Eravamo abituati a vederla come il simbolo della resistenza alla violenza e alle ingiustizie. Fragile e minuta solo in apparenza, dietro il cancello del giardino della bella casa sul lago Inya, a Rangoon, dov’è rimasta confinata per quasi vent’anni fino al 2010. Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, ha sfidato la giunta militare con un coraggio ammirevole e sacrificato gli affetti (un marito e due figli lasciati in Inghilterra) in nome del popolo che suo padre aveva portato verso l’indipendenza, nel 1947, prima di essere assassinato.
Per questo i suoi sostenitori in tutto il mondo sono increduli di fronte al suo silenzio di fronte alla crisi dei migranti rohingya, la minoranza musulmana che vive in Birmania senza cittadinanza né diritti e che fugge dagli attacchi degli estremisti buddisti a bordo di barconi.
Non se ne capacitano i suoi colleghi premi Nobel, il Dalai Lama e Desmond Tutu, che hanno sollecitato un suo intervento in difesa dei rohingya, che probabilmente non arriverà mai. Non se lo spiegano i suoi ammiratori, che in lei avevano riposto le speranze in un paese migliore. L’icona sembra aver lasciato il posto alla leader politica, pragmatica e calcolatrice, che in vista delle elezioni in programma a fine anno preferisce non esprimersi su questioni “sensibili”. (...)
*** Junko TERAO, giornalista, La metamorfosi di Aung San Suu Kyi, 'internazionale.it', 6 giugno 2015
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