Affermava Jung in ‘Psicologia dell’inconscio’: “Si fa di tutto anche le cose più strane, pur di sfuggire alla propria anima”. Ed è così. La cosa più incredibile è che anche la psicologia stessa nega ciò che è. Psicologia deriva da psyché che significa spirito, anima e da logos che significa discorso, studio. La psicologia è lo studio dello spirito o dell’ anima.
Eppure in tutta la psicologia l’ anima è negata, messa in un angolo. Come scriveva lo psicologo tedesco Wilhelm Wundt (1832-1920), considerato secondo la tradizione, il padre fondatore della psicologia sperimentale “Quello di anima è un concetto sussidiario alla psicologia”. Io stesso, che pur mi son formato in una società junghiana, l’AIPA di Milano, ho sperimentato sulla mia pelle o meglio, sulla mia anima, di quanto fosse difficile parlare di metafisica. Eppure Jung aveva scritto molto sull’anima e, in una lettera privata da lui inviata ad una amica e pubblicata da Quaglino e Romano nel loro libro ‘Nel giardino di Jung’, si capisce bene ciò che lui pensa dell’ anima. Egli scrive:
“Mia cara signora, mi pare che entrambi concordiamo sul fatto che fisica e scienza abbiano effettivamente conquistato il mondo. Resta da chiedersi però se l’ anima ne abbia tratto qualche vantaggio. Come le è noto, io pratico una psicologia naturalistica, che si potrebbe definire un’anatomia comparata dell’ anima. Il presupposto è che l’ anima sia qualcosa di reale: l’ anima infatti possiede una realtà propria, della quale non ci si può liberare semplicemente ignorandola. Essa è per me un fenomeno inesauribile, anche se non so assolutamente che cosa sia in sé e ho soltanto una vaga idea di cosa non sia. L’unica cosa di cui ho certezza è che essa sa esprimere la totalità dei cosiddetti processi psichici. Guardi attorno a sé, non avrà difficoltà a riconoscere come l’anima sia all’origine di tutte le difficoltà apparentemente insolubili che si accumulano sotto i nostri occhi. Per tale motivo mi è sempre stato a cuore gettare un ponte, o almeno osare un tentativo in tal senso, tra le due discipline che si assumono concretamente la responsabilità della cura dell’ anima: la teologia da un lato e la psicologia dall’altro. Per quanto diverso sia il loro punto di partenza, esse si incontrano nell’anima empirica dell’individuo. Forse non bisognerebbe darsi troppa pena per definire il valore dell’ anima perché questo è rappresentato dalla nostra esistenza. Mi creda. Sinceramente suo, C.G. Jung”
La verità è che noi tutti, medici, psicologi ma purtroppo anche psicoanalisti, spesso sperimentiamo, cataloghiamo e curiamo i sintomi, solo gli epifenomeni della ‘malattia’. Non ci interessa il ‘là’, dove nasce. Non vogliamo guardare o abbiamo paura di guardare.
Hillman aveva coniato una espressione felice: “Fare anima”. Questo è il compito del terapeuta, ma direi di tutti quanti abbiano un compito rispetto agli altri: educatori, medici, insegnanti ma soprattutto genitori.
Diceva Jung nella sua lettera che non sa bene cosa sia l’anima, ma che la sentiva, ne aveva un’esperienza. Di preciso non lo so bene neanch’ io, ma, rispetto a tanti, sono un po’ più fortunato, la intravedo tutti i giorni nei miei pazienti. Sono loro che mi donano questa esperienza rigenerante. Forse non lo sanno ma lo fanno raccontando le loro difficoltà e hanno il coraggio di guardare la loro ombra, E’ quello il momento che mi permette di vedere, a volte in maniera quasi folgorante, l’ anima.
E’ il guardare l’ombra che mostra l’ anima.
Capisco il perché della pratica della confessione per i cattolici.
In fondo per loro è un esercizio quasi quotidiano: vedere la propria ombra per svelare l’ anima.
E’ andare oltre le proprie colonne di Ercole, oltre il mondo conosciuto, razionale, continuamente in difesa, quasi militarizzato dell’Io. Immergersi nell’inconscio e, intravedere il “tutto non conosciuto”.
Che ci importa se poi lo chiamiamo Dio, Allah, Zeus o, pensiamo che sia solo energia in potenza. Da li deriva la nostra vita. Li noi dobbiamo andare quotidianamente per respirare, lì dobbiamo ritornare.
Lì è la genesi e il ritorno di tutte le nostre sofferenze.
Hillman ha torto quando pensa che la terapia abbia finito la sua funzione.
La terapia ha la possibilità di fare anima, aiutando il paziente a vedere la sua ombra. Noi non abbiamo la possibilità di avvicinarci agli archetipi se non riparati, coperti, da ciò che ci appare come miseria e povertà.
Ed è il sorriso non giudicante del terapeuta che permette al paziente di aver pietà per sé. Sperimentare la possibilità di una integrazione, di essere se stesso, di individuarsi.
Non penso proprio che la psicoterapia sia l’unica via per arrivare all’ anima. Anzi.
Credo che l’arte, la natura, il bello, la poesia, la preghiera, la meditazione, la musica l’amore, ci facciano intravvedere “Dio”.
Ma dobbiamo imparare a farlo. Dobbiamo fermarci e soprattutto dobbiamo liberarci da scorie che ci impediscono di vedere, sentire e gustare. Spesso siamo come imbottigliati entro sovrastrutture dell’Io che quasi ci impediscono di vivere e continuiamo ad agitarci ripetendo sempre le stesse cose, gli stessi errori.
Cerchiamo la risposta, come diceva S. Ambrogio, là dove non può essere.
Su questo piano, per fare l’esperienza delle nostra povertà, per intravvedere la via di uscita, possiamo utilizzare la psicoterapia. Ma lì, sulla soglia delle nostre porte di Ercole, finisce anche il suo compito.
Ognuno è solo davanti a Dio.
*** Renzo ZAMBELLO, medico, psicoterapeuta, Anima, l'essenza che la psicologia non cerca, 'psicoterapia junghiana', 22 febbraio 2016, qui
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