Gli Stati Uniti sono stati fondati sul principio che tutti gli uomini sono creati uguali. Tuttavia, il primo atto della storia americana è stato il tentato genocidio dei popoli indigeni e il furto delle loro terre. La ricchezza della nazione è stata costruita sullo sfruttamento degli africani deportati e schiavizzati e dei loro discendenti. Le donne si sono viste negare il diritto di voto fino al 1920, le afroamericane fino al 1965.
L’identity politics, letteralmente «politica delle identità», si sofferma sulle barriere che specifici gruppi sono costretti ad affrontare nella loro lotta per l’uguaglianza. Benché in America non siamo ancora riusciti a realizzare il nostro principio fondante, dobbiamo ogni progresso compiuto in quella direzione alla politica delle identità. L’identità di quanti siedono nelle stanze del potere in questo paese è rimasta immutata: si tratta di bianchi, maschi, di ceto medio alto, senza disabilità fisiche. Non è una pedanteria dettata dal politicamente corretto. Le decisioni prese in quelle stanze condizionano le vite di coloro che ne restano fuori. Non importa che non ci sia l’intenzione meditata di escludere: l’esclusione si produce a prescindere dalle intenzioni.
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