Chimamanda Ngozi ADICHIE, Americanah, 2013, Einaudi, 2014
traduzione di Andrea Sirotti, pagine 458, € 21.00, ebook € 9,99
Siamo abituati ai romanzi-racconti: rapidi, che si leggono in un soffio.
Questa terza opera di Adichie, come peraltro la precedente (Metà di un sole giallo) ha il respiro largo e lungo. E sono quattrocento pagine divise tra Nigeria, Usa, e ancora, Nigeria.
E' la storia di formazione della giovane nigeriana Ifemelu che dopo un'esperienza in America che le ha fatto conoscere il mondo occidentale, dandole anche un piccolo ma significativo successo come blogger irriverente e impegnata sui temi dei neri americani, sente il bisogno di ritrovare le radici.
Gli Stati Uniti sono stati una tappa utile di crescita: le hanno rimescolato sterotipi, ideali, convinzioni. Le hanno regalato nuove relazioni affettive. Ma, appunto, restano una tappa. E Ifemelu torna a casa, per immergersi nuovamente nell'Africa delle origini: ritrovare, nei suoi ambienti, sensazioni, emozioni, sentimenti che aveva lasciato da studentessa.
La vicenda è raccontata con leggerezza: bella scrittura, descrizioni colorate, molti personaggi che si agitano attorno alla protagonista, sia durante la sua esperienza americana che durante la sua vita nigeriana.
Centrale, a fare da filo rosso del romanzo, Obinze: il ragazzo con cui all'università scoppia un amore appassionato, di quelli 'magici', che si scoprirà essere non solo una infatuazione giovanile e che sarà il motivo conduttore - travagliato, doloroso, ma sempre intenso anche nei momenti di 'sfondo' - della storia.
E' una lettura che chiede tempo: ogni tanto il ritmo sembra cedere, anche perché talvolta eccedono i dettagli e il fiume del racconto prende molti rivoli, in qualche caso forse troppi.
Ma si è premiati dalla abilità dell'autrice, che sa rendere con ricchezza di colori e di toni i contesti sociali, le relazioni, la varietà delle tante figure, in America e in Nigeria, che circondano la protagonista.
Ed emerge, in questo modo, una capacità di indagine sociale non indifferente: acuta e positivamente irrispettosa, che stimola e coinvolge chi legge.
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
° ° °
«
Sul binario a Trenton c’erano persone tre volte piú grosse di lei e ne guardò una con ammirazione, una donna con la gonna molto corta. Non aveva nulla da ridire sulle gambe snelle sfoggiate con le minigonne (era semplice e sicuro, dopotutto, mostrare gambe che incontravano l’approvazione del mondo), ma il gesto di quella donna grassa esprimeva la quieta convinzione che si doveva rendere conto solo a se stessi, un senso di giustezza che gli altri non riuscivano a vedere. (...)
Il domestico del Capo serviva sempre della zuppa speziata appena fatta, pezzi di pesce molto saporiti in un brodo che a Obinze faceva colare il naso, gli chiariva le idee e in qualche modo anche il futuro, riempiendolo di speranza, e allora stava lí contento, ad ascoltare il Capo e i suoi ospiti. Lo affascinava lo smaccato umiliarsi dei quasi ricchi alla presenza dei ricchi, e dei ricchi alla presenza dei molto ricchi; pareva che avere i soldi significasse essere consumati dai soldi. Obinze provava al tempo stesso repulsione e desiderio; li compativa, ma poi fantasticava immaginandosi nei loro panni. (...)
La gente gli diceva spesso che era umile, ma non si trattava di vera umiltà, era solo che non si vantava di appartenere al club dei ricchi e non esercitava i diritti che ne derivavano – essere sgarbato, indifferente, essere salutato piuttosto che salutare – e poiché in genere quelli come lui quei diritti li esercitavano, le sue scelte erano interpretate come umiltà. Non si vantava neppure, e non parlava delle cose che aveva, il che faceva pensare che ne avesse molte di piú. Perfino il suo migliore amico Okwudiba gli diceva spesso quanto fosse umile, cosa che lo infastidiva un po’, perché avrebbe preferito capisse che definire lui umile significava considerare normale la scortesia. Inoltre, aveva sempre considerato l’umiltà qualcosa di illusorio, di inventato per il conforto altrui: se ti elogiavano per la tua umiltà era perché non li facevi sentire in difetto piú di quanto non si sentissero già. Era piuttosto l’onestà che lui considerava un valore; aveva sempre desiderato essere onesto e, al contempo, temuto di non esserlo. (...)
Lei appoggiò la testa alla sua e provò per la prima volta quello che avrebbe spesso provato con lui: l’amore di sé. Attraverso lui apprezzava se stessa. Con lui si sentiva a proprio agio; si sentiva la pelle della taglia giusta. (...)
A lei piaceva che lui indossasse la loro relazione con spavalderia, come una camicia dai colori sgargianti. A volte tutta quella felicità la preoccupava. Allora sprofondava nella malinconia e trattava male Obinze, o lo teneva a distanza. E la sua gioia diventava una cosa inquieta, che le sbatteva le ali dentro come se cercasse un’uscita per volar via. (...)
»
Nessun commento:
Posta un commento