Quel giorno, quando fece ritorno dalla camminata mattutina, lungo i sentieri della Montagna più Alta, Grande Vecchio notò, sullo spiazzo davanti alla grotta, in attesa, un giovane. Si guardava in giro, come a cercare qualcuno. E con lui, a distanza e in posizione reverente, due uomini, vestiti di abiti preziosi e formali, che contrastavano con l’abbigliamento disinvolto del giovane cui si erano evidentemente accompagnati.
Appena vide Grande Vecchio, il giovane si illuminò. Era alto, biondo, con un viso solare. Si fece incontro e si inchinò, congiungendo le mani. Lo stesso fecero, ai due lati, gli uomini che lo seguivano, volgendo il capo in basso.
«Sono onorato, Grande Vecchio. Finalmente posso incontrarti. Oggi è la giornata più bella della mia vita.»
Grande Vecchio era abituato a sentirsi salutare in questo modo. Da anni ormai abitava sulla Montagna Più Alta. Per arrivare sin lassù bisognava percorrere un cammino di almeno tre giorni, superando difficoltà non piccole: dirupi improvvisi, ripide salite, torrenti e cascate, sentieri appena abbozzati che spesso scomparivano nei boschi e confondevano il viaggiatore poco esperto. Era affezionato a quella montagna anche perché era isolata come nessun altro posto al mondo. Eppure, spesso, anche più di quanto lui avrebbe desiderato, arrivavano visitatori, desiderosi di parlargli, di chiedergli consigli, di avere risposte. Era lo scotto da pagare alla fama di saggio che da anni ormai, in ogni paese della pianura, si era conquistato. E questo nonostante lui si fosse sempre rifiutato di essere considerato una persona speciale. «Non esistono uomini saggi», ripeteva, «esistono uomini che provano a cercare la saggezza».
Grande Vecchio fu comunque colpito dal saluto del giovane. Lo sentì sincero, non rituale. E, in riposta, chinò il capo e congiunse le mani. Quindi sorrise, comunicando disponibilità e interesse all’incontro.
«Buona vita, giovane signore. Per aver fatto tanta strada, immagino avrai buone ragioni».
«Certo, Grande Vecchio. Ho una questione fondamentale da sottoporti. Solo tu mi puoi dare il consiglio che mi serve. Se mi vorrai concedere un po’ del tuo tempo prezioso».
«Hai ragione, mio giovane. Il tempo è prezioso. Troppo spesso lo dimentichiamo. Come dimentichiamo che il tempo non è di nessuno. Siamo noi che siamo del tempo. Io non posseggo nulla, neppure il pronome personale. Comunque sarò ben contento di ascoltarti. Dimmi intanto: chi sei? Se posso permettermi, leggo nel tuo viso un’anima buona e bella, desiderosa di imparare e attenta a fare il giusto».
Il giovane arrossì.
«Mi confondi, Grande Vecchio. So che tu hai la capacità di cogliere ciò che altri non vedono e mi piacerebbe avere un’anima che corrisponde al tuo giudizio. Al momento, comunque, la mia anima è confusa. Si interroga. Ha dubbi. Mentre vorrebbe avere certezze. Anche proprio per poter fare il giusto».
«Mi confermi la lettura che intravvedo di te. Chi è sicuro di sé non ha da imparare ed è convinto di sapere il giusto. E di farlo. Poi, in genere, non lo fa».
Grande Vecchio allargò la faccia e batté una mano sulla spalla del giovane, come per comunicargli la sua volontà di instaurare un rapporto informale. Poi, incamminandosi verso la grotta e togliendosi lo zaino dalle spalle, lo incitò: «Vieni, entriamo. Offro da bere e da mangiare, a te e ai tuoi amici. Ho acqua di sorgente, appena imbottigliata durante la camminata. Oppure conservo te verde e ottimo vino rosso. E ho pane e vari tipi di formaggi stagionati che i contadini della valle mi portano periodicamente. Sarai stanco. Quando il corpo si riposa e si rifocilla, anche il cervello acquista lucidità».
Il Giovane si presentò.
«Sono il Re del Paese dei Tulipani. Mio padre è deceduto il mese scorso dopo una lunga malattia e da anni sono stato preparato alla successione. Ma non si è mai formati a sufficienza per certe responsabilità. Sento la gravità del ruolo. E ho timore di sbagliare. Per questo ti ho voluto incontrare».
Grande Vecchio non si aspettava di trovarsi di fronte a un re, ma non si scompose più di tanto e non cambiò il suo atteggiamento informale.
«Confesso che non conosco i cerimoniali, ma immagino che adesso dovrei inchinarmi e chiamarti maestà».
Era ironico. E si capiva che difficilmente l’avrebbe fatto.
Il Giovane Re si affrettò a rassicurare Grande Vecchio.
«Per carità, Grande Vecchio, anch’io sopporto a fatica i titoli e gli onori. Ti sarò grato se continuerai a darmi del tu. Sono io, se mai, che devo usare un tono di rispetto e ossequio nei tuoi confronti».
Grande Vecchio sorrise. «Siamo esseri umani: fratelli di vita, e questo ci basti». Poi, indicando il grande tavolaccio apparecchiato nell’angolo della grotta, invitò il Giovane e i suoi dignitari a servirsi di cibo e bevande.
«Ecco, Giovane Re, raccontami il tuo problema».
Il Giovane Re fece un cenno ai suoi di accomodarsi e di rifocillarsi. Poi, si appartò in un angolo con Grande Vecchio e si confessò.
«Sono fortunato. Il Paese dei Tulipani di cui sono sovrano da un mese è abitato da un popolo onesto e laborioso, che amava mio padre e che mi sta lanciando segnali di uguale affetto. L’economia è solida, i rapporti con i Paesi confinanti sono buoni, viviamo in pace».
«Dovresti essere felice, Giovane Re».
«Infatti. La sorte, oltre che il buon governo di mio padre, ci ha regalato finora anni dorati. E qui sta il problema».
«Il problema?», domandò Grande Vecchio.
«Sì, il problema», rispose il Giovane Re. «Perché io ho nuove idee per rendere il Paese ancora più florido: voglio snellire la legislazione, diminuire la burocrazia, introdurre l’obbligo di istruzione per tutti, riformare l’agricoltura per distribuire le terre ai contadini, favorire l’avvio di nuove attività produttive. Insomma, il Paese ha risorse da valorizzare e il popolo merita un Paese più progredito. Ed è qui che non so come fare. Per ottenere questi cambiamenti, io ho bisogno del popolo. Non si cambiano le cose dall’alto. Solo se il popolo sente ‘suo’ il cambiamento, avverrà il cambiamento. Una legge giusta ma non capita non sarà mai applicata. E io voglio leggi che il popolo condivide. Voglio che le riforme che io ho in mente siano amate dal popolo».
Grande Vecchio annuiva e faceva trasparire la sua soddisfazione nel sentire questi pensieri.
«Hai ragione, Giovane Re. Stai dicendo cose giuste e forse anche banali. Che però quasi mai vengono seguite. Ed è così che i cambiamenti restano sulla carta: affidati agli editti, magari con il bollo e la ceralacca».
Il Giovane Re era rincuorato.
«Qui sta il punto, Grande Vecchio. Tra il dire e il fare c’è un tempo. E in questo tempo si esprime anche la condivisione delle proposte di cambiamento. Oppure si manifesta la resistenza, il rifiuto, il disinteresse. Ti chiedo: quanto tempo occorre perché un’idea nuova venga accettata, amata, applicata?».
Grande Vecchio finì di versarsi da bere. Poi, prima di tagliarsi una fetta di formaggio, se ne uscì con una sonora risata. Era ovviamente benevola e per nulla irridente. E la accompagnò con un gesto ampio della mano, come a indicare tutti i suoi dubbi.
«Nessuno ha la risposta, Giovane Re. Il tempo varia. Dipende. Da quanto la nuova idea incide sulle abitudini consolidate. Da quanto la nuova legge colpisce interessi e privilegi. Dal numero delle persone coinvolte nella innovazione. Dalle attese di miglior benessere, non solo economico, legate alla riforma che proponi. Sono infinite le variabili. E manca il ricettario».
Il Giovane Re sospirò.
«Speravo», si lasciò sfuggire. Era un po’ deluso, anche se solo in quel momento stava rendendosi conto che la sua richiesta era impossibile da esaudire.
Grande Vecchio si pulì la barba dalle briciole di pane e formaggio.
Poi riprese: «Questo solo ti posso dire, Giovane Re. Il tempo che serve per fare le cose si impara facendole. La vita è un processo, non è mai un evento. Perché le cose avvengano, occorrono pazienza e perseveranza. E molto ascolto. Soprattutto ascolto».
Il Giovane Re si impresse nell’anima le parole. Le capiva, ma non riusciva del tutto a comprenderle. E la sua perplessità traspariva.
Grande Vecchio colse il suo sentimento, ma fece finta di nulla e lasciò assorto il Giovane Re. Poi lo incitò a scegliersi una nuova qualità di formaggio, particolarmente gustosa e piccante.
«Ora è tempo di mangiare. E di accompagnare il cibo con questo vino rosso corposo. La strada per il ritorno è lunga e sarà bene che lo stomaco sia pieno quando inizierai la discesa a valle. La notte sarà lunga e l’umido della montagna si farà sentire anche a un giovane atletico come te».
L’ora successiva trascorse in silenzio.
Al momento del commiato, Grande Vecchio rincuorò il Giovane Re.
«Sarai un ottimo re. E renderai prospero e moderno il Paese dei Tulipani. Ne sono certo. Comunque, a proposito del tuo problema, solo questo ti aggiungo. E spero ti sia di aiuto. Prima di lanciare ogni cambiamento, compra una pianta di glicine. Mettila in terra. E ascoltala».
Il Giovane Re, per quanto stupito, capì che non doveva chiedere, ma solo eseguire il consiglio.
Infatti, appena rientrato a palazzo, si fece acquistare una pianta di glicine. Lui stesso la interrò in un angolo dei giardini della reggia. Ogni giorno, mattina e pomeriggio, la andava a visitare. E la ascoltava.
Arrivò la primavera. E il Giovane Re, sempre religiosamente in ascolto davanti alla piantina, aspettava di vedere nascere le prime foglie verdi e di vedere sbocciare i primi fiori.
Ma non accadeva nulla.
Il Giovane Re pensò allora che la pianta fosse malata. La sradicò e diede ordine di comprarne una nuova.
Anche questa seconda pianta provvide lui stesso a interrarla. E si rimise in ascolto, continuando a visitarla due volte al giorno.
Arrivò la primavera, ma nessun fiore sbocciava: solo qualche timida fogliolina in più.
Il Giovane Re si obbligò a continuare l’ascolto per tutta l’estate e tutto il successivo inverno.
Con la nuova primavera, il glicine rinfoltì le foglie, ma continuava ad essere incapace di produrre fiori.
Il Giovane Re si ricordò di Grande Vecchio e fece ogni sforzo per resistere alla voglia di abbandonare tutto. Mantenne l’abitudine di visitare la piantina mattina e pomeriggio. Le si inginocchiava davanti, ne fissava i rami, la ascoltava.
Passò un altro inverno e giunse la quarta primavera.
Un mattino di maggio, il Giovane Re, mentre ancora da lontano si stava avvicinando al punto del giardino in cui era interrata la pianta, non credette ai suoi occhi. Il glicine era un tripudio. Di foglie verdi e di bottoni pronti a trasformarsi in fiori. E bastarono i due giorni successivi perché il glicine si trasformasse in una cascata di boccioli color lillà, che emettevano un profumo dolce, penetrante, inebriante.
Il Giovane Re, guardando il glicine trionfante, provò commozione.
Ripensò a Grande Vecchio. E comprese.
Comprese che la vita ha i suoi tempi. Che la fretta distrugge i processi. Che anche quando pare che niente avvenga la natura vive e sta preparando i frutti. E che anche l’invisibile, nonostante sia invisibile, esiste ed è vitale.
Ricordò la piantina strappata e si vergognò di averne impedito il quieto e naturale sviluppo.
Allora si disse che era pronto.
Che avrebbe finalmente dato il via al cambiamento nel Paese dei Tulipani. E lo avrebbe realizzato attraverso il popolo e con il popolo. Certo, usando pazienza e perseveranza, ma soprattutto prestando ascolto. Ai problemi, ai bisogni, alle attese dei suoi sudditi. Anche alle loro paure. E accompagnandoli nel processo.
Nei tempi e con i modi in cui il suo popolo desiderava. Sentiva. Poteva.
Forse, aveva compreso, non c’era la ricetta del cambiamento possibile. Ma forse questa era la ricetta possibile.
*** Massimo Ferrario, 2012-2015 - Riscrittura creativa di un’antica fiaba cinese (anche riportata in Nanni Olivero, Il volto irrazionale del management e l’etica della leadership, FrancoAngeli, 2004).
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