«La vita non la conoscono»: mi congedò così, tempo fa, il dottor Francesco Dambrosio, storico ginecologo della Mangiagalli di Milano. Si riferiva ai pro-life, quelli che si applicano in fronte l’etichetta di difensori della vita da soli, ma che della vita non solo non sanno nulla, ma se ne fregano proprio. Di quella delle donne, di sicuro.
Si riferiva anche agli obiettori di coscienza che, negli anni, non avevano smesso di boicottare la legge 194, legge che lui aveva contribuito a scrivere nel 1978. E a com’era la situazione prima, quando le donne morivano a migliaia con l’utero perforato o avvelentate dagli estratti di prezzemolo. L’ultima, una diciottenne, Dambrosio l’aveva vista morire in urologia il giorno prima dell’entrata in vigore della legge.
La legge 194, a detta di tutti e confortata dai numeri, è una buona legge. Non solo ha sanato la piaga degli aborti clandestini ma ha anche contribuito, anno dopo anno, a far calare le interruzioni volontarie di gravidanza in generale, e questo grazie alla prevenzione e alla diffusione della contraccezione nei consultori o nel momento in cui le donne si presentavano in ambulatorio per la prima volta. Da tempo, però, la situazione, come si racconta in queste pagine, si è fatta molto più complicata e gli allarmi si moltiplicano, lanciati soprattutto dai medici e da inchieste giornalistiche (meno dalla politica che si tiene abbastanza alla larga dalle questione).
I problemi sono noti: dilagare dell’obiezione di coscienza (che al Nord come al Sud, da Bolzano al Molise, alla Sicilia, può arrivare al 90 per cento), mancato ricambio dei medici man mano che la vecchia guardia va in pensione, chiusura dei consultori. A questi problemi molto specifici (l’obiezione di coscienza fu inserita nella legge come mediazione con la parte cattolica del Paese), si aggiunga il recente scadimento generale del servizio sanitario nazionale (leggi: tagli e accorpamenti), ed ecco servita la situazione allucinante raccontata qui. Cioè trafile da incubo fra porte sbattute in faccia, pellegrinaggi alla ricerca di medici non obiettori, numeri da prendere al volo, prenotazioni, giornate perse, settimane che passano con il corpo che cambia e la gravidanza che procede inesorabile con conseguenze facilmente immaginabili. E servizio a macchia di leopardo (tanti auguri a chi abita in provincia e ha il primo ospedale utile a cinquanta chilometri da casa).
Dunque, se da una parte c’è la buona notizia degli aborti che calano e che per la prima volta si attestano sotto i centomila all’anno, dall’altra c’è il problema che chi deve ricorrere all’aborto pena molto più di prima. Soluzioni sono state proposte, di nuovo dai medici o dai giornalisti, meno dalla politica: tetto degli obiettori al 50 per cento, formazione dei nuovi ginecologi (magari facendo anche un po’ di storia, aggiungo io), una maggior diffusione dell’aborto farmacologico che permette di sveltire e semplificare tutta la trafila (quiz del giorno: come mai in Liguria si arriva al 30 per cento di aborti con Ru486 e in Lombardia si è fermi al 4,5 per cento?).
Giustamente si è notato che gli aborti calano anche perché calano le gravidanze in generale e perché ora esistono metodi contraccettivi d’emergenza molto efficaci, ma non si può non pensare che in una situazione come la nostra, di servizio svuotato e non più garantito, non ci sia di nuovo il ricorso all’aborto clandestino, in nero o fai-da-te, o al turismo abortivo (verso Francia, Svizzera, Slovenia) sulla scia di un turismo medicale che riguarda anche altri settori della salute. È stato di nuovo un medico, Silvio Viale, a farmi notare che man mano che le interruzioni di gravidanza diminuiscono e riguardano un numero molto minore di donne rispetto a trent’anni fa, aumenta il silenzio attorno all’aborto, che diventa un problema individuale da risolvere in fretta e poi dimenticare senza mettersi a fare tante battaglie.
Dunque una questione privata, alla quale negli anni è stata tolta ogni connotazione sociale. Una questione scomoda per la politica, che infatti se ne occupa poco (e non ha fatto nulla per arginare l’obiezione di coscienza), e che pare appassionare meno persino gli ultrà cattolici, spostatisi ora massicciamente sulla questione del cosiddetto “gender”. L’aborto è passato così da problema della società a problema della singola donna, che così si trova ad affrontarlo con maggior difficoltà e solitudine di prima. È giusto? Ovviamente no, e quest’inerzia verso l’oblio che sembra archiviare la questione come un vecchio problema passato è ciò che vogliono quelli che «la vita, non la conoscono». E della vita delle donne se ne fregano proprio.
*** Silvia BALLESTRA, 1969, scrittrice, Così l’aborto è diventato un problema privato, 28 novembre 2015, 'pagina99', qui
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