Un giorno, un uomo che veniva da Occidente giunse in cima alla Montagna più alta del mondo, nel punto più lontano d’Oriente.
Qui sorgeva un monastero e qui vivevano alcune decine di monaci.
Ogni tanto, alcuni del villaggio che abitavano su un altipiano a due giorni di cammino, salivano al monastero, portando offerte rituali e cibo, ma per tutto l’anno i monaci vivevano soli, alternando la meditazione con le pratiche rituali e alcuni piccoli lavori.
L’uomo che veniva da Occidente venne accolto con curiosità: nessuno straniero era mai arrivato sin lassù.
I monaci gli offrirono subito una tazza di tè e gli cinsero il collo con una lunga sciarpa bianca in segno di benvenuto, inchinandosi più volte con le mani giunte, come per un gesto di preghiera.
Poi lo invitarono a visitare il monastero.
L’uomo che veniva da Occidente era ancora più incuriosito dei loro ospiti e annotava tutto quello che vedeva in un piccolo aggeggio che aveva sempre in mano.
Ad un certo punto, un monaco che lo accompagnava nella visita al monastero, gli chiese cosa fosse lo strumento che lui custodiva così gelosamente e usava in continuazione.
L’uomo che veniva da Occidente, con un sorriso bonario, allora rispose: «E’ un piccolo gioiello della tecnologia umana. Una macchina stupida in sé, ma che l’uomo, con la sua intelligenza, ha reso potentissima. Un piccolissimo computer tascabile».
Il monaco sgranò gli occhi.
«Già», proseguì l’uomo intelligente venuto da Occidente, quasi con un pizzico di inconsapevole e malcelato senso di compatimento «qui ancora non sapete cosa siano i computer...».
La visita si stava completando.
Il monaco passò accanto ad una stanza semichiusa, senza fermarsi. Il sole si era quasi tutto abbassato e la luce filtrava a fatica: dal corridoio si intavvedevano dei lumini accesi e si sentiva l’odore acre del burro di yak che bruciava.
L’uomo intelligente che veniva da Occidente notò la stanza semichiusa e chiese al monaco che stava proseguendo davanti a lui se si poteva entrare, per vedere cosa contenesse.
Il monaco sembrò imbarazzato.
«E’ il nostro luogo più sacro», rispose, comunicando con lo sguardo che lui stesso non sapeva se ammetterlo alla visita.
L’uomo intelligente che veniva da Occidente colse l’imbarazzo del monaco e sentì aumentare la curiosità.
Insistette, con gli occhi, facendo intuire che avrebbe tenuto l’atteggiamento più rispettoso, se fosse stato ammesso alla visita.
Il monaco, per compiacere l’ospite, decise di farlo entrare, chiedendogli soltanto di togliersi le scarpe e di procedere a capo chino.
La stanza era enorme, ma lo spazio era ristrettissimo.
Le pareti erano tutte tappezzate di libri, gli scaffali erano profondissimi e i libri erano ordinati in più file sullo stesso piano.
Al centro della stanza, su quattro tavoli, con la luce tremolante di quattro lumini, quattro monaci stavano vergando in bella scrittura le pagine intonse di quattro libri. Gli stessi libri che si potevano poi vedere accumulati, in ordine perfetto, sugli scaffali.
L’uomo intelligente che veniva da Occidente si avvicinò lentamente ai monaci, curvi sulle pagine, cercando di non disturbarne il lavoro.
Le pagine erano tutte uguali.
Su ognuna, in continuazione, erano ripetute due parole: perfettamente ricamate, arabescate, inchiostrate con tutti i colori dell’arcobaleno.
Il monaco, vedendo la faccia stupita dell’ospite, gli sussurrò:
«Sono le due parole yin e yang. Il principio della vita. Le due energie che muovono il mondo: quella attiva e quella passiva».
L’uomo intelligente che veniva da Occidente annuì prontamente:
«Già, il giorno e la notte...».
Ne era a conoscenza.
Aveva letto e soprattutto aveva visto. Navigando per internet aveva incontrato siti che ne parlavano e che mostravano il simbolo del tao: il cerchio, il mandala con il puntino nero in campo bianco e il puntino bianco in campo nero...
Però non capiva lo stesso.
Tutti quei libri, tutte quelle pagine, soltanto per quelle due parole, sempre quelle, solo quelle?
«E’ scritto nelle Scritture Sacre lasciate al nostro monastero tanti secoli fa», riprese il monaco. «E’ il compito assegnatoci. Dobbiamo riscrivere le due parole, che sono la vita, un miliardo di volte. Finchè le scriveremo, terremo il mondo in vita. Quando le avremo scritte un miliardo di volte, il mondo finirà».
«Ma è terribile», disse sottovoce l’uomo intelligente che veniva da Occidente.
«E’ il nostro compito», disse il monaco.
«E’ un lavoro immane».
«E’ per la vita», ribatté il monaco.
«Riscrivere sempre le stesse parole...» sussurrò l’uomo intelligente che veniva da Occidente, quasi parlando a se stesso.
«Ognuno di noi monaci, a turno, vi si dedica. E’ la cosa più sacra che un essere umano possa compiere. Per questo la onoriamo con tutta la diligenza e la maestria di cui siamo capaci».
«Ma richiede un tempo infinito», esclamò l’uomo intelligente che veniva da Occidente.
«No, rispose il monaco. Non un tempo infinito. Solo il tempo della vita», obiettò il monaco con un sorriso, mentre accennava all’uscita.
Il monaco riprese a camminare avanti, facendo strada lungo gli ultimi corridoi del monastero.
Ormai la visita era terminata e si era fatta ora di cena.
L’uomo intelligente che veniva da Occidente procedeva a qualche passo dal monaco.
Era rimasto colpito da quello che aveva visto.
Mentre allungava il passo, tenendo d’occhio il monaco che ormai stava dirigendosi al refettorio, si concentrò sul suo piccolo computer.
Digitò varie volte, poi schiacciò alcuni tasti in sequenza. Pochi secondi.
L’uomo intelligente che veniva da Occidente si illuminò.
«Fatto», sbottò, porgendo l’aggeggio al monaco avanti a lui, che si fermò guardandolo senza capire.
Mancava solo il tasto finale e l’uomo intelligente che veniva da Occidente, raggiante, cliccò.
Comparve una schermata. Poi un’altra. Poi ancora altre. Innumerevoli. Appena qualche decimo di secondo. Ogni schermata zeppa dei termini yin e yang ripetuti ossessivamente.
Fino a un miliardo.
E fu la fine del mondo.
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