Al principio della malattia avevo la sensazione che vi fosse un errore nel mio atteggiamento, e che perciò in certo qual modo fossi responsabile io stesso dell'infelicità. Ma quando uno segue la via dell'individuazione, quando si vive la propria vita, si devono mettere anche gli errori nel conto: la vita non sarebbe completa senza di essi. Non c'è garanzia - neanche per un solo momento - che non cadremo nell'errore o non ci imbatteremo in un pericolo mortale. Possiamo credere che vi sia una strada sicura, ma questa potrebbe essere la via dei morti. Allora, non avviene più nulla o, in ogni caso, non avviene ciò che è giusto. Chiunque prende la strada è come se fosse morto.
Fu solo dopo la malattia che capii quanto sia importante dir di sì al proprio destino. In tal modo forgiamo un io che non si spezza quando accadono cose incomprensibili; un io che regge, che sopporta la verità, e che è capace di far fronte al mondo e al destino. Allora, fare esperienza della disfatta è anche fare esperienza della vittoria. Nulla è turbato - sia dentro che fuori - perché la propria continuità ha resistito alla corrente della vita e del tempo. Ma ciò può avvenire solo quando si rinuncia a intromettersi con aria inquisitiva nell'opera del destino.
Mi sono anche reso conto che si devono accettare i pensieri che ci vengono spontaneamente come una realtà effettiva, al di là di ogni apprezzamento. Naturalmente le categorie di vero e falso saranno sempre presenti, ma in secondo piano, senza essere vincolanti, poiché la presenza dei pensieri è assai più importante della nostra valutazione soggettiva; i giudizi però, in quanto sono anch'essi pensieri, non devono essere repressi: fanno parte della manifestazione della totalità.
*** Carl Gustav JUNG, 1875-1961, medico e psicoanalista svizzero, fondatore della psicologia analitica, Ricordi, sogni, riflessioni di C. G. Jung, a cura di Anna Jaffé, Rizzoli, 1961
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