Finalmente.
Il Professore aveva coronato il suo sogno: incontrare Grande Vecchio.
Era partito all’alba dalla Locanda dell’Altopiano e aveva camminato per oltre tre ore. Non era abituato all’aria di alta montagna e alla fatica del passo lento necessario per salire i lunghi sentieri in mezzo ai boschi. La sua vita trascorreva tutta all’interno di palazzi squadrati e funzionali, per lo più seriosi e ad aria condizionata, in mezzo a gente grigia e con la cravatta, che parlava di affari, citava numeri, calcolava soldi. Manager, si chiamavano. Erano loro il suo ambiente consueto.
Il Professore aveva insegnato nelle principali scuole aziendali del mondo occidentale. Adesso stava per lasciare e ritirarsi in una piccola villa che si era fatto costruire alle falde di una collina, ai margini di un lago.
Lì avrebbe passato gli anni di riposo, coltivando la sua passione finalmente non più sacrificata ai manuali di management: seminando e incrociando i fiori più strani e seducenti.
Doveva però attendere ancora una stagione universitaria: e quindi continuare a soffrire gli spazi chiusi degli edifici, a curvare la schiena sulle scrivanie e i libri, e a osservare le procedure e riempire i moduli della burocrazia accademica.
Nonostante il suo lavoro gli piacesse – fare ricerca su come sono gestite le organizzazioni e insegnare a governarle al meglio -, attendeva con ansia di potersi dedicare interamente ai suoi beneamati fiori.
La fama di Grande Vecchio da anni girava per il Paese e riuscire a parlargli non era facile, perché tutti conoscevano la sua ritrosìa a incontrare le persone.
D’estate, era noto, gli faceva compagnia Piccolo Uomo: un ragazzino cui era particolarmente affezionato, come fosse un nipote, l’unico cui era disposto a concedere ogni cosa. E infatti, solo grazie a una rete di contatti fidati che avevano coinvolto anche Piccolo Uomo, il Professore era riuscito a 'strappare' un appuntamento.
Ora, tutti e tre, erano seduti nella grotta, ampia e confortevole, davanti a tre tazze fumanti di tè.
Il Professore fissò negli occhi il suo interlocutore.
«E’ un onore per me, Grande Vecchio, poterti porre la domanda che da tanto volevo farti, e so che la tua risposta sarà illuminante».
Grande Vecchio si schermì, ironizzando: «Ti ringrazio della stima e la ricambio, gentile Professore: proverò a risponderti come so. Del resto, ambedue sappiamo che soltanto il sole illumina e anche lui non sempre, a giudicare dalle nuvole che si annunciano oggi a grappoli nel cielo… Ma ti prego, dimmi.»
Il Professore si sentì rinfrancato: gli avevano detto che il saggio della montagna odiava le formalità e non si prendeva molto sul serio.
Riprese. «Riguarda un tema caro ai miei alunni manager, ma tocca la vita in generale. Loro, per mestiere, sono chiamati a fissare obiettivi e ottenere risultati: non possono permettersi di non raggiungerli. Ma al di fuori del lavoro, le cose sono simili. Ognuno di noi deve assolvere compiti, portare a termine attività. Per farlo, abbiamo bisogno di tante cose: competenze, capacità, strumenti, motivazioni. Tutto è importante. Ma, ti domando, secondo te, c’è qualcosa di più importante, di assolutamente fondamentale?»
Grande Vecchio sembrò distrarsi un attimo.
Chiese a Piccolo Uomo di avvicinargli pipa e tabacco, che erano sul tavolo vicino all’imboccatura della grotta.
Caricò il fornello, pressò con accuratezza il tabacco, recuperò i fiammiferi di legno che aveva nel panciotto, accese, tirò la prima boccata.
«Proverò a suggerire una riflessione ricorrendo a una storia. Credo che anche Piccolo Uomo sarà contento… A lui piacciono le storie…».
«Fantastico», esclamò subito Piccolo Uomo, riaccoccolandosi. Gli occhi già sognavano: aspettava soltanto che Grande Vecchio iniziasse.
E Grande Vecchio incominciò.
* * *
C’era una volta un giovane Califfo. Arrogante, prepotente. Avido, tirchio. Preoccupato soltanto di aumentare le sue ricchezze. E con una fissazione: le scommesse. Voleva scommettere su tutto. E con tutti. I suoi sudditi lo temevano: per i modi aggressivi e autoritari, per il suo umore violento. E poi perché li obbligava appunto a scommettere. E lui vinceva sempre. E chi perdeva, lasciava la testa sotto lo spadone del boia.
Un giorno, il giovane Califfo diede ordine di disporre ai lati della piazza della città un grande mucchio di mattoni.
Poi incitò il popolo che aveva chiamato a raccolta.
«Scommetto 10 giare di monete di oro zecchino. Domani, chi riuscirà a spostare, da solo, i mattoni da un lato all’altro della piazza, nel tempo che va dal sorgere al tramonto del sole, vincerà le monete. Chi non riuscirà, darà lavoro al boia.»
Nessuno si faceva avanti.
Il giovane Califfo si arrabbiò.
«Vi concedo tre minuti. Se nessuno avrà il coraggio di proporsi, sceglierò io».
Corse un mormorio tra il popolo. La gente, gli occhi bassi come per non voler vedere quanto sarebbe accaduto e quasi sfuggire, scaramanticamente, agli occhi del Califfo, sussurrava preghiere.
Il Califfo stava per decidere.
Quand’ecco, un vecchio Muratore alzò il braccio.
«Io, eccellenza».
Il Califfo al momento non lo individuò tra la folla. Il Muratore, oltre che anziano, era piccolo di statura. Poi lo mise a fuoco.
Nel silenzio stupito di tutti, riecheggiò la risata di scherno del Califfo.
«Tu? Tu, vecchio, vorresti raccogliere la sfida?»
Il Muratore, impettito, confermò: la voce era alta e netta.
«Vincerò la scommessa, eccellenza. E’ certo».
Il Califfo era sbalordito.
«Non puoi farcela. Io vincerò. E tu perderai la testa».
Il vecchio Muratore ribadì.
«Con rispetto, eccellenza, dichiaro che sarete voi a perdere. E’ certo».
Il Califfo non capiva: ma chi era costui, tanto convinto di sé da apparire sfrontato?
Il Muratore riprese: «Però, eccellenza, per accettare vi chiedo umilmente una condizione: in qualunque momento, domani, nel corso della prova, voi potrete decidere di sospendere la scommessa. In questo caso io vincerò una giara di monete d’oro».
Il Califfo, sempre più stupito, si fece ripetere la condizione, credendo di non avere compreso. Ma aveva capito perfettamente. Una giara di monete d’oro, al posto delle dieci della scommessa, se lui avesse interrotto la prova.
Il suo animo era diviso: da una parte era infuriato, perché un suo suddito aveva osato porgli una condizione; dall’altra, era incuriosito.
Cosa aveva in mente, quel vecchio Muratore?
Come poteva pensare che lui, il Califfo, fosse così sciocco da interrompere la prova per fargli vincere una giara di monete d’oro?
Prevalse la voglia di farsi sfidare.
«Va bene, vecchio. Accetto la condizione. Tanto non interromperò la prova. Tu piuttosto comincia a preoccuparti della tua testa».
L’indomani, all’alba, il popolo era ai bordi della piazza.
Il vecchio Muratore si presentò davanti alla pila di mattoni sereno e deciso.
Il Califfo fece suonare lo squillo di tromba che dava inizio alla prova.
Cominciò il trasporto dei mattoni.
Il Muratore canticchiava: il suo passo era spedito, ma non troppo affrettato; i suoi movimenti erano costanti, sempre uguali. Aveva mattoni nelle due mani, sotto le braccia, in bilico sulla testa: procedeva attento a non farli cadere, canticchiando.
Il Califfo osservava: la montagna dei mattoni da trasportare faceva ombra al sole e solo una pila minuscola di mattoni si formava lentissimamente dall’altro capo della piazza.
Lo squillo di tromba sottolineò che era trascorsa la prima ora.
Il vecchio Muratore, passando davanti al Califfo, sorrise. «Vincerò, eccellenza. E’ certo.»
Il Califfo sogghignò.
«Non ce la farai, è impossibile, io mi terrò l’oro e tu perderai la testa».
«Ho tempo, eccellenza. Prenderò l’oro e manterrò la testa».
Il sole si alzava, i raggi cominciavano a bruciare.
Ad ogni ora si ripeteva la scena: il vecchio Muratore che assicurava che avrebbe vinto e il giovane Califfo che commentava che era impossibile.
Arrivò mezzogiorno. Il caldo era insopportabile. I camerieri portavano bevande fresche al giovane Califfo, a turno i servitori gli asciugavano la fronte con fazzoletti di lino immacolati e gli arieggiavano la faccia con frasche di palma.
Il vecchio Muratore gocciolava sudore in ogni parte del corpo, ma conservava il passo di partenza. Mostrava serenità. Senza mai smettere di camminare, si inchinava al Califfo.
«Vincerò, eccellenza. E’ certo».
Si annunciava la sera.
I mattoni trasportati erano insignificanti rispetto alla catasta ancora enorme che troneggiava al lato opposto della piazza.
Il Califfo gongolava.
«Ho vinto, vecchio Muratore. Manca un‘ora al tramonto. E’ evidente che non ce la puoi fare».
I dignitari assentivano, facendo la riverenza.
Ma il vecchio Muratore era imperturbabile. La sua camminata era quella dell’alba, il vigore sembrava non scalfito dallo sforzo.
Ripeteva: «Ho ancora tempo, eccellenza. Vincerò. E’ certo».
Il Califfo era esterrefatto.
Quel vecchio era pazzo, pensava. Ancora mezz’ora e avrebbe perso la testa.
Come faceva ad essere così sereno?
E poi lo irritava quel suo modo spavaldo: cosa voleva dire con quel “Vincerò. E’ certo”?
Il Muratore gli lesse nel pensiero.
«So quello che pensate, eccellenza. Ma non sono pazzo. La prova non è finita. Io vincerò, voi perderete. E’ certo».
Un quarto d’ora alla fine. I mattoni trasferiti erano un quinto del cumulo da spostare.
Il Califfo provocava: «Sei ancora convinto di vincere, vecchio?».
Il Muratore interruppe il canto che accompagnava i suoi passi, ma non smise di camminare.
«Sì, eccellenza. Vincerò. E’ certo».
A questo punto nell’animo del Califfo cominciò a insinuarsi un dubbio.
Che avesse un segreto diabolico, quell’uomo, da usare all’ultimo minuto? Che fosse capace di magie? Che non fosse un uomo, ma uno spirito maligno?
Non resistette.
«Sei dotato di poteri magici, vecchio Muratore? Farai una fattura e trasporterai i mattoni nell’aria, tutti insieme, all’ultimo momento? O sei un diavolo in sembianze umane?».
Il vecchio Muratore, in quel momento scarico di mattoni, non si trattenne e sghignazzò divertito.
Ripeté, come un disco rotto. «Vincerò, eccellenza. E’ certo».
Il Califfo ormai era infuriato.
«Non puoi rispondermi così, vecchio. Dici che vincerai. Ma il sole sta tramontando: mancano tre minuti allo squillo di tromba finale. E i mattoni che hai trasportato sono appena un quinto di quelli che dovevi trasportare. Se sei convinto ancora che vincerai, dimmi come. Hai un segreto?».
«Sì, eccellenza. Ho un segreto. Un piccolo segreto. Che mi farà vincere. E’ certo», rivelò il Muratore, mentre riprendeva a caricarsi i mattoni in testa.
Il Califfo sudava.
Prese a muoversi avanti e indietro.
Guardò i suoi dignitari: che avevano il volto scuro, non sapevano cosa consigliare.
Non voleva perdere le 10 giare, voleva vincere la scommessa.
Gettò lo sguardo sul Muratore. Avanzava col solito ritmo: prendeva i mattoni da una parte e li scaricava dall’altra. Canticchiava. Aveva il viso stanco, ma esprimeva una calma assoluta. Nonostante il mucchio enorme di mattoni ancora da spostare.
E mancava ormai un minuto al termine della prova.
Il Califfo, mentre il vecchio Muratore gli sfilava davanti per uno dei viaggi finali, tentò per l’ultima volta.
«Sta per suonare la tromba, il sole avvolge il deserto con gli ultimi raggi. Guarda i mattoni che devi ancora trasportare. Convinciti. Hai perso».
Il Muratore era sereno come all’alba.
«Ho un segreto, eccellenza, ve l’ho detto. Mi basta anche un secondo prima dello squillo del trombettiere. Vincerò. E’ certo».
Il Califfo si spazientì. Ordinò: «Dimmi questo segreto».
Il vecchio Muratore, continuando a camminare, osò: «Se lo volete sapere, eccellenza, dovrete interrompere la prova».
Il Califfo imprecò.
«Non se ne parla neppure».
Il vecchio Muratore non si scompose: completò l’ennesima carica di mattoni e riprese il cammino dall’altra parte della piazza.
«Allora niente segreto, eccellenza».
Il Califfo colse il tono di sfida, ma anche l’imperturbabilità del Muratore.
Meditò per qualche secondo.
Poi, sbuffando, sempre più infuriato, si arrese: chinò il capo in segno di affermazione, facendo un cenno al trombettiere.
Il vecchio Muratore volle assicurarsi.
«Ricordate la condizione, eccellenza…? Se interromperete la prova…».
Il sole era sparito all’orizzonte, il soldato obbedì al gesto del Califfo e si tolse dalla bocca la tromba in cui stava per soffiare.
Il Califfo sapeva che doveva onorare l’impegno.
«D’accordo, decido di interrompere la prova».
«E mi darai una giara d’oro?».
«E’ l’impegno», commentò il Califfo. «Ora dimmi il segreto».
Il vecchio Muratore lasciò cadere a terra gli ultimi mattoni.
Avrebbe potuto dare sfogo alla gioia.
Si limitò a dire: «Ho vinto. L’avevo detto. Era certo.»
Il Califfo assentì: «Sì, vecchio, hai vinto la giara della condizione che avevi posto. Non le 10 giare della scommessa. Ma adesso svelami come hai fatto».
* * *
Piccolo Uomo non aveva perso una parola. E così il Professore.
Grande Vecchio si alzò in piedi. Si intuiva che desiderava uscire dalla grotta: il sole aveva preso il posto delle nuvole e l’aria cominciava a intiepidirsi.
«Mi pare non ci sia molto da dire: questa storia mostra la scarsa intelligenza del giovane Califfo», commentò Grande Vecchio. «Nulla di strano: spesso il potere non si accompagna all’intelligenza».
Poi, un po' sornione, guardando negli occhi i suoi interlocutori, proseguì: «Bambini e professori, invece, non avendo potere, possono permettersi di essere intelligenti. Voi quindi, a differenza del Califfo, non avete bisogno che il Muratore vi sveli il segreto. L’avete capito.».
Il Professore non riuscì a nascondere il suo stato d'animo.
«E' una storia incredibile, Grande Vecchio. Che parla di intelligenza, rischio, coraggio, determinazione, impegno, pazienza, fatica, capacità di controllo. Già, controllo. Soprattutto una eccezionale capacità di auto-controllo. Tutte qualità riunite in massimo grado in una sola persona... Una lezione indimenticabile per chi come me si occupa ogni giorno di obiettivi e risultati, spesso è chiamato ad 'insegnarli' ed è ritenuto un esperto di management...».
Grande Vecchio sorrise e non si trattenne. Aveva posto con affetto una mano sulla spalla del Professore e, parlandogli sottovoce, commentò: «Già, Professore, vede cosa può fare un semplice vecchio muratore analfabeta? Ha ottenuto esattamente quello che voleva senza neppure l'aiuto di un consulente...».
Piccolo Uomo aveva finto di non aver sentito per non mettere in imbarazzo l'ospite. Ma il Professore, che non amava i formalismi e sapeva apprezzare l'ironia, proruppe in una risata sonora.
Poi Grande Vecchio uscì dalla grotta e precedette Professore e Piccolo Uomo sullo spiazzo.
Si drizzò in tutta la sua altezza, avvolse il cielo con lo sguardo, si stirò, fece una grande ispirazione: l'aria pura era un godimento per il corpo e lo spirito. Le nuvole della prima mattina avevano ceduto ad un azzurro intenso e omogeneo.
«Il clima è perfetto. Il vento porta uno stuzzicante profumo di resina. Che c’è di meglio, a quest’ora, di una buona camminata nei boschi? Venite? Lasciamo il Califfo a disperarsi tra le sue giare di monete d’oro. Noi, l'oro vero, ce l'abbiamo qui attorno: ed è gratis, se lo sappiamo vedere. Non dobbiamo neppure scommettere le nostre teste... ».
*** Massimo Ferrario, Il Califfo, il Muratore, il Professore, 2009-2016 - Rielaborazione creativa di una favola araba famosa, riportata anche da Jean-Claude Carrière, Il circolo dei cantastorie. Storie, storielle e leggende filosofiche del mondo intero, 1998, Garzanti, Milano, 1998.
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