Alessandro ROBECCHI, "Dove sei stanotte", Sellerio, 2015
pagine 252, € 14,00, ebook € 9,99
E' delizia continua.
La penserete così, naturalmente, se siete stati folgorati, come me, dal precedente romanzo di esordio di Alessandro Robecchi (Questa non è una canzone d'amore.
In questo caso l'acquisto può esser fatto a occhi chiusi: l'autore non tradisce. E già questo, nei tempi attuali di facce multiple e di cambi di casacca, potrebbe essere la notizia.
Comprando il libro, infatti, vi assicurate una nuova vicenda del protagonista (un simpatico e incasinato autore di un programma televisivo 'trash'), ma restate in atmosfera: condotti per oltre quattro ore sull'ottovolante senza tregua di una scrittura originale, eccitata ed eccitante, colorata e guizzante, sempre piacevolmente sovratono, che alterna ironia a tratti di comicità intelligente.
Linguaggio rutilante, metafore spiazzanti, vocabolario che oscilla con sapienza tra 'alto' e 'basso': un impasto unico, che contribuisce a non farti staccare dalle pagine.
Insieme, naturalmente ad una storia ben intrecciata, solida, misteriosa: che parte da uno strano giapponese che il protagonista si trova 'imbucato' in casa in una festa di compleanno, passa ad una fantasmagorica e invitante compagnia di immigrati sudamericani e arriva, per la verità con pochi ma 'significativi' omicidi, ad un finale che ovviamente ognuno scoprirà.
Sullo sfondo, ma in primo piano, una Milano da Expo che preannuncia, perché ormai la fantasia è sempre inferiore alla realtà, ciò che nella realtà è già accaduto e leggiamo ogni giorno sulla stampa, nella pagina degli scandali quotidiani. Ma stavolta i fatti riescono ancora a strabiliare: almeno se il lettore è tipo sensibile e ha conservato, ancora, qualche risorsa di indignazione e vorrebbe sentirsi, ancora e disperatamente, cittadino di uno Stato civile.
Una nota merita la nuova relazione del protagonista con la bella ecuadoriana mozzafiato: qualcosa di più, sembra, del solito 'chiodo-scacciachiodo' nei confronti della storia precedente, che si intuiva aver lasciato segni profondi.
Per le scene d'amore la letteratura ha speso ormai ogni descrizione possibile: e le parole, anche quando siano intense e non rituali, rischiano la banalità e la ripetitività. Qui lo stile inventivo dell'autore, che sa usare in modo originale, con abilità e in crescendo, la dimensione poetico-romantica, per poi 'abbassarla' con l'ironia al piano smitizzante della quotidianità, sembra compiere il miracolo: e sono righe che anch'esse si godono per la magia da cui sono avvolte.
Insomma, se la delizia continua c'è spazio per la prossima puntata.
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
° ° °
«
«Lì c’era un posto con una specie di party, un’inaugurazione, qualcosa del genere. Lampade, gli sembra, anche belle, con gente elegante, bicchieri in mano, il chiacchiericcio tipico delle feste.
Carlo e Oscar capiscono al volo: il Salone del Mobile.
Una di quelle festicciole – pardon, evento – in cui si dicono tutti gli «Ohhh» e gli «Uhhh» messi via durante l’inverno, e che servono per lodare questo o quel designer di passaggio in città una volta l’anno, quando a Milano le sedie – quattro gambe, un piano, uno schienale – si chiamano «studi di seduta». Bello, ma sempre un culo ci devi mettere sopra.
Non è facile vivere a Milano, sapete. Può essere uno sport estremo.» (...)
«È qui per l’Expo, dottore?», chiede il tassista.
«Eh?», fa Carlo che era soprappensiero.
«Dico, è qui per l’Expo?».
Sono quegli snodi della vita di un uomo che portano a vie senza uscita, maledizioni divine che colpiscono l’umanità contemporanea, piaghe della modernità.
Carlo sa che se dice sì quello comincerà a parlare dell’Expo.
Se dice no, lo stesso.
Se non risponde, quello insisterà gentilmente.
Il fatto è che il tassista ha qualcosa da dire sull’Expo e la dirà in ogni caso, come quando si gioca a tennis contro il muro. Ecco: Carlo è il muro.
Così prova ad andare giù duro:
«No, vado a un funerale».
Quello sta zitto un attimo, e poi:
«Mi spiace. Brutta cosa i funerali. Poi con ’sto traffico per questa cazzo di Expo...». (...)
Un bar dalle parti dei Navigli.
Dopo l’ora dei pranzi aziendali e prima della sarabanda dell’happy hour. Quindi ci sono solo loro, o quasi. A un tavolino distante, un gruppetto di studenti che adesso non studiano per niente e buttano la giornata. Dietro il banco un tipo annoiato, forse sta aspettando i venti milioni di visitatori dell’Expo, ma per il momento non ne ha visto nemmeno uno. Nel caso si facciano vivi, cambierà il fusto della birra. Nell’aria c’è odore rancido di formaggio fuso sulla piastra, quello scappato dai toast, di cotolette scaldate al microonde, di lavoratori che sono tornati in ufficio, di chiacchiere di segretarie vestite come mogli di calciatori. È uno di quei bar double-face che pullulano in zona, a pranzo mensa impiegatizia, a sera bolgia di aperitivi e birre. Uno entra e chiede la chiave per il bagno, perché qui anche pisciare è una faccenda securitaria. » (Alessandro Robecchi, Dove sei stanotte, Sellerio, 2015)
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