Le cronache dell’inchiesta che coinvolge anche il padre di Renzi danno l’idea di un potere di corta gittata, vecchi amici, compaesani, un piccolo gruppo toscano entusiasta di varcare il portone del Palazzo. È comprensibile che ogni leader si affidi a una cerchia di collaboratori fedeli, e non è vietato che tra questi ci siano amici di infanzia. Ma il cosiddetto “giglio magico” racconta di una rete di relazioni davvero troppo piccina, quasi di campanile, che aiuta anche a capire un poco meglio questi ultimi tormentati anni del Pd.
Difficile dire se abbia pesato di più la gelosia dei vecchi inquilini nei confronti del giovane leader che li spodestava; o viceversa l’ostentato spirito di epurazione di Renzi nei loro confronti; certo è che il risultato è stata una leadership chiusa e incapace di collegialità, al punto di rischiare riforme facilmente azzoppabili perché confezionate “in casa” dai renziani. Un partito di massa, per sua natura, non può rischiare una gestione così autarchica. Perché alla fine non è l’arroganza, ma la fragilità il vero segno che il renzismo rischia di lasciare nel Pd. Un uomo solo al comando è pur sempre un uomo solo: più esposto e più vulnerabile.
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