sorso d’acqua, lo assaporo con più avidità. Quand’ero nella pancia di quella barca, l’acqua potevi berne solo un goccio in un giorno intero. La sete ti frustava i reni e la testa cominciava ad annebbiarsi. Guardo quella ragazza mentre asciuga i bicchieri. E’ molto bella e ha negli occhi la luna. Come la mia sposa promessa, che forse non sposerò mai. Che forse non rivedrò più. Questa sedia è comoda. Quando stavo nella pancia di quella barca eravamo tutti accatastati uno sull’altro. Non ti potevi muovere, non ti potevi alzare. Dormivamo nello stesso posto dove pisciavamo e il nostro stesso piscio erano le lenzuola. A farci da cuscino un piede o una gamba di un vicino.
Quel signore avrà finito il formaggio perché chiede cosa c’è come dolce. Ma non ha smesso di parlare di me e della mia gente. Dice cose che forse ha sentito alla televisione oppure da altri come lui che sanno di sapere tutto o lo inventano, che tanto è uguale. Però lui non lo sa come si stava dentro la pancia della barca. Qualcuno è anche morto durante il viaggio ed è rimasto lì, dentro alla pancia della barca, insieme ai vivi che non sapevano se lo erano ancora. I fetidi miasmi di feci e di morte conficcati nel legno e nelle narici, adesso mi sembra di sentirli nuovamente nelle parole di quel signore. Sono uguali. Anzi l’olezzo di queste parole puzza molto di più. Devo andare fuori a respirare. Lascio una rosa alla ragazza, che mi regala un ultimo splendido sorriso. L’unica cosa bella che finora ho trovato qui.
*** Vincenzo ZODA, Ho chiesto il permesso, 'facebook', 15 febbraio 2016, qui
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