martedì 24 novembre 2015

#LIBRI PREZIOSI / "Il segreto del talento", di Sandro Catani (recensione di M. Ferrario)

Sandro CATANI, Il segreto del talento. 
Istruzioni per l'uso
Garzanti, 2015
pagine 172, formato ebook € 7,99

'Col talento si nasce, talentosi si diventa'. Potrebbe essere questa la sintesi che mi costruisco in mente mentre termino la lettura dell'ultima pagina di questo breve saggio di Sandro Catani: uno stimolo intenso e ben argomentato, anche per lo stile non serioso che lo rende decisamente accattivante e agile, su una questione seria, ma ancora troppo spesso più proclamata (e con approcci opinabili) nelle 'slide' dei convegni che attuata in forma di prassi rigorosa nei luoghi educativi (famiglia, scuola, impresa).

Il messaggio che ne esce è duplice: da una parte apre alla fiducia che tutti, se vogliono, possono usare ciò di cui sono naturalmente dotati per eccellere in ciò per cui si sentono più 'portati' (perché non esistono esseri umani superiori predestinati a essere 'vincenti' sugli altri); ma nello stesso tempo, implicitamente, chiama alla responsabilizzazione generalizzata individui e società (perché se l'ambiente, e non i geni, sono alla fine determinanti, occorre che contesto e persone si diano da fare per valorizzare i talenti che sono depositati in noi).

Interessante è il richiamo etimologico che apre il libro: 'tàlanton', in greco, significava originariamente 'inclinazione della bilancia', quindi 'peso', quindi 'misura'. In fondo, tre accezioni che vanno a insistere su una parola, oggi un po' troppo abusata, ma che resta essenziale e imprescindibile: 'valore'. Ecco, il problema dunque è 'dare valore', quindi 'peso', alle nostre 'inclinazioni': prima scoprirle, poi assecondarle e infine impiegarle dando loro piena espressione. 
Non è un processo facile e, soprattutto, non è gratuito: occorre governare un mix di stati d'animo, atteggiamenti e comportamenti che, partendo dallo scoprire se stessi, comprendono il sognare, l'ispirarsi, il progettare, il pianificare e che si riversano poi in azioni concrete e mirate, le quali richiedono fatica, sforzo, anche dolore (basti pensare ai sacrifici necessari ai campioni sportivi per conquistarsi le vittorie). Senza un lavoro duro e costante sul 'talento-che-è-in-noi', il talento resta dissotterrato e improduttivo, come nella famosa parabola evangelica.

Nessun 'elitismo', dunque, legato alla predeterminazione biologica, comoda e rassicurante: ci si esonera dall'agire e ci si affida, con piacere o con rancore, a chi è creduto di 'razza superiore'. Ma una consapevolezza impegnativa: tutti, anche se di qualità diversa, abbiamo stoffa. Il punto è che tra la stoffa e il vestito ci siamo noi e l'ambiente, macro e micro: non nasciamo sarti, ma il mestiere di sarto possiamo apprenderlo, anche a partire da luoghi che ci aiutino a capire di che stoffa siamo fatti e ci facilitino il compito di 'tagliare-e-cucire' le nostre potenzialità per renderle attuali.

La posizione 'teorica' dell'autore è supportata da una esperienza pluriennale nel campo dello sviluppo delle organizzazioni e delle persone. 
Il saggio, comunque, nella prima parte, oltre a riferire aneddoti presi da ogni settore della vita, cita studiosi, esperti e risultati di ricerche che confermano questa visione 'democratica' del talento: il ritmo veloce e lo stile fresco e colloquiale fanno correre le pagine. 
La seconda parte vuole invece offrire una mappa empirica di come il talento può essere messo a frutto: delle condizioni in cui può crescere, esprimersi e continuamente alimentarsi. Vengono in aiuto per questo una quindicina di testimonianze di successo, scelte dai campi di attività più disparati (sport, ristorazione, sharing economy, top management, scultura, consulenza legale, università, musica, alta moda, consulenza direzionale, ecc): sono interviste essenziali e tutte di impatto, che offrono abbondante materiale di riflessione.

Anni fa, un libro, diventato subito famoso nell'ambiente manageriale, annunciava la 'guerra dei talenti', incitando le imprese, in stretta competizione tra loro, a 'dare la caccia' ai 'fuoriclasse', visti come le risorse cruciali per conquistarsi il predominio sui mercati. 
La lettura del saggio di Sandro Catani, invece, invita tutti, imprese e individui, a guardarsi dentro per tirare fuori il meglio che già abbiamo. Magari non saremo i supereroi che sogniamo, ma forse la società, le imprese e noi come singoli, più che di pochi 'talenti superstar', spesso tra l'altro soltanto sedicenti (ma lo si scopre 'dopo'), abbiamo bisogno di 'talentosità': molta, migliore e più diffusa. Un bisogno sempre più urgente, in una società sempre meno riconducibile a schemi e con una complessità e una turbolenza la cui governabilità non può che essere affidata alla dimensione orizzontale di noi tutti più che alla dimensione verticale di pochi 'ariani' al comando.

*** Massimo Ferrario, per Mixtura
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Se chiedete agli amici il significato della parola, tra le risposte vaghe e diverse che riceverete, probabilmente la più frequente sarà: «Chi ce l’ha ce l’ha, chi non ce l’ha non lo avrà mai». Nell’opinione più diffusa, infatti, il talento rimane una qualità innata che un individuo possiede o meno alla nascita, a dispetto dell’evoluzione egualitaria e delle opportunità di crescita rapida dei nostri giorni. La dote naturale consentirebbe a pochi individui di eccellere senza sforzi particolari nei campi più diversi, dal calcio alla matematica, nella musica come in cucina. Secondo questa visione aristocratica, i dotati si riconoscono già in età precoce. Nella fascia superiore degli eletti ci sono gli overgifted, i bambini prodigio. Il bambino prodigio per antonomasia fu Mozart che, secondo la vulgata, già a quattro anni scriveva melodie straordinarie. E lo fu Giotto, scoperto da Cimabue mentre, pastorello, accudiva le pecore del padre e disegnava sui sassi.  
Una visione antica, semplicistica, che però molti ancora condividono. 
Per fortuna esistono le prove che il talento non funziona in questo modo. (Sandro Catani, Il segreto del talento, Garzanti, 2015)

... l'’intelligenza cognitiva non conduce in modo automatico al successo, e spesso neanche a una vita felice. Una conferma tragica fu William James Sidis, famoso per il suo QI superiore a 250. I genitori Boris e Sarah, due colti ebrei russi, lo sottoposero a un processo educativo che, se lo mise in grado di prestazioni intellettuali straordinarie, sul piano umano non fu altrettanto efficace. La storia ha ispirato numerosi libri e film tra cui il celebre Genio ribelle, interpretato da Matt Damon. A sei mesi William James Sidis pronunciò la prima parola («door»), a un anno e mezzo era in grado di leggere il «New York Times» e a tre anni il De Bello Gallico in latino. A quattro anni parlava dieci lingue e a cinque scriveva poesie in francese. Si dice che parlasse quaranta lingue e che fosse in grado impararne una nuova in tre giorni. A otto anni superò il test di ammissione all’Università di Harvard. Morì a quarantasei anni per emorragia cerebrale, dopo aver rotto i rapporti con la famiglia, ritrovandosi dimenticato da tutti e disperato. (Sandro Catani, Il segreto del talento, Garzanti, 2015)

Un caso famoso di apprendimento è quello di James Earl Jones, l’attore che ha dato la voce a Dart Fener, il signore del lato oscuro della forza, nella versione originale della saga Guerre Stellari. Attore versatile, Jones ha interpretato Thulsa Doom, il potente stregone in Conan il barbaro, ha doppiato l’imperatore della notte nel film di animazione I sogni di Pinocchio, e Mufasa nei lungometraggi della serie Il re leone. È inoltre la voce dietro lo storico annuncio «This is CNN». La sua storia è sorprendente. Segnato da una grave forma di balbuzie, da bambino rifiutò di parlare ad alta voce per otto anni. Rimase muto volontariamente fino alla scuola superiore quando Donald Crouch, un suo insegnante, riuscì a fargli superare il problema. Avendo scoperto che James era bravo nello scrivere poesie, valorizzò questa dote dandogli sicurezza e lo aiutò a uscire dal silenzio e a fare proprio della voce la sua professione. (Sandro Catani, Il segreto del talento, Garzanti, 2015)
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