sabato 6 giugno 2015

#FAVOLE & RACCONTI / Indira e il Grande Capo (Massimo Ferrario)

Durava da tre minuti, ma era come se fosse un’eternità. In gergo aziendale si chiama sciampo. Ci può andare di mezzo una persona oppure un gruppo intero. 
Una sceneggiata come molte altre. Però non per questo meno pesante. Fastidiosa. Sgradevole. In qualche modo anche terrorizzante. 
Tutti sapevano che quando accadeva non c’era che da aspettare e far passare la tempesta. Nessuno osava interrompere lo sfogo. 
Avrebbero dovuto essere abituati. Ma non lo erano. E ogni volta provavano la frustrazione di chi ritiene di non poter far altro che subire. Come fosse previsto da contratto: assieme alla retribuzione, in busta paga, anche qualche insulto ogni tanto.

Il Grande Capo aveva un carisma indiscusso. 
Aveva fondato l’azienda. In termini di competenza, ma anche di intuito tecnico e di visione strategica, aveva una marcia in più. Lui lo sapeva. Anche troppo. E pure gli altri lo sapevano, e glielo riconoscevano. Però, nei corridoi e alla macchinetta del caffè, quando si lamentavano per come venivano trattati, concordavano sul fatto che se l’azienda aveva avuto successo e continuava ad aumentare fatturato e profitti, c’entravano anche loro: con i prodotti che loro elaboravano, che loro vendevano e che loro introducevano nelle aziende clienti e con la formazione e l’assistenza che loro fornivano agli utilizzatori. Così l’immagine dell’azienda era cresciuta. E ora l’azienda si godeva una posizione di leadership nella nicchia che lui-e-loro si erano conquistati.

Stavolta destinatario della sfuriata era il gruppo di progetto del nuovo software. Una decina di persone. 
La riunione era iniziata da poco. Il responsabile del progetto aveva appena lanciato la terza slide e stava accingendosi a spiegare le ragioni della impostazione tecnica di fondo che il gruppo aveva deciso di privilegiare: si trattava, naturalmente, di un punto fondamentale, perché da qui sarebbero discese poi le specifiche del programma e le modalità operative che avrebbero caratterizzato il nuovo software. La riunione aveva il fine di illustrare appunto al Grande Capo lo stato di avanzamento del progetto, nelle sue linee macro, e ottenere l’approvazione per l’elaborazione operativa del vero e proprio software.

Subito il capo era schizzato in piedi. Come sempre il volto gli diventava paonazzo, una vena del collo si ingrossava e lui camminava a grandi passi per la stanza, percorrendo su e giù lo spazio a U che in cui era allestita la sala, tra le persone sedute immobili. 
Era stata una contestazione totale. Alla radice. Lo stile sferzante, arrogante, svalutativo. Tutto sbagliato. Tutto da rifare. 

Nella foga, a un certo punto al Grande Capo caddero gli occhiali. Proseguì, senza accorgersene. Un membro del gruppo, seduto vicino al punto di caduta, si chinò e li raccolse. Guardò i colleghi, che mantenevano gli occhi bassi, come per essere rassicurato su quanto stava per fare. Nessuno alzò lo sguardo. Il collega porse gli occhiali al capo mentre ripassava davanti al suo posto. Lui se li inforcò meccanicamente senza smettere di urlare e, naturalmente, senza ringraziare.

Lo sfogo durò almeno cinque minuti. Poi il Grande Capo andò a sedersi. Platealmente.

E fu silenzio. Un silenzio che sembrò non finire mai. Ansiogeno. Opprimente.

Le persone avevano gli occhi fissi sul tavolo avanti a sé. Nessuno osava dire qualcosa. Tutti attendevano. Che sarebbe successo a quel punto? La riunione doveva considerarsi chiusa?
Il Grande Capo ‘pennellò’ con lo sguardo ogni partecipante. 
Sembravano tutti scolaretti di una volta, nelle loro posture immobili: quando gli insegnanti godevano di ‘timor reverenziale’ e i prof erano professori e i maestri erano signori maestri.

In fondo alla sala sedeva una donna. 
Era stata assunta da un mese, con contratto a termine. Ingegnere informatico. 
Lavorava in Italia da un anno, sempre come precaria. 
Si chiamava Indira Ganesh: veniva dall’India. Tecnicamente molto brava, apprezzata. Un buon tratto nei rapporti. Stimata dai colleghi. 
Era minuta, un bel viso. 

Alzò un dito, per chiedere la parola. 

Un collega seduto accanto, sempre con la testa bassa, le toccò il braccio, cercando di non farsi notare dagli altri, come per invitarla a non farlo. 
Lei fece finta di non accorgersene e accompagnò il segno del dito con la voce. 
«Scusi, ingegnere…».  

Il Grande Capo la trapassò con gli occhi. Tutti erano attoniti. Preoccupati. Incuriositi.

«Prego», la autorizzò il Grande Capo. 
Lo disse in modo burbero, secco, sbrigativo
«La sua valutazione è stata molto dura. Lei ha rigettato in blocco l’impostazione che noi abbiamo dato al progetto. Non possiamo che prenderne atto. Non sta a me ora decidere cosa fare, come dobbiamo muoverci. Tuttavia, credo che noi abbiamo un dovere: verso di lei, soprattutto, ma anche verso di noi».

Indira parlava lentamente, cercando le parole. E non tanto perché aveva ancora qualche problema con la lingua italiana, ma perché intendeva comunicare il suo pensiero con precisione. 
Fissava in faccia il Grande Capo: appariva sicura e serena. 

«Un dovere?», chiese il Grande Capo, con sorpresa.
«Sì» - proseguì Indira. - «Abbiamo lavorato al progetto per una settimana intera, sabato e domenica compresi, almeno dieci ore al giorno. In questo progetto tutti noi vi abbiamo messo le nostre competenze e la nostra passione. Possiamo avere sbagliato, ma tutto quello che abbiamo fatto l’abbiamo fatto ragionando e discutendo tra noi, valutando i pro e i contro di ogni scelta. L’opzione che abbiamo condiviso è stata il frutto di una lunga analisi. C’erano altre tre ipotesi: le abbiamo scartate in base a precisi ragionamenti. Nelle slide che seguono è stato riassunto il percorso logico che abbiamo sviluppato. Abbiamo cercato di validare la nostra scelta il più scrupolosamente possibile. Le chiediamo di potergliela illustrare. Abbiamo il dovere di farlo: per rispetto verso lei. E per rispetto verso noi stessi.»

Il Grande Capo è colpito dalla dignità pacata e dalla ferma cortesia con cui la donna gli ha parlato. Ma resta scuro in volto e questo, evidentemente, continua a preoccupare: nessuno interviene a supporto della collega. 

Poi, dopo qualche secondo di silenzio, il responsabile del progetto cerca con gli occhi il Grande Capo: è implicita la richiesta, anche se timida, di poter continuare l’esposizione.
Azzarda: «Forse potremmo commentare la logica che abbiamo seguìto finora… L’abbiamo sintetizzata in una decina di slide… Se lei crede, ingegnere, possiamo vederle velocemente… Poi decideremo come attuare la scelta alternativa che lei sembra suggerirci…».
Le parole gli escono timorose, caute, sospese: pronte per essere ritirate, cancellate…

Il Grande Capo fa un cenno sbrigativo perché la riunione prosegua. La proiezione delle diapositive riprende. Il responsabile del progetto recupera sicurezza: illustra con abbondanza di particolari la metodologia, le specifiche, le difficoltà e le opportunità della scelta che si vorrebbe adottare. 
Il Grande Capo è attento, ascolta. Mantiene i suoi dubbi sulla opzione fatta propria dal gruppo di progettazione, ma si lascia convincere dai rischi individuati per le altre soluzioni possibili. Il clima della riunione si rilassa. Si avvia una discussione allargata. Diversi stimoli critici del Grande Capo vengono presi in considerazione: il gruppo si impegna a esplorare più a fondo la scelta, ritarando alcune specifiche e approfondendo talune implicazioni che fino a quel momento erano state sottovalutate.

A fine riunione, il Grande Capo mostra un viso sereno e rasserenante. 
Il responsabile del Progetto chiede quale sia la sua decisione finale.
«Andate avanti. Approfondite quanto ci siamo detti oggi e inserite nell’approccio che avete sviluppato gli aggiustamenti che abbiamo discusso e condiviso ».

Si vede che il Grande Capo è soddisfatto. Una buona riunione. 

Prima di uscire dalla stanza, cerca con l’occhio Indira, che sta raccogliendo le sue carte dal tavolo. 
E’ seria e compunta. Tranquilla. Come chi sa di aver fatto la cosa giusta. 
Lui ha gli occhi che, lievemente, le sorridono. E’ un saluto. 
Ma avrebbe anche potuto essere letto come un ringraziamento.

*** Massimo Ferrario, 2008-2015, per Mixtura - Rielaborazione creativa di uno spunto suggerito da Fred Moody, Wonder Women in the Rude Boy’s Paradise, ‘Fast Company’, giugno-luglio 1996, riportato in Daniel Goleman, Lavorare con intelligenza emotiva, 1998, Rizzoli, Milano, 1998 


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